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Peter Sloterdijk – Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica – tr. it. a cura di S. Franchini [Raffaello Cortina, Milano 2010, € 36]


Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik. Questo il titolo dell’ultima fatica di Peter Sloterdijk. Titolo che disegna da solo un intero programma. Perché non v’è punto qui che non ti veda. Devi cambiare la tua vita sono i versi che chiudono la poesia rilkiana Il torso arcaico di Apollo, versi che, come lo stesso filosofo tedesco evidenzia, «nella loro solida concisione e nella loro mistica semplicità emanano un’energia artistica simile a quella evangelica, difficile da rintracciare in altre formulazioni della poesia contemporanea» (p. 30). Le parole che il torso di Apollo, scultura perfetta nel suo essere-mutila, sembra promanare all’astante spettatore che si ponga in ascolto, indicano con chiarezza la direzione dell’indagine sloterdijkiana: un’indagine che punta alla messa-in-evidenza della verticalità come cifra dell’esistenza da perseguire e raggiungere. Ma come afferrare la dimensione verticale dell’esistere in un’epoca in cui, per dirla col Nietzsche de La Gaia Scienza, «la terra è stata sciolta dalla catena del suo sole» e soprattutto «non esiste più un alto e un basso»? La risposta di Sloterdijk sembra essere piuttosto diretta e trova il suo sostegno nello stesso dire nietzschiano «Soprattutto, e prima di tutto le opere! Cioè esercizio, esercizio, esercizio! La “fede” a ciò necessaria verrà al momento giusto – siatene certi!» (F. Nietzsche, Aurora, cit. in P. Sloterdijk, p. 1). L’occhio si posa pertanto sul “pianeta dei praticanti” che brulicano in quella stella ascetica, che per primo Nietzsche riconobbe con chiarezza nella sua portata ed estensione. Nell’epoca della “crisi della cultura” l’unica risposta può venire da un superamento della mediocrità e dalla delineazione di un’etica incentrata sull’esercizio, il cui scopo sia la formazione di individui all’altezza delle sfide vertiginose del mondo globalizzato.

Il testo di Sloterdijk si apre in effetti con una contestazione radicale dell’idea per la quale oggi si assisterebbe al ritorno in pompa magna del fenomeno religioso. Il filosofo evidenzia piuttosto il carattere antropotecnico delle pratiche religiose, intese come sistemi più o meno complessi di esercizi codificati che mettono colui che vi si presta in condizione di elevarsi e, cosa fondamentale, creano una stratificazione immunitaria a colui che li attua, contro le intemperie della vita e la mortalità che caratterizza l’umana esistenza. Esiste pertanto una continuità evidente tra le pratiche ascetiche (dal greco aìskesis che significa esercizio) della grecità, basate su un richiamo forte alla dimensione atletica e somatica, le pratiche ascetiche trasportate nella dimensione religiosa cristiana (ma un analogo richiamo può essere fatto rispetto alle pratiche ascetiche brahminiche o yogiche) e, infine, il ritorno della caratterizzazione somatica dell’esercizio (una caratterizzazione che si muove nella direzione di una de-spiritualizzazione dell’aìskesis a favore della vita nella sua dimensione corporea). Sloterdijk parla a tal proposito di un Rinascimento somatico (pp. 38-39), un rinascimento che trova nelle manifestazioni di esaltazione del corpo del ginnasta, e di assorbimento estatico verso i fenomeni sportivi, una sua compiuta realizzazione (p. 103 sgg.).

Ma qual è il punto della questione? Quello che si vuole qui tentare di approcciare, per la prima volta forse in maniera organica, è il tema delle elevazioni, delle tensioni verticali a cui l’uomo si sottopone per essere migliore di quello che è, un movimento ascensionale che Sloterdijk accosta alla scalata del Mount Improbable, riprendendo una felice espressione del biologo Dawkins (pp. 144-147). Il testo sloterdijkiano si snoda, allora, attraverso la presentazione di alcune delle figure che nella storia del pensiero occidentale si sono preoccupate di mettere l’accento sul carattere acrobatico dell’esistenza (la vita come succedersi di acrobazie, esercizi complessi, ripetuti al fine di essere stabilizzati per garantire la per-sistenza di quello specifico Dasein che è l’uomo). E, in effetti, ovunque si volga lo sguardo non si potrà che rinvenire, entro l’universo popolato da uomini, asceti: chi cerca esseri umani troverà acrobati, e tra questi trovano spazio personaggi del calibro di Nietzsche, Kafka, Wittgenstein, Foucault, Bordieu. L’esercizio, quindi, come linea guida per la propria auto-elevazione.

Un’auto-elevazione che si paga a duro prezzo: rompere le catene dell’abitudine, diventare i superatori di se stessi in un movimento continuo, il cui scopo è quello di stabilizzare la nuova corretta condotta di vita. Le caratteristiche di questo percorso ascensionale sono chiare ed evidenti nell’universo dei praticanti cristiani e nell’ambito delle principali religioni mondiali, tra cui spiccano per importanza l’induismo e il buddismo. In questo contesto rigettare l’abitudine significa ricacciare il mondo fuori di sé per consentire il pieno dispiegamento di quella secessione ascetica che prelude la formazione di una soggettività rivierasca estranea al flusso abituale delle cose-del-mondo (pp. 273-278). I movimenti successivi consistono nella creazione di un’enclave autonoma in cui l’io possa solitariamente parlare con se stesso, poi nella distruzione di quell’io, o quantomeno nella sua mortificazione, necessaria per abbracciare adeguatamente il Grande Altro, Dio, alla cui dedizione la vita del soggetto deve essere completamente votata.

Il movimento tratteggiato dalla modernità esibisce, invece, un percorso di naturalizzazione e risomatizzazione delle pratiche ascetiche. Questo significa innanzitutto che l’iter che conduce dal mondo alla solitudine dell’enclave autonoma e rivierasca si inverte a favore di un imperativo che vede nel mondo stesso il campo di applicazione della massima Devi cambiare la tua vita (p. 395). Inoltre il carattere individualistico delle pratiche ascetiche si stempera a favore di una diffusione capillare del concetto di esercizio, che troverà nell’organizzazione del sistema scolastico e nella curvatura auto-operativa del soggetto (p. 458 sgg.), intesa come necessità da parte dell’uomo moderno di affidarsi ad agenzie operative specializzate (cliniche, centri di assistenza consulenziale, etc.) per procedere al proprio miglioramento o a una qualche correzione efficace, gli strumenti più incisivi. È pertanto entro la dimensione ricurva dello spazio auto-operativo ed entro la rete del sistema scolastico, con il suo mantra dell’egualitarismo omologante, che l’uomo moderno, proprio quando la sua possibilità di effettuare un autentico movimento ascensionale (autentico perché non diretto a sovraterrene entità) sembra pienamente dispiegabile, rischia di perdersi e non sfruttare l’opportunità offerta. Riconoscere pertanto l’importanza dell’esercizio nella costituzione dell’esistenza degli individui consente di mettere mano a una compiuta antropotenconologia generale (p. 135).

Tale antropotecnologia sarà fondata non sull’homo faber o sull’homo oeconomicus bensì sull’homo immunologicus. E qui siamo al passaggio decisivo, in realtà sottolineato da Sloterdijk fin dalle prime battute del testo; passaggio in cui mi sembra emerga il punto di raccordo fondamentale tra quest’ultima fatica sloterdijkiana e il suo corpus filosofico precedente (in particolare la trilogia di Spheren). L’idea che l’uomo, al di là della sua costituzione immunitaria di tipo biologico, sia quell’ente che si dota di una seconda e una terza stratificazione immunitaria di carattere socioimmunitario e psicoimmunitario (forme di immunizzazione simbolica, le quali consentono a ciascuno di sopportare il peso dell’esistenza) sembra gettare le basi, da un punto di vista teorico, per la collocazione di Sloterdijk nel novero di quei pensatori che hanno fatto del tentativo di superare gli steccati e le dicotomie della vecchia metafisica occidentale il loro leitmotiv. L’homo immunitarius come cifra dell’homo repetitivus. Solo attraverso la trasmissione e la stabilizzazione di complessi sistemi di esercizi, che qualcuno sbrigativamente definisce sistema culturale e mette in contrapposizione a una natura ontologicamente distinta, si può pensare di gettare una testa di ponte tra i domini, apparentemente separati, della physis e della teknè. Solo così, incentrando la vita sull’esercizio e pensando la vita sulla base di una sistematica ascetico-acrobatica si può immaginare di creare quella forma adatta a vivere la modernità, al di là di sterili individualismi e a favore della costruzione di un adeguato sistema immunitario globale (pp. 554-555). 

 

Luca Lo Sapio

01_2011

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