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Pietro Greco – La Scienza e l’Europa. Dal secondo dopoguerra a oggi [L’Asino d’oro edizioni, Roma 2018]

Se l’Europa dimentica Galileo. Storia di un declino (reversibile)

 

Roma, 19 luglio 1943. Mentre l’Europa si consuma tra odio, bombe e sangue, due ragazzi trascinano su un carretto le ragioni della sua futura rinascita. La cittadella universitaria, nel quartiere di San Lorenzo, è sotto una pioggia di granate e proprio lì dei giovani fisici hanno da poco messo a punto un apparato elettronico che promette di fare un po’ di chiarezza nello “zoo di particelle” di cui si comincia a supporre sia fatta la materia dell’universo. Quello strumento va salvato, assolutamente. E così Edoardo Amaldi e Oreste Piccioni, poco più che trentenni, decidono di trasferirlo nel Liceo Virgilio, in via Giulia. Se riusciamo a trasferire l’attrezzatura nei sotterranei di una scuola a due passi dalla Santa Sede, pensano, il nostro lavoro sarà salvo. E così fu.

Mentre tutt’intorno il mondo si sfasciava, quei giovani studiosi avevano progettato e costruito un rilevatore di particelle non solo per tenersi aggrappati al mondo (facevano il loro lavoro nonostante tutto), ma per provare ad afferrarne, del mondo, la natura. E in effetti dagli scantinati del Liceo Virgilio vengono fuori scoperte incredibili. «La moderna fisica delle particelle nasce negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, quando un gruppo di giovani italiani comincia un esperimento davvero importante», dirà l’americano Luis Alvarez nel suo discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel nel dicembre del ’68. Forte anche dei risultati di quegli esperimenti, Edoardo Amaldi sarà presto riconosciuto come un punto di riferimento di una comunità scientifica desiderosa di mettere insieme i cocci di un sogno infranto da trent’anni di guerra. Visionario e concreto al tempo stesso, Amaldi si farà portatore del progetto di una “fisica a scala continentale”, perché è solo integrando in un grande centro di ricerca tutte le competenze europee che si può sperare di competere con gli Stati Uniti. È da quello sforzo e da quella intuizione che nel 1954 nasce il Cern, Conseil européen pour la recherche nucléaire, il “tempio della particelle”. Amaldi fu il suo primo segretario generale e, fino alla realizzazione del mega laboratorio di Ginevra, l’Istituto di Fisica della Sapienza di Roma fa da sede provvisoria. Quel che il Cern ha significato non solo per la scienza ma per il nostro modo di vivere, dalla nascita del web alla scoperta della particella di Dio, è storia. «I fisici sono dunque i primi europei ad avere un progetto comune e l’Europa che promuove il Cern sembra proprio voler ripartire dalla scienza, uscita disastrata dalle vicende belliche e dall’avventura nazifascista» (p. 22) scrive Pietro Greco in La Scienza e l’Europa. Dal secondo dopoguerra a oggi, quinto e ultimo volume di un avvincente, appassionata, utile e ammirevole opera che attraversa la storia della scienza europea dalle origini ioniche ai giorni nostri.

La tesi di Greco in quest’opera (che, se posso permettermi, un po’ gli rassomiglia: piena di sostanza, sempre rispettosa dell’interlocutore/lettore) è che scienza ed Europa sono due facce della stessa medaglia: oggi è in crisi l’una perché è entrata in crisi l’altra. Dal ‘600 agli inizi del ‘900 il Vecchio Continente ha detenuto il monopolio assoluto degli investimenti in ricerca, un indice che l’autore traduce nella formula “fiducia nella scienza”, e proprio per questo ha detenuto la leadership economica e politica mondiale. Nel XX secolo Usa, Unione Sovietica e Giappone hanno reso plurale la spinta verso l’innovazione, con più poli a sviluppare risorse scientifiche e tecnologiche. Dagli inizi del XXI secolo le cose sono cambiate e anche il ruolo di terza gamba del sistema scientifico planetario è andato perduto. Il libro è ricco di numeri e tabelle, ma ne bastano pochi per rendere l’idea del declino europeo. Oggi l’Europa è la parte del mondo che ha meno fiducia nella ricerca scientifica se è vero che investe in scienza l’1,69 della ricchezza prodotta contro il 2,32 delle Americhe e l’1,91 dell’Asia. L’Europa sconta una crescita inadeguata del numero di ricercatori, il 18 per cento del totale mondiale (1.300.990 contro gli 1,4 milioni rispettivamente della Cina e degli Usa) e, con buona pace del carattere spesso controverso dei ranking universitari, solo due atenei sui primi dieci al mondo sono europei (entrambi inglesi).

L’Europa sta dimenticando Galileo? Sembrerebbe di sì. Gli europei stanno vivendo un declino, anche se differenziale. Quando si parla di Europa si parla infatti di realtà molto diverse tra loro, almeno quattro. C’è un’“area teutonica”, centrata sulla Germania e che si estende dal Mar del Nord alle Alpi, con un pil superiore a quello degli Usa, una percentuale di spesa in ricerca del 2,48 per cento della ricchezza prodotta e una quota dell’export mondiale hitech pari al 16,54 per cento. Un primato mondiale. Dati che però sbiadiscono con progressione esponenziale man mano che si passa all’“area anglo-francese”, “mediterranea” e infine “orientale”. La classifica dei brevetti è impietosa: in un anno l’area teutonica ottiene 247 brevetti per milioni di abitanti, contro i 50 di quella francese, i 16 di quella mediterranea e i 2 di quella orientale. Nonostante l’“isola” teutonica, il continente arranca e lo dimostra nella sua crudezza la stessa provenienza geografica dei Nobel: dal 1901 al 1933 sono 91 i Nobel europei e solo 9 provengono dal resto del mondo; dal 1934 al 1966 si contano 53 europei e 47 non europei; dal 1967 al 2017 sono solo 33 gli europei contro 77 “extra-comunitari”. E, si noti, in questa ultima tranche sono solo 7 i tedeschi e sono ben 50 gli statunitensi. I teutonici, insomma, anche da soli non potrebbero farcela.

Cosa è successo? Il mondo è cambiato e l’Europa non ha saputo governare la modernità. Sono tante le ragioni analizzate da Greco, ma una secondo me merita un po’ più di attenzione. Fino agli anni ’70 i rapporti tra scienza ed Europa erano saldi, poi qualcosa si è rotto con la prima grande crisi economica del dopo guerra. Una crisi, soprattutto se è grave, può avere tanti sbocchi, costringe a decisioni e può anche rivelarsi utile. «Purtroppo in quegli anni Settanta si perde l’occasione. Gli interventi sono di carattere difensivo. L’Europa cerca con determinazione di evitare il fallimento di grandi aziende finanziando la ristrutturazione o la riconversione di impianti» (p. 215) senza fare nulla però per ovviare alla sempre più evidente mancanza di massa critica in molti ambiti della ricerca dovuta alla frammentazione nazionale e alla dimensione troppo piccola delle imprese continentali. «Il mondo cambia – scrive il giornalista ischitano – e l’Europa non se ne accorge. Tura le falle del vecchio sistema ma non ne crea di nuovi. Non dove, almeno, è puntato l’indice dello sviluppo scientifico» (p. 225). A testimoniarlo sono per esempio le promesse che l’Europa ha disatteso di fronte a se stessa con la Strategia di Lisbona. Nel 2000 i capi di Stato si danno l’obiettivo di far diventare entro il 2010 il Vecchio Continente leader mondiale dell’economia della conoscenza. Si tratta di un piano elaborato ben dieci anni prima dalla Commissione Delors nel celebre Libro Bianco su crescita, competitività e occupazione. Sappiamo com’è finita e come sta andando, soldi spesi per drogare mercati che non hanno più senso di esistere piuttosto che puntare su ricerca di base, trasferimento tecnologico, formazione, lavoro altamente qualificato, creazione di hub metropolitani ad alto tasso cognitivo.

Tutto è perduto? Non sembrerebbe, il processo è reversibile dice Greco. Le ragioni sono quelle già indicate, la capacità di diagnosi delle stesse istituzioni europee non mancano, ma è mancata la forza di dar loro un seguito. A dare un segno di speranza però non è tanto o non è solo la fiducia che a una giusta diagnosi segua presto una altrettanto corretta terapia. Segni di speranza germogliano nelle pagine in cui Greco descrive le traiettorie del pensiero scientifico del XX secolo: gli sforzi teoretici e ingegneristici dei matematici (filosofi del nostro tempo) ispirati da Alan Turing e dal suo “On Computable Numbers” nella progettazione delle prime macchine pensanti, la creazione in solitario del primo calcolatore elettronico per mano di Konrad Zuse, l’elaborazione dell’architettura del computer così come oggi lo conosciamo per opera di Von Veumann (ungherese trapiantato negli States), le felici collaborazioni per l’elaborazione della “teoria matematica della comunicazione” fino alla nascita della matematica del caos; i progressi della chimica, l’invenzione della macchine molecolari, di nuovi materiali (il “Moplen” di Natta!) e poi le domande a cavallo tra fisica e biologia partorite dalle menti di Erwin Schrödinger, Niel Bohr e Max Delbruck su come funzioni la vita, la nascita della biologia molecolare, la scoperta degli acidi nucleici e del Dna; le teorie cosmologiche del Big Bang, («In un lasso di tempo inferiore a quello necessario per cucinare l’anatra e le patate arrosto si formano tutti gli elementi dell’universo», dirà il suo ideatore, l’eccentrico quanto geniale George Gamow, fisico russo anch’egli trapiantato negli Stati Uniti), la scoperta di una massa e di un’energia oscura e persino la loro calcolabilità, le costanti conferme delle visioni cosmologiche assolutamente controintuitive di Einstein; e, ancora, le imprese della medicina, il trionfo dei vaccini sulle malattie infettive, la costruzione di strumenti in grado di fotografare l’organismo e, addirittura, il cervello in funzione.

Non a tutti ma a moltissimi di questi processi hanno partecipato da protagonisti scienziati europei. Il dileggio per il sapere e l’idiosincrasia per la conoscenza sono alla moda e persino al potere. Eppure la storia ha un peso. E la storia ci lascia in eredità teorie, progetti, visioni, macchine, strumenti e concetti che ci hanno cambiato la vita più di quanto riusciamo a rendercene conto. La storia ci lascia in eredità testimonianze come quei due ragazzi che su un carretto salvano dalle bombe un apparato elettronico per misurare particelle subatomiche. Tutto questo continuerà a pesare più di scuole e università drogate di burocrazia, di politici che bazzicano “rettiliani”, di malintese rivincite di popoli contro élite. Gli strumenti che ci aiutano a capire com’è fatto il mondo, a trasformarlo, sono frutto del lavoro di persone che provenienti da ogni dove hanno saputo ascendere al ruolo di élite della conoscenza cambiando le loro e le nostre vite. La faccio semplice: tutto questo continuerà a pesare di più del vociare clamante di schiere di cretini no vax.

Cristian Fuschetto

S&F_n. 21_2019

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