Bolle è il primo volume della saga filosofica dal titolo Sfere (Sphären), una trilogia portata a termine fra il 1996 e il 2004 da Peter Sloterdijk e destinata sempre più ad animare il dibattito contemporaneo. Bolle inizia con una dichiarazione programmatica: «possa tenersi lontano da questi luoghi colui che non abbia la volontà di lodare il transfert e rifiutare la solitudine» (p. 70). E infatti, se traluce uno scopo dalle oltre cinquecento pagine di questa prima tappa filosofica dell’opera, questo è quello di descrivere lo spazio dell’intimo dell’uomo, partendo dal presupposto post-platonico per cui: «Il soggetto è il resto instabile di una coppia, la cui metà che è stata tolta non cessa mai di avanzare rivendicazioni su quella rimasta» (p. 129). La possibilità per l’essere umano di pensare uno spazio interno da abitare (ciò che Heidegger definì con il verbo tedesco antico innan, per poi passare al più moderno ein-whonen, in-abitare) è per Sloterdijk infatti legata a una precarietà di fondo che non permette al mondo intimo di acquisire lo status «immunologico» di Sfera, ma di essere al contrario vincolata alla creazione di «Bolle»: esse sono funzioni diadiche basilari e molto più instabili il cui fondamento si perde nella notte dei tempi dovendosi far risalire alle prime comunità ordaliche in cui «l’intelligenza pre-alfabetica dipende da un clima di densa partecipazione poiché, totalmente annidata nella comunicazione della vicinanza, ha bisogno per esprimersi dell’esperienza di un comunismo di pensieri e nervi legati al loro tempo attuale» (p. 274). Comunità in cui, quindi, non erano concepibili pensieri individuali e dove era scontato che il pensiero fosse sempre un pensiero comune. Per dare un fondamento a questo spazio antropico, di cui è rimasta una latente necessità nelle «schiume molecolari» degli spazi umani di oggi (ricompattatesi dopo la caduta dei grandi globi dell’era di civiltà e imperi), è necessario decostruire lo spazio e le modalità attraverso cui la bolla si è formata, e l’autore, dando sfoggio di un’erudizione duttile e affabulatoria, pianta dei paletti lungo il territorio della bolla facendo emergere una sorta di genealogia, o meglio di decostruzione del fenomeno «microsferologico» in questione.
In primo luogo l’autore scompone il rito “eucaristico” dell’oggetto del desiderio, caro alla psicoanalisi, attraverso allusioni alle esperienze mistiche di Caterina da Siena e alle speculazioni di Marsilio Ficino sull’amore platonico: l’oggetto del desiderio è il cuore offerto da Caterina a Dio, o il luogo di tensione fra anime di una comunità che distinguono le identità reciproche sulla base dell’oggetto al centro della loro relazione. È per questo che la psicoanalisi, argomenta Sloterdijk, insiste molto sul fatto che il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro, perché in realtà l’oggetto del desiderio è prima di tutto il medium attraverso il quale il soggetto (con tutto il peso moderno di questo termine) determina la sua soggettività. Ma è possibile immaginare e descrivere la natura della condivisione prima di questo momento specifico di individuazione psichica? Solo partendo da questa base possiamo contestualizzare il ruolo del desiderio in quanto medium. Sloterdijk tenta questa impresa immaginando il mondo quando non c’erano specchi, e dove l’uomo, per conoscere il suo aspetto, guardava il volto delle persone che gli erano vicine. Così Sloterdijk denuncia con ironia la storicità dell’«oggetto cosmetico» su cui si fonda lo stadio dello specchio in Lacan. In realtà l’uomo ha estratto dalla sua sagoma il volto di se stesso; e la mauvaise foi – il modo in cui Jean-Paul Sartre chiamava l’inconscio, il rimosso – si può quasi datare con l’affresco di Giotto che raffigura il volto plastico di Giuda a fianco a quello di Cristo, icona pacifica e ricordo ancestrale del volto collettivo che aveva la comunità nell’era delle Bolle. L’inconscio è una sorta di linea di demarcazione fra una sfera e un’altra, una conseguenza dell’inconciliabilità fra universi mediatici. Partendo da questi presupposti, possiamo risalire all’idea di una dimensione dell’intimità priva di fatticità, e contemporaneamente comprendere come queste forme di intimità sempre più erotizzate e sempre più colonizzate dalla psicologia abbiano lasciato tracce nella nostra storia attraverso anni in cui diventava necessaria una teoria del transfert. E qui sono da menzionare gli acuti sondaggi sulle teorie magiche di Bruno, sulla capacità preconizzatrice (con fini bizzarramente anti-illumunistici) di una teoria della pulsione negli scritti di La Mettrie, fino al Mesmerismo e ad altre teorie anticipatrici di Freud, di grande interesse anche presso intellettuali di prestigio come Fichte, Schelling e Hegel.
Con questo lavoro di paziente smontaggio dell’idea di spazio intimo, Sloterdijk sembra avvicinarsi ad alcune delle questioni più cruciali del pensiero di oggi, dandovi una risposta, se non altro, speculativamente solida: “l’ascolto” da parte di praticamente tutti i pensatori del Novecento della sensibilità fenomenologica di Martin Heidegger sta nel fatto che questi (almeno il primo Heidegger), recupera una dimensione dello spazio ancestrale, i cui brandelli erano stati codificati dalle teorie psicologiche, senza che fosse resa loro giustizia nei termini del vissuto secolare che le calotte ontologiche e semiotiche avevano ereditato dal passato. È così che, di conseguenza, viene formulata un’ipotesi sul complesso rapporto fra Lacan e Heidegger, e sulla difficoltà che portò il primo ad avvicinarsi alla dottrina del secondo. La teoria dell’oggetto in Lacan manca di una consapevolezza storica del medium in quanto oggetto, ed è per questo che la dottrina lacaniana della legge della “cosa” deve arrendersi di fronte alla fenomenologia dell’oggetto (a) e del suo potere anamorfico sullo spazio: «un’immagine illusoria che bisogna svelare nella misura in cui mette in pericolo il suo portatore» (p. 490). Tenendo presente che la psicoanalisi, schiava per Sloterdijk di un retaggio cattolico, ha scoperto il medium dandovi il nome di fallo senza sapere cosa esso era ed è stato, il filosofo deve assumersi il compito di trovare il senso dello spazio mediatico implicito nella scoperta della mediazione. Per Sloterdijk la grandezza di Heidegger sta nell’aver prefigurato questa spazialità col suo sguardo fenomenologico; il suo peccato sarebbe, invece, quello di aver cristallizzato troppo presto l’idea del soggetto (Dasein) all’interno di tale spazio: ecco perché il progetto sfere per Sloterdijk non è altro che un tentativo di “disseppellire” all’interno di Essere e Tempo l’opera “Essere e Spazio”, mettendo da parte la temporalità che Heidegger fa coincidere con il soggetto. In questa affascinante ricerca della mediazione antropica originaria, sulle tracce dello spazio intravisto da Heidegger, Sloterdijk trova anche il modo di comunicare una fenomenologia della mediazione che non paghi dazi alla psicanalisi: egli prende in prestito il termine di Thomas Macho noggetto, che possa descrivere il dato storico che l’autore si premura di chiarire: è l’uomo stesso che nasce in quanto essere mediale, esso è «l’animale accompagnato» per eccellenza, e non è vero che non ci sono tracce in epoca storica di questa dimensione di intimità originaria con il medium. Dalla sacralizzazione della placenta che ritroviamo in Ildegard von Bingen, fino alle suggestive riflessioni di Freud sulla Melanconia, ovvero quello stato dell’anima in cui l’essere si identifica con l’oggetto perduto, senza bramarlo. Forse il riferimento più lirico dell’autore è in tal senso alla figura del principe Myskin di Dostoevskij, che più di ogni altro ha rappresentato il compagno occasionale dell’intimità che, palesando l’incapacità di intuire il proprio vantaggio sugli altri, sconfessa in realtà l’eternità del transfert e del tymos per farci riscoprire una dimensione della condizione dello spazio antropologico mortificata dalla semiotica dello spazio, che sembra aver perso la sua sfida universalista ed ontologica. Queste tracce del noggetto ci devono condurre a ritroso nel tempo e nello spazio: in epoche precedenti ai momenti in cui, prendendo possesso della terra, l’uomo identificava essa con la madre e con il suo nomos; e poi dentro l’utero, in cui veniamo a contatto con un universo di suoni che invade la nostra microsfera e informa la nostra capacità di porci dei vincoli (ben prima della genesi del simbolico). Solo giunti a questa consapevolezza possiamo reinterpretare l’ansia e il senso di mostruoso che Heidegger percepiva intorno alla tecnica: essa non è altro che il ritorno di una capacità mediatica, di modulazione di sfere, che sembra essersi rivoltata contro l’uomo con il fallimento dell’“umanismo”. È da questo punto-zero in poi che Sloterdijk vuole ripartire per ricostruire, nei testi successivi, la storia dei media dell’uomo, compiutasi sub specie di ontologia e cultura. Sarà ciò forse una delle conseguenze della frase di Hans Blumemberg, posta in esergo alla prefazione di Bruno Accarino : «Che cosa accadrebbe se Heidegger fosse capito?»(p. 7).
Luca Marangolo
02_2011