Siamo abituati a leggere Jonathan Franzen alle prese con legami familiari e rapporti complessi. Penso alla famiglia Lambert de Le correzioni (2001), a Walter e Patty Berglund e al loro figlio adolescente in Libertà (2010) o a Pip alla ricerca delle sue origini in Purity (2015). La raccolta di saggi La fine della fine della terra non fa eccezione: in questo caso il partner/figlio/genitore con cui provare a ricostruire un rapporto è, appunto, la Terra. Il volumetto edito da Einaudi è composto da sedici saggi che attraversano gli argomenti più disparati – il mestiere dello scrittore, l’impatto dei nuovi media, l’amicizia – ma che sembrano in effetti rispondere a un’unica domanda: quella che riguarda la possibilità di recuperare una relazione col mondo, con l’ambiente, con il regno animale.
Franzen applica, in questo tentativo di recupero, due strategie differenti, ma che egli mostra come complementari, l’immedesimazione in ciò che è prossimo e la necessità dell’assolutamente altro. A incarnare questa prossimità e alterità radicali sono gli uccelli. Appassionato, quasi ossessionato, dal birdwatching e amante dei pennuti di ogni forma, dimensione e colore l’autore individua in questa tipologia di animali una risorsa, una possibilità di leggere chiaramente il nostro legame inscindibile con la natura.
Raccontando di un viaggio in Antartide Franzen descrive così l’incontro con i pinguini: «i pinguini, con la loro somiglianza ai bambini, possono creare un ponte verso un modo migliore di ragionare sulle specie messe a rischio dalle logiche umane: anche loro sono nostri figli» (p. 204). Questi animali goffi ci ricordano il dovere della cura, la necessità di allenare e di estendere l’empatia a tutte le specie viventi, seguendo la lezione che così bene ha individuato un altro scrittore, J.M. Coetzee, nel suo La vita degli animali (1999), ovvero che la nostra immaginazione e capacità di entrare in connessione con l’animale è fondamentale per la salvezza della stessa comunità umana, ci permette di vivere oltre la nostra morte, il nostro interesse e vantaggio immediato. Guardare, soffermarsi, sulla vita animale significa dare nuova linfa alle nostre, sempre più atrofizzate, capacità di introspezione (p. 68) e di immedesimazione nell’altro.
Come ha sottolineato Peter Singer nel suo Liberazione animale (1975), vera e propria Bibbia dell’antispecismo, l’amore per gli animali attraenti – quelli carini e “dolci” che troviamo sulle pagine fb o su instagram, per intenderci – non ha nulla a che fare con la capacità di concepire questi esseri come fini e non semplicemente come mezzi, anzi. «Ho sentito dire» sottolinea Franzen «che molti preferiscono i mammiferi agli uccelli perché anche noi siamo mammiferi. Questo mi sembra ragionevole e allo stesso tempo discutibile. Se la grande attrattiva della natura è la sua Alterità, perché abbiamo bisogno dei nostri parenti stretti per renderla interessante? (…) Gli uccelli con la loro discendenza dai dinosauri e la loro capacità di volare, sono veramente l’Altro» (p. 167). Gli uccelli colpiscono Franzen proprio perché si sottraggono alle coccole dell’uomo, alla sua tenerezza, a ogni possibilità di rispecchiamento immediato. Questi “dinosauri” – che vivono fra noi senza badare a noi – rappresentano l’alterità, ciò che ci ignora e ci precede e, infine, la natura che si mostra nella sua inutilità: sono il rovescio di quella legge del profitto che regola, oggi più che mai, il rapporto essere umano/ambiente; «il concetto di valore, nel tardo Antropocene, ha assunto un significato quasi esclusivamente economico (…) molti uccelli selvatici sono utilmente commestibile. Alcuni, a loro volta, mangiano insetti e roditori dannosi (…). Forse avrete sentito dire che le popolazioni di uccelli, proprio come il proverbiale canarino nella miniera, sono importanti indicatori della salute ecologica di un territorio. Ma è davvero necessaria la mancanza di uccelli per capire quando una palude è gravemente inquinata, una foresta tagliata e bruciata, una zona di pesca distrutta? La triste verità è che gli uccelli selvatici, di per sé, non contribuiranno mai all’economia umana. Loro vogliono solo mangiare i nostri mirtilli. Ciò che invece gli uccelli possono utilmente indicarci è lo stato di salute dei nostri valori etici» (p. 36). Gli uccelli sono i rappresentanti della vita sulla terra prima dell’essere umano, di un mondo che esiste a prescindere da lui, segnalare, valorizzare la loro presenza può contribuire alla costruzione di uno sguardo non atropocentrico e non distruttivo. L’anatra del laghetto vicino casa – sottolinea Franzen – somiglia in tutto e per tutto alla sua antenata di milioni di anni fa, le specie volatili, più di ogni altro tipo di animale, sembrano venire da un altro tempo e da un altro luogo, ci ricordano – o almeno dovrebbero ricordarci – che non da sempre – e dunque non necessariamente per sempre – l’essere umano è stato il padrone incontrastato della terra, che questa è solo una delle epoche del mondo.
Ai cinici, così li definisce Franzen, che sottolineano la priorità delle esigenze umane su quelle animali – ovvero che l’empatia nei confronti della bestia è un lusso che in pochi, pochissimi, possono permettersi – egli ricorda che prioritaria è anche la conservazione e il rinnovamento di un universo di valori etici.
Eppure, l’autore ne è consapevole, in un’epoca nella quale la violenza, le disuguaglianze, la guerra sono ben lungi dall’essere superate, è molto difficile non collocare, automaticamente e forse involontariamente, in un rapporto gerarchico il problema del dolore animale e di quello umano.
Franzen mostra questa difficoltà attraverso un racconto di viaggio: mentre si trova in Egitto, in una città turistica, egli osserva pietosamente gli uccelli in vendita in un mercato stipati nelle loro gabbie, scorgendo il suo sguardo compassionevole uno dei venditori commenta «Voi americani vi dispiacete per gli uccelli, ma non per le bombe che buttate a casa degli altri» «Avrei potuto rispondere» scrive Franzen «che è possibile dispiacersi sia per gli uccelli che per le bombe (…). Tuttavia mi sembrava che il venditore stesse dicendo una cosa vera, difficile da contestare, sul problema della conservazione della natura in un mondo di conflitti umani» (p. 73). Questo episodio ricorda una scena di un romanzo di Nadine Gordimer, La figlia di Burger (1979), ambientato nel Sudafrica dell’apartheid; la protagonista, Rosa Burger, aggirandosi nella periferia di Johannesburg, si imbatte in una famiglia di tre persone che viaggia su un carretto trainato da un asino, per far andare più veloce la bestia stremata di fatica, il capofamiglia prende a frustarla con violenza, Rosa vorrebbe intervenire, intimare all’uomo di smetterla di infliggere inutili sofferenze all’animale, la blocca però l’idea di far valere, nel difendere l’asino, la sua autorità di donna bianca su un uomo nero. Rosa è bloccata in un dilemma etico: se non fermerà l’uomo dovrà convivere con il sospetto di averlo fatto solo per non essere giudicata come “uno di quei bianchi” che si preoccupa più degli animali che delle persone.
Franzen è consapevole del cortocircuito etico, della difficoltà di far valere, in un contesto di ingiustizia e violenza dilaganti, il dolore dell’animale, laddove quello dell’essere umano sembra ovunque ignorato. Proprio il tener conto di quella sofferenza estranea, eppure così familiare, questa la soluzione che l’autore sembra lasciar trapelare dalle pagine del libro, è però forse l’unico modo per ricominciare a sentire anche la sofferenza dell’altro essere umano. L’ambientalismo, l’antispecismo, prima ancora che riguardare la salvezza del mondo fuori di noi, hanno a che fare con la possibilità di restituire una cornice di vivibilità all’esistenza umana.
Pur tenendo ben presente il peso della propria impronta ecologica, sottolinea Franzen, non sarà il sentimento di colpa costante (p. 42), né tantomeno l’utilità pratica – la sopravvivenza, la miglior qualità dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo – a contribuire efficacemente a farci sentire responsabili del pianeta e a provare a invertire il processo di saccheggio e distruzione della natura. Non l’utile, non la colpa, ma il bisogno di conservare ciò che ci è familiare e ricostruire la possibilità di una relazione solidale e del riconoscimento dell’altro: «gli animali non potranno ringraziarci per avergli permesso di vivere, e di certo se fossero al nostro posto non farebbero lo stesso per noi. Ma siamo noi, e non loro, ad aver bisogno di dare un senso alla vita» (p. 65).
Viola Carofalo
S&F_n. 22_2019