Il lato ordinario della vita si snoda su due binari, che si intersecano e, tuttavia, conservano nel corso dell’esposizione una qualche autonomia: da un lato l’analisi del modernismo, un complesso movimento culturale (dunque anche filosofico) che ha caratterizzato soprattutto, ma non solo, l’area austro-tedesca tra Ottocento e Novecento e che ha avuto significative riprese nel recente dibattito filosofico; dall’altro l’analisi di un’idea che con il modernismo è connessa, ossia che la cultura, dunque anche la filosofia, nascono come risposta ai problemi della vita e smettono di essere efficaci nel momento in cui si cristallizzano in formule stereotipate. La crisi, la vulnerabilità, la precarietà attraversano l’esistenza umana, in tutte le sue manifestazioni. La cultura tenta di dare risposte a tale difficile condizione, senza, tuttavia, riuscire a fornire soluzioni definitive. Il modernismo ha avuto la capacità di mettere a fuoco tutto ciò, non risparmiando alcuna forma di vita (da quelle più raffinate e complesse – come l’arte e la scienza – a quelle più ordinarie – come la vita familiare –) dalla possibilità dello scacco.
L’urgenza di riprendere alcune linee di riflessione legate al modernismo (ma che, nello stesso tempo, vanno oltre quest’ultimo e cercano di attingere ad alcuni autori che si sono interrogati con chiarezza sul problema della “crisi”) non traduce affatto un’esigenza meramente teorica. Piuttosto nasce dalla presa d’atto della trasformazione dei contesti di vita dell’uomo contemporaneo e dalla necessità di rispondere alle sfide poste dal mondo attuale in maniera adeguata. Esigenza che si fa pressante in un’epoca storica in cui assistiamo allo sfarinamento delle modalità tradizionali di comunicare, a una difficoltà a esprimerci con le categorie un tempo ritenute familiari (basti pensare solo all’ambito della politica che vive una crisi drammatica, anche relativa alle forme di espressione e comunicazione o, ancora, al tentativo delle religioni di trovare una loro collocazione all’interno delle attuali società multietniche, multiculturali e secolarizzate) e all’emergere di nuove forme di vita, nuovi contesti e nuovi problemi pratici (basti pensare all’ambito delle questioni di cui si occupano le varie etiche applicate, dall’ambiente, agli animali non umani, dallo sport in relazione al doping alla gestione di stati clinici complessi come il vegetativo permanente, dall’eutanasia al suicidio assistito, etc.).
Il concetto di “forme di vita”, dunque, appare, come si intuisce fin dal titolo del volume, centrale. Donatelli scrive che «la forma della vita è plasmata dal confronto con la resistenza della nostra vita a prendere forma in abitudini, relazioni, commerci, rapporti, amori, una resistenza che la vita ci oppone e che assume l’aspetto di qualcosa di ostile o seducente ma non appropriabile ed estraneo, che ci squadra e ci posiziona. La pertinenza del concetto di “forme di vita” si situa in questo nucleo di problemi» (p. 15). Poco più avanti prosegue affermando che «La forma umana della vita indica la gamma di modi in cui siamo separati gli uni dagli altri, in cui possiamo comandare, lavorare, desiderare e così via, all’interno dei quali individuiamo configurazioni specifiche (le forme di vita) che plasmano ad esempio il comando, la separatezza e la volontà» (p. 16).
Nelle mani dei modernisti le forme espressive si disfano e sono riorganizzate secondo nuove forme. Il problema modernista, infatti, non è quello di nascondere i momenti di blocco, di crisi ma metterli in evidenza, in quanto espressione dei bisogni vitali degli esseri umani. La cultura dunque, nell’ottica modernista, non è un porto sicuro entro cui sostare e rilassarsi ma l’insieme delle pratiche più o meno complesse attraverso cui l’uomo tenta, in maniera sempre provvisoria e precaria, di dare risposta a problemi che sorgono dalla vita e si nutrono di essa. Da questo punto di vista anche un ambito rassicurante come la vita familiare e domestica, che ritroviamo, ad esempio, nelle pagine di un autore come Emerson (rappresentante del trascendentalismo americano) che pure costituisce una sorta di padre ante litteram del modernismo filosofico, viene messo al riparo dalla crisi. Anche qui può prodursi un esaurimento delle fonti espressive e si rischia l’isolamento. Infatti, le forme della vita sono, per loro natura, vulnerabili. La vulnerabilità è connessa per altro al fatto che ciascun individuo sviluppa la propria esistenza all’interno di una trama di relazioni, le quali rappresentano altrettante alterità che resistono, che si oppongono ai nostri disegni, progetti, azioni o con cui, in ogni caso, dobbiamo confrontarci, anche laddove si fosse instaurata una trama di familiarità. Gli animali non umani, l’ambiente, le altre persone sono elementi del contesto familiare nel quale ci esprimiamo, ci muoviamo, sorridiamo, eseguiamo gesti, in maniera spontanea. Eppure questi gesti, movimenti, espressioni non appartengono a noi in modo esclusivo, non sono mai private in senso stretto, ma esistono e sussistono proprio in virtù di quelle alterità senza le quali semplicemente non sarebbero.
Donatelli aggancia alle sue analisi intorno al modernismo, seguendo in questo una linea interpretativa sposata da Stanley Cavell, anche altri segmenti della riflessione filosofica, come il perfezionismo morale di Stuart Mill o le riflessioni di Friedrich Nietzsche. A tal proposito, Mill, pur non essendo, in senso stretto, un modernista, attraverso il tema del perfezionismo morale, sostiene la necessità di lavorare costantemente su se stessi in vista di un progresso da realizzare, mai sclerotizzato, per raggiungere uno stato di maggiore agio e felicità (un tema che rivive anche in chiave nietzschiana nell’imperativo del “diventa ciò che sei”).
Nell’ottica presentata da Donatelli, in effetti, «felicità, intelligibilità e libertà» (p. 21) sono strettamente connesse e interdipendenti, dal momento che qualsiasi tentativo di rispondere ai bisogni e alle istanze della vita è condotto nell’ottica del raggiungimento di un maggiore agio esistenziale, di un livello di comprensione superiore, di una condizione di maggiore felicità. In altre parole, la passività nella quale siamo immersi e che non possiamo mai del tutto fuggire (non essendo mai del tutto padroni di ciò che facciamo o sperimentiamo) può essere in parte ricondotta in un alveo di familiarità, in un percorso di conoscenza e autoconoscenza in cui risulta centrale anche la libertà.
Un punto importante nell’analisi proposta da Donatelli è il confronto con il pensiero di Wittgenstein. Oltre a Wittgenstein, prosegue Donatelli, saranno prese in esame «altre correnti filosofiche e culturali che, nel prendere atto della crisi di tradizioni e convenzioni tra i due secoli, si pongono il problema di come sia possibile l’espressione genuina della propria esperienza e affrontano con ciò il problema delle forme di vita, di come la vita umana abbia bisogno di una riorganizzazione in nuove forme, attraverso nuove connessioni, secondo disegni e modelli differenti» (p. 24). Il modernismo dunque viene posto in un serrato dialogo con varie esperienze di pensiero che hanno caratterizzato non solo gli anni a cavallo tra XIX e XX secolo ma anche il periodo precedente e successivo. Infatti, Donatelli sottolinea come il «modernismo filosofico […] dialoga da una parte con il perfezionismo morale, che in autori quali Mill ed Emerson si configura come un episodio, storicamente precedente, che appartiene al romanticismo filosofico, e dall’altra con alcune linee successive della tradizione analitica» (p. 24) che vedono in autori come Cora Diamond, John McDowell e Martha Nussbaum alcuni esempi eminenti (altri autori discussi da Donatelli sono Nietzsche e Musil).
Tale operazione è funzionale anche a presentare, nel contesto dell’attuale dibattito tra i filosofi analitici, una prospettiva differente rispetto a quella rivendicata da molti studiosi in cui la filosofia finisce per essere un sapere «tecnico che affronta problemi isolabili dal più ampio contesto della cultura» (p. 25).
Per questo motivo Donatelli afferma di voler presentare una concezione della filosofia in cui quest’ultima sia una forma di riflessione «in grado di rispondere ai problemi culturali e di essere interrogata da essi» (p. 25). Sulla scorta di questa preliminare riflessione è possibile parlare di un contrasto tra filosofia come teoria e filosofia come trasformazione, incarnata appunto da Wittgenstein (lettura questa sostenuta da diversi interpreti del pensiero wittgensteiniano come Cora Diamond o Elisabeth Anscombe) o anche da autori della cosiddetta tradizione filosofica continentale come Pierre Hadot e Michel Foucault. La filosofia dunque come percorso che non si separa dalla cultura e dai problemi che essa pone, percorso che vive anche dei problemi che sorgono nella vita comune, non se ne separa mai del tutto, pena lo scivolamento verso forme di astrazione che la allontanerebbero dalla sua mission di fondo.
Ma una filosofia che non si è separata dalla cultura sarà una filosofia che pone ciò che è naturale e intimo tra i suoi temi. Le pratiche, le espressioni, le regole (anche quelle interne a specifiche discipline scientifiche, come le regole matematiche) non devono essere ricostruite dall’alto, bensì dal basso, dai problemi ai quali esse hanno tentato di fornire una risposta. Così facendo una categoria centrale risulterà essere quella di ricettività. Ogni espressione, ogni pratica, ogni gesto anche i più familiari vivono in una dimensione di precarietà, di parzialità, in cui, lungi dal poter esercitare un reale dominio, ciascuno di noi è consegnato a una fitta trama di rimandi e interazioni di cui non è mai completamente padrone.
Ora il modernismo, nella declinazione datane da Cavell e ripresa, con opportune rimodulazioni da Donatelli, dice l’esaurimento del mezzo espressivo, tanto artistico, quanto linguistico. L’opera d’arte, ad esempio, perde la sua presa con la realtà, così come la filosofia. Nell’ottica modernista la naturalità connessa alle pratiche espressive si svuota dall’interno. L’esperienza della crisi, del blocco, dell’inciampo sono dunque centrali. La filosofia, come, d’altro canto, mette in luce Wittgenstein, non è esercizio teorico fine a se stesso ma è presa di coscienza di un blocco, di un esaurimento di risorse a cui deve far seguito una riterritorializzazione, un nuovo investimento. Tale riterritorializzazione, tuttavia, non rappresenta il semplice superamento del blocco, quanto una nuova strategia, nella quale la crisi viene sì superata lasciando tuttavia i suoi segni, i suoi solchi inemendabili.
«Il modernismo filosofico», richiede, dunque, «una concezione della filosofia che non si separi dalla cultura, una concezione che non faccia della filosofia un sapere specializzato bensì una forma di riflessione che è in grado di rispondere ai problemi culturali e di essere interrogata da essi» (p. 25). Una forma di riflessione che sia immersa nella vita e che tragga dalla vita, dai contesti-di-vita i suoi spunti problematici. Dunque, la filosofia intesa non come mera impresa teorica, una sorta di meta-riflessione che per essere efficace deve per statuto prendere le distanze dall’oggetto di indagine, ma una filosofia che concresce entro i contesti-di-vita in cui i problemi emergono e cerca entro quei contesti di vita nuove categorie, nuove parole, al fine di rimodulare gli orizzonti-di-senso, ossia lo spazio all’interno del quale si danno le esperienze degli individui. In tal senso la filosofia come impresa anti-teorica, se per impresa teorica intendiamo un esercizio di presa-di-distanza dall’oggetto da indagare, è anche esercizio di trasformazione e auto-trasformazione. Siamo di fronte a un diverso modo di concepire la filosofia e l’etica, un modo, in riferimento all’etica ad esempio, che rifugge da forme di normatività inesorabili e inflessibili preferendo lavorare a stretto contatto con l’esperienza viva che attraversa le forme di vita degli individui.
In tale contesto, dunque, appare fondamentale porre attenzione a temi come il linguaggio, il carattere, la comunità, al fine di riconsiderarli sotto una nuova luce (pp. 90-102).
Il linguaggio come “casa dell’uomo”, intesa come spazio in cui si sviluppano i mondi-di-vita degli esseri umani va sottratto a una dimensione puramente astratta, in cui le parole esibiscono solo un uso strumentale (pp. 45-47). Le parole veicolano mondi-di-vita. Qui si possono vedere, anche al di là degli autori discussi da Donatelli, rimandi a ulteriori linee di ricerca che attraversano tutta la filosofia del Novecento. Penso ad alcune espressioni dell’esistenzialismo, o all’Husserl della Crisi delle scienze europee.
Il linguaggio, per altro, ha una sua autonomia così come il carattere. Questo significa che sia il linguaggio sia le nostre azioni esibiscono un’autonomia rispetto al soggetto tali da renderli sempre e comunque da rifamiliarizzare, mai qualcosa di scontato, sempre da riguadagnare, ripensare, rimeditare, perfezionare, in un circuito che non può essere cristallizzato.
«Le parole e il linguaggio sono autonomi ed entrano in conversazione tra di loro: le parole sono riportate a un paese sconosciuto e strano e allo stesso tempo possono avere un peso che consente loro di parlare a questa regione, di interrogarla e porle delle richieste […]. Il mondo delle pratiche, la vita ordinaria, sono scoperte dopo una perdita, come qualcosa che abbiamo rinnegato, ripudiato» (p. 101). La filosofia non parla per prima, essa si innesta sempre su un mondo della vita pre-esistente. «Che la filosofia non parli per prima significa anche che noi non parliamo per primi, che dobbiamo ascoltare, rispondere e prenderci cura delle nostre parole come se fossero di qualcun altro, parole che vengono da lontano» (p. 104).
Un approccio che concepisca la filosofia come “parola seconda” è consapevole del fatto che la filosofia non detta i suoi temi, ma se li fa dettare dalla vita e dai contesti-di-vita in cui l’uomo opera. Sarebbe a dire che i problemi nascono dal basso e solo allora la filosofia interviene. Se partiamo da questo presupposto vediamo come alcune questioni non sempre centrali per il dibattito filosofico, lo divengono in virtù della loro centralità nel mondo di vita degli individui.
Veniamo dunque ad alcune delle tematiche che Donatelli mette al centro della sua riflessione: la vulnerabilità, la relazionalità, il contesto, etc. Ci soffermiamo qui in particolare sulla vulnerabilità.
Secondo diverse concezioni influenti nella tradizione filosofica occidentale per elaborare una teoria morale e politica c’è bisogno di fornire una caratterizzazione della natura umana o esplicitare quali sono i tratti, le caratteristiche che conferiscono valore agli esseri umani e più in generale agli organismi. Sotto questo profilo teorie etiche tra loro anche profondamente eterogenee come il neoaristotelismo di Philippa Foot, il neocontrattualismo di John Rawls o l’utilitarismo di Peter Singer condividono quello che può essere definito un approccio top-down, ossia partono da una caratterizzazione precipua di ciò che è pieno, di ciò che costituisce l’optimum per rendere fiorente la vita di un individuo (in termini di piaceri, preferenze, etc.) e considerano, tutt’al più dopo temi come quello della vulnerabilità. Quest’ultima, nei termini delle teorie etiche appena citate si configura come un problema da risolvere, come un derivato rispetto a una condizione di perfezione, un derivato al quale la teoria etica deve dare una risposta. La vulnerabilità dunque non viene considerata come una possibile risorsa dalla quale partire per la costruzione di una riflessione etica che sia attenta alla reale dimensione di vita dei soggetti.
Ci sono tuttavia delle proposte etiche che tengono conto di questa dimensione. Queste, pertanto, potremmo dire, sviluppano un approccio bottom up all’etica. In tale senso si muovono le etiche della cura. Joan Tronto, ad esempio, sostiene che la vulnerabilità, la fanciullezza, la malattia, la vecchiaia non indipendente costituiscono altrettanti punti di osservazione ed elaborazione sostantiva in merito a che cosa sia la vita umana e che cosa sia importante.
Di fatto, a partire da quest’angolo visuale ci si può dischiudere più in generale una prospettiva alquanto differente sulla vita. Da questo angolo visuale, ad esempio, si può mettere a fuoco un tratto in molti casi negletto della nostra vita, ossia il fatto che lungi dall’essere autonomi e indipendenti, ognuno di noi, a vari livelli, vive immerso in una rete complessa di relazioni. Nessuno ha fino in fondo la propria vita nelle sue mani.
Non si riflette spesso su questo aspetto. Tuttavia, in un esempio assai esplicativo di Tronto veniamo invitati a riflettere su cosa accadrebbe se il personale delle pulizie che opera nell’ufficio presso il quale lavoriamo arrestasse i suoi servizi. Un impiegato che non si sente vulnerabile rispetto al personale delle pulizie e che spesso sviluppa nei confronti di quest’ultimo anche posture caratterizzate da superiorità si sentirebbe, appunto, vulnerabile se questo personale cessasse i suoi servizi.
Tale riflessione ci consente di comprendere che la vulnerabilità alligna anche laddove non è palese. È palese che un neonato sia vulnerabile data la sua condizione di dipendenza pressoché assoluta dagli adulti. Lo è meno in esempi come quello che ho citato.
Faccio qui un inciso prima di riprendere l’analisi proposta da Donatelli. Un approccio bottom up di questo tipo, che costruisce la dimensione etica dal basso, che vede costituirsi le categorie non attraverso un mero sforzo teorico e una presa di distanza dall’immediatezza della vita ma al contrario da una vicinanza alla vita, rappresenta anche un possibile puntello critico per quelle etiche che presentano una idea dei doveri che è poi difficile da attuare nei contesti concreti di vita. Piuttosto sarebbe preferibile sviluppare un’etica della relazionalità e della vicinanza, un’etica che inviti alla cura per le relazioni e delle relazioni, all’interno delle relazioni stesse. Il dovere così non sarebbe più una imposizione astratta, calata dall’alto, bensì un prendersi cura dell’altro, avendo preso contatto con la sua vulnerabilità e di rimando con la nostra stessa vulnerabilità. È un educarsi a percepire la coesistenza che struttura i contesti di vita di cui facciamo parte. In tal senso anche l’attribuzione dei valori viene letta da un diverso angolo visuale.
Anche Marta Nussbaum in questa prospettiva fornisce preziose indicazioni, con il suo approccio sentimentalista, attraverso il quale ci ricorda l’importanza di non celare a noi stessi le dimensioni caduche della vita e i sentimenti che contrassegnano le esperienze umane, anche sentimenti dai quali cerchiamo di prendere solitamente le distanze (la sofferenza e il dolore ad esempio).
In tale senso le prospettive filosofiche di Wittgenstein e Cavell si muovono, in un certo senso, nella medesima direzione, dal momento che nella loro concezione del linguaggio, del corpo, del carattere, della comunità sottolineano sempre come questi non sono luoghi rassicuranti dentro ai quali sostiamo, bensì sono luoghi in cui si dà fino in fondo il brulichio della vita con tutta la sua dose di incertezze, dubbi e situazioni anche spiazzanti, disorientanti.
Anche Foucault, al di là delle ampie oscillazioni del suo pensiero, ci mette di fronte alla necessità di riflettere sul fatto che «se vogliamo pensare alla pienezza e alla realizzazione dobbiamo guardare prima alle condizioni di assoggettamento, disciplina e marginalità» (p. 118).
Certo «il concetto di vulnerabilità non appartiene al lessico di Foucault», scrive Donatelli, «e tuttavia mi sembra che nella sua prospettiva si tratti precisamente di considerare l’insieme di rapporti tra individui caratterizzati non dal lato della pienezza e della fioritura ma da quello dell’assoggettamento, delle ferite, della marginalizzazione. È solo in quanto visualizziamo il lato in cui subiamo, siamo passivi, normalizzati, condotti, che possiamo recuperare l’idea del dare forma alla propria vita – che Foucault rende in modi che si prestano per altro alla descrizione opposta, costruttivistica: il fare della nostra vita un’opera d’arte» (p. 119).
Un altro passaggio sviluppato da Donatelli mi pare particolarmente significativo. Lo riporto dunque per avanzare nella nostra riflessione: «partire da ciò che è manchevole e imperfetto non presuppone che si sappia che cosa sia perfetto e autosufficiente […]. Si sta meglio così è qualcosa che possiamo dire senza bisogno di una teoria perfetta del bene o del giusto. Inoltre, anche se disponessimo di una simile teoria essa non risolverebbe il giudizio sui singoli casi in cui qualcuno non sta bene o in cui una situazione è ingiusta» (p. 120). Ora, la prospettiva filosofica più congeniale per elaborare questo approccio sembra essere quella del modernismo, nell’accezione ampia che Donatelli discute. E ci sono due aspetti che appaiono essere significativi in questa prospettiva, l’ordinario e le forme di vita.
La conoscenza del mondo e di noi stessi non è raggiunta affatto in condizioni ideali. Al contrario essa è raggiunta in condizione di crisi e di rottura. Quando non disponiamo delle parole per descrivere una nuova situazione, quando le parole che abbiamo a disposizione sembrano non parlarci più, mettendoci di fronte a un muro. È allora che produciamo il nostro sforzo, anche di natura teorica, ma il contesto da cui nasce tale sforzo è ben diverso da come spesso lo si caratterizza (nei termini del distacco dalle urgenze della vita, di una presa di distanza, etc.); è allora dicevo che produciamo il nostro sforzo per tornare all’ordinario. Tornare all’ordinario significa riconfigurare uno spazio di familiarità che è sempre precario, sempre limitato, sempre esposto al fallimento. Significa, infine, ricollocarci, attraverso questo lavorio continuo di ricostruzione di spazi di agibilità, dentro un ambiente concettuale diverso, configurato da nuove connessioni. Queste connessioni tuttavia non vanno affatto lette su un piano puramente astratto. Al contrario queste connessioni raccontano il nostro modo di istituire relazioni e viverle. Relazioni con i nostri conspecifici, relazioni con gli animali non umani, relazioni con le cose. Ristrutturazione delle forme di vita significa, dunque, trasformazione di noi stessi e degli spazi relazionali nei quali siamo immersi come co-esistenti. L’idea, dunque, è quella di recuperare il peso dell’esperienza umana, non da una sorta di altrove ideale, ma dall’interno dell’esperienza umana stessa. E tuttavia, nel recuperare l’esperienza umana metterne in evidenza la struttura relazionale. Recuperare l’esperienza umana dunque a partire da reti di relazioni che mettono in crisi le alterità: l’umanità, l’ambiente e gli animali non umani. Tutto si dà entro una rete mobile di connessioni, senza sfondi dati e fermi.
È all’interno di questo quadro complesso e sfaccettato che, nell’ottica di Donatelli, si offre la possibilità di ripensare in maniera proficua i temi della relazionalità, dell’etica animale, dell’etica ambientale.
I termini chiave da mettere in primo piano sono qui: relazionalità e contesto-di-vita.
L’idea, in breve, è che solo ripartendo dalle condizioni concrete che rendono possibili i nostri modi di vita possiamo procedere a una efficace ristrutturazione dei nostri modelli etici, i quali saranno strutturati sempre a partire dall’esperienza nella quale siamo immersi e non avranno la pretesa di imporre categorie con le quali imbrigliare la realtà, piuttosto cercheranno di elaborare una riflessione che parta dalla vicinanza, dalla cura, dalla prossimità entro la quale e dalla quale scaturisce la vita etica degli individui.
In tale quadro, come appena accennato, può essere ripensata su nuove basi la cosiddetta etica ambientale.
L’etica ambientale tradizionale, come ricorda ancora Donatelli, si è interrogata su come conferire valore agli organismi al di là degli esseri umani e in particolare oltre il confine degli esseri senzienti. L’immagine dominante è stata quella del punto di vista da nessun luogo (p. 132). In altri termini, per poter sviluppare un lògos sulla natura sarebbe necessario fare astrazione dal piano relazionale nel quale l’individuo ed entro il quale sviluppa una serie di posture, movenze, azioni, etc.
Per altro la tesi secondo cui il pensiero morale deve ambire a raggiungere questo punto di vista è stata sostenuta da importanti studiosi come Sidgwick, Moore e Nagel. E tuttavia, la riflessione morale che ha la forma della prospettiva da nessun luogo non consente, di fatto, alle persone di convergere su credenze capaci di strutturare una vita morale determinata.
Dunque, quale soluzione possiamo immaginare? Qual è il criterio a partire dal quale conferiamo valore alla natura? La risposta di Donatelli, coerente con la linea di riflessione accarezzata durante tutto il volume, è che tale criterio va elaborato a partire dalla presa di coscienza che la natura «ha un valore non perché glielo conferiamo da un punto di vista da nessun luogo ma perché essa ci parla della nostra condizione e le dà spessore. Il valore degli ambienti naturali emerge riflettendo sulle diverse relazioni che essi stabiliscono con noi» (p. 135). Siamo qui di fronte a una prospettiva relazionale. Una prospettiva che rifiuta sia l’idea dell’occhio che guarda da un ideale punto zero, sia l’idea del dualismo irriducibile tra uomo e natura. Al posto di questi approcci, preferisce guardare la natura come lo spazio all’interno del quale l’uomo sviluppa una serie di posture, di trame d’azione, all’interno del quale l’uomo avverte anche i suoi limiti, la sua impotenza, la resistenza ai propri desideri, alle proprie preferenze e aspettative.
In tale senso l’idea della natura come resistenza, sviluppata ad esempio in ambito romantico, ci aiuta a muoverci nella direzione adombrata. Cioè ci aiuta a sviluppare una postura morale che va nella direzione del superamento di un netto dualismo tra uomo e natura. Nel romanticismo la natura, dicevamo, è vista come resistenza che va superata per consentire l’avanzare del processo di miglioramento e trasformazione dell’individuo. Da qui si potrebbe partire per guadagnare una posizione che, in maniera ben più profonda rispetto a quanto il romanticismo stesso riesca a pensare, metta in luce la relazionalità tra uomo e natura, l’uno inconcepibile senza l’altro, fino a determinare un processo di ibridazione continua, di fusioni e intersezioni inestricabili.
In questa direzione, sottolinea Donatelli, il lavoro di Cora Diamond è importante. La Diamond presenta una concezione relazionale dell’identità, mostrando ad esempio come gli animali sono visti in vari modi e ciò si collega alle attività, agli atteggiamenti, ai racconti, alle parole usate: le cavie in laboratorio, l’allevamento industriale, gli animali da compagnia, etc (p. 139).
In tal senso possiamo pensare che la relazione instaurata dagli operatori dell’industria del cibo con gli animali si basi su una forma di rimozione. In altre parole, gli animali sono ridotti a res, come fossero una mera “parte del processo industriale”. Per ottenere una trasformazione in quegli operatori industriali, così come nelle persone che consumano abitualmente carne, non basta costruire dall’alto un lessico dei diritti, come, per certi aspetti, fa Tom Regan o, anche se in misura minore, Peter Singer, si deve agire sulla forma di vita nella quale sono inseriti gli operatori industriali e gli individui che consumano carne.
In altri termini, gli individui dovrebbero riuscire a vedere gli animali diversamente.
«Ma per vederli diversamente non solo in un lampo ma stabilmente come parti di una stessa visione che hanno conquistato, essi devono porsi fuori dalla forma di vita in cui abitano come allevatori, così come chi mangia la carne che compra al supermercato per riuscire a riconoscere l’orrore degli animali macellati deve porsi fuori da un’intera forma di vita che plasma nei fatti e nella percezione alcuni animali in cibo» (p. 141).
Si tratta di spostare l’attenzione su elementi trascurati, negletti nell’attuale forma di vita che caratterizza il rapporto uomo-animali o uomo-natura. In effetti, all’interno di questa prospettiva, il lavoro del pensiero morale si configura come una riflessione sulle relazioni di coesistenza, volta a portarne alla luce le interne ramificazioni. Non si tratta dunque di un lavoro dall’esterno ma, al contrario, di un lavoro dall’interno. Un lavoro attraverso il quale si metta in luce che la coesistenza si fonda sulla dipendenza e interdipendenza reciproca. Se si guadagna questa posizione si guadagna di fatto uno sfondo a partire dal quale ristrutturare la propria forma di vita in relazione con e non in posizione di mero sfruttamento e utilizzo. Tale forma di vita, infatti, nega ciò che nella realtà è palese. Quando l’uomo si pone nella postura dello sfruttatore, dell’utilizzatore delle risorse ambientali, dell’operatore dell’industria alimentare, del consumatore famelico di carne, etc. sta più o meno consapevolmente coprendo le ramificazioni, le interdipendenze reciproche, la vulnerabilità, la coesistenza nella quale si dipana il rapporto tra lui, gli altri uomini, l’ambiente, gli animali non umani.
Potremmo dire, per concludere, che la trasformazione degli stili di vita passa per lo spostamento dell’attenzione e degli interessi, per la ristrutturazione delle connessioni concettuali che ci consentono di cogliere, in un’ottica di prossimità e di cura, le interdipendenze reciproche nelle quali siamo da sempre immersi e dalle quali non possiamo prescindere, pena un impoverimento delle nostre forme di vita e una negazione della natura relazionale e coesistentiva dell’uomo stesso.
Il volume di Donatelli rimette al centro dell’attenzione, dunque, il rapporto tra teoria e prassi in ambito filosofico, il ruolo della filosofia, intesa non come mero esercizio intellettuale, ma come operazione trasformativa che si situa nella cultura e vive della cultura e dei suoi problemi. Risulta, così, uno strumento agevole e di indubbio rilievo nel panorama dell’attuale riflessione filosofica, uno strumento che può aprire la strada a ulteriori analisi e linee di indagine nelle quali, di fatto, l’impresa filosofica perde la sua aura di “sacralità”, l’idea di avere una posizione privilegiata dalla quale contemplare e auscultare i problemi dell’esistenza, per scendere nell’agone della vita, entro e non oltre il suo lato ordinario, e farsi dunque filosofia dell’esperienza comune, laddove “dell’esperienza” va letto sia in senso oggettivo che soggettivo, una filosofia che scandaglia i suoi problemi partendo dall’esistenza e che non impone l’agenda alla vita, piuttosto se la fa dettare da quest’ultima.
In una fase storica in cui la crisi dei nostri modelli categoriali ci dice qualcosa circa la necessità di cercare nuove parole e dare a quelle di cui disponiamo nuove funzioni d’uso e nuove possibilità espressive Il lato ordinario della vita ci indica direzioni e spunti imprescindibili per la costruzione di un nuovo modo di stare-al-mondo, di un nuovo modo dell’abitare.
Luca Lo Sapio
S&F_n. 22_2019