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Luciano Floridi – Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide [Raffaello Cortina Editore, Milano 2022]

La rivoluzione digitale può essere annoverata tra i grandi turning point della nostra contemporaneità, al pari ad esempio della rivoluzione agraria o industriale, per via della sua enorme e innegabile portata trasformativa.

Oggigiorno sembra quasi banale sottolineare che le intelligenze artificiali, le IA, vivano al nostro fianco in ogni possibile ambito della vita umana, dallo shopping al marketing, dalle interazioni sociali all’intrattenimento, dai servizi bancari ai viaggi, dalla logistica al mondo del lavoro, e così via. Eppure, lo stesso termine “intelligenza artificiale” sembra ancora evocare, nella percezione comune così come nell’alveo del giornalismo sensazionalistico – e non ultimo anche entro alcuni settori dell’ambito accademico – una recondita paura di essere, come esseri umani intelligenti, lasciati indietro, superati e “detronizzati” – nella migliore delle ipotesi – dai nostri stessi artefatti. Complice, probabilmente, quasi un secolo di produzione fantascientifica: durante il secolo scorso, infatti, le intelligenze artificiali e le loro possibilità potevano essere contemplate o esplorate solo con l’immaginazione della fiction, impiegando talvolta dei narrativi passaggi obbligati verso una frattura tra organico e inorganico, culminante con la futura e inevitabile sconfitta dell’umano. Lo stesso termine “robot” viene coniato negli anni ’20 del Novecento da Karel Čapek nell’ambito della sua ormai celeberrima opera teatrale R.U.R.: tratto dal ceco robota, che significa lavoro forzato, o schiavitù, il robot di Čapek, il primo robot, era l’operaio artificiale deputato a liberare l’essere umano dalla fatica del lavoro. E, come si è ormai abituati a aspettarsi, lo schiavo umanoide diventerà man mano sempre più senziente, e si ribellerà in maniera violenta al suo padrone/creatore, determinando così la fine dell’umanità. Questo nodo narrativo rappresenta un topos letterario di grande successo, che dalla pagina o dal palcoscenico teatrale si riverserà sempre più, all’approssimarsi del nuovo millennio, nell’immaginario collettivo, e quindi nella cultura di massa. Hollywood lo ha declinato in mille modi: basti pensare a Skynet in Terminator o all’agente Smith in Matrix, a Samantha nel film Her, o a Ava in Ex Machina.

Le propaggini accademiche di questa visione estremamente competitiva tra intelligenze organiche e artificiali porteranno a una rinnovata paura semi-luddista, basata sulla previsione dell’avvento della Singolarità: un preciso momento nel tempo in cui l’intelligenza artificiale supererà di gran lunga l’intelletto umano, condannando quest’ultimo a languire per sempre nell’obsolescenza. Questa ipotesi eccessivamente catastrofica, e probabilmente, come si diceva, fortemente influenzata dalle narrazioni fantascientifiche, troverebbe un suo fondamento matematico nella celebre legge di Moore: nello sviluppo dei computer, il numero dei transistor sui circuiti integrati, e dunque la potenza di calcolo, raddoppierebbe ogni diciotto mesi. Questa affermazione di carattere empirico è stata coniata negli anni ’60, agli albori dunque dell’era digitale, e poteva sembrare assolutamente valida in quel preciso momento storico di esplosione delle tecnologie digitali; essa è tuttavia decaduta in tempi recenti – la crescita esponenziale di un fattore per un dato lasso di tempo non autorizza a pensare che essa debba procedere ad infinitum.

Nessun futuro catastrofico è dunque alle porte, e, soprattutto, l’intelligenza artificiale è già qui; invece di minacciare l’esistenza della specie umana, o meglio, surclassare il suo posto di dominio entro l’ordine naturale – questa la reale paura – l’IA e l’avvento del digitale hanno profondamente modificato il paesaggio umano, silenziosamente ma inevitabilmente. Sviluppi, opportunità e sfide, dunque, una volta sgomberato doverosamente il campo da suggestioni e paure cinematografiche, sono, nel testo di Floridi, ben vagliate e soppesate con rigore filosofico, allo scopo di delineare una possibile via da seguire per sfruttare al meglio il digitale e le sue promesse, e, attraverso di esso, costruire un mondo migliore.

L’assunto di partenza del volume, anche in vista di fornire una prima definizione di IA, consiste nell’attestare che le intelligenze artificiali non siano semplicemente super-intelligenze, poiché, nei fatti, non lo sono, ma che siano un qualcosa, anzitutto, che trasforma profondamente la realtà. Questi due punti, cosa effettivamente sia l’IA, e come essa operi nel mondo, sono assolutamente rilevanti in vista di una problematizzazione etica del rapporto tra umano e artificiale nella contemporaneità. Per quanto riguarda il primo punto, Floridi riconosce che l’IA sia difficilmente definibile in termini chiari, essendo (e funzionando come) un insieme di tecnologie, pratiche e artefatti matematici dalle più vaste applicazioni; l’autore si appoggia perciò alla definizione classica fornita da McCarthy, Minsky, Rochester e Shannon, nella loro Proposta per il progetto estivo di ricerca sull’intelligenza artificiale di Darthmouth, ovvero quello che è considerato il documento seminale per i primi studi sulle IA, datato 1955: «Il problema dell’intelligenza artificiale è quello di far sì che una macchina agisca con modalità che sarebbero definite intelligenti se un essere umano si comportasse allo stesso modo» (citazione riportata dall’autore a p. 35). Questa definizione per Floridi resta assolutamente valida anche nel presente, e sulla scorta di tale definizione l’autore procede a rilevare, lucidamente, che il proprium dell’IA sia quello di avere una sorta di potere di scissione: lungi dall’essere un felice matrimonio tra il regno biologico e quello artificiale, l’IA comporta invece un definitivo divorzio tra l’agire in modo intelligente e la necessità di essere intelligenti per farlo. Le attuali tecnologie cosiddette intelligenti mostrano, per Floridi, solo comportamenti intelligenti, tali perché definibili sulla scorta della performance umana: non possiedono realmente intelligenza, ma sono in grado di svolgere compiti che richiederebbero a un umano intelligenza per portarli a termine. Una calcolatrice ad esempio può svolgere calcoli anche molto complessi, e anche meglio e più velocemente di un essere umano, ma senza per questo essere intelligente (né tantomeno super-intelligente) stricto sensu. Ciò che conta è il risultato, seguendo il ragionamento dell’autore; dunque l’IA inaugura una nuova forma dell’agire, e poco avrebbe a che far col pensare: l’IA non è in grado di pensare in modo intelligente, ma può assolutamente agire in modo intelligente. Ciò che resta da rilevare è dunque che l’IA consista in una riserva di agire intelligente, seppur dalle capacità non illimitate, ma alla portata di tutti.

Il potere di scollamento tra agire e intelligenza è caratteristica fondante dell’agire artificiale, ma esistono altri scollamenti operati direttamente dal digitale sull’umano, il che ci porta al secondo punto: come l’intelligenza artificiale operi nel mondo. Effettivamente, le generazioni precedenti hanno conosciuto esclusivamente una dimensione del vivere “analogica”, entro la quale, ad esempio, presenza e posizione in senso spaziale sono aspetti coincidenti e assolutamente inscindibili, che descrivevano l’essere situati nel qui e nell’ora. Il digitale ha, secondo Floridi, provocato invece una frattura anche tra questi ambiti, considerati assolutamente immutabili prima e senza il digitale: posso essere fisicamente in un luogo, ma connesso attraverso la tecnologia digitale a un portale online; posso cioè trovarmi in due luoghi nello stesso momento, essere posizionato in un luogo fisico ma presente contemporaneamente in un luogo virtuale. Per le generazioni dei nativi digitali, e soprattutto per chiunque abbia vissuto la transizione digitale pur ricordando la vita analogica, la telepresenza non è più fantascienza, ma una realtà ormai diffusa e quotidiana, quasi banale, un tratto comune a tutta l’esperienza umana nelle società dell’informazione della contemporaneità. In questo modo, si comprende come tale potere di creazione di nuovi spazi e ambienti che abitiamo e nuove forme di agire con cui interagiamo, proprio delle intelligenze artificiali, possa essere descritto come una re-ontologizzazione del mondo: non si tratta semplicemente, o soltanto, di una re-ingegnerizzazione del mondo, una ristrutturazione nuova o inedita, o di una semplice ricombinazione, ma più propriamente di una modifica radicale della sua natura intrinseca, della sua ontologia. Ovviamente, il passaggio a questo nuovo statuto ontologico comporta anche una ri-epistemologizzazione della modernità, vale a dire una riconfigurazione, operata direttamente dall’influsso del digitale nelle pratiche quotidiane, di conoscenze e idee prima consolidate e considerate stabili – come la coincidenza tra presenza e posizione.

È in questo senso che l’infosfera, o meglio l’insieme degli spazi virtuali aperti dal digitale e abitati da esseri umani materiali nell’epoca di Internet, sta compenetrandosi sempre di più con il cosiddetto “mondo reale”: per Floridi non viviamo esattamente online, ma onlife. Lungi dall’essere una banale constatazione di costume contemporaneo, il potere di scollamento dell’IA diventa ora un potere di incollamento; per usare la terminologia dell’autore, è il taglia e incolla della realtà che comporta anche una ri-significazione e una ri-strutturazione degli spazi reali – delle città o dei trasporti, ad esempio, o delle nostre abitazioni – in modo che meglio si adattino alle delimitate funzioni e possibilità delle IA di farle funzionare come e/o meglio di intelligenze umane. Per tale ragione, non solo il digitale ha re-ontologizzato l’esistenza umana, comportando anche una modifica radicale della sua epistemologia (taglia), ma ha realmente modificato anche lo spazio “analogico” in vista di un accrescimento di funzionalità dell’esperienza onlife, e di una migliore integrazione dell’agire artificiale nella realtà fisica (incolla). O in altre parole, e per dirla con Floridi, siamo noi umani a aver modificato il nostro spazio per adattarlo, o “avvolgerlo”, attorno alle tecnologie smart. La progettazione degli ambienti fisici, siano essi un hub di Amazon, una catena di montaggio industriale robotizzata, o un’abitazione con elettrodomestici smart, dipende oggi interamente dalle possibilità dell’IA: se un agente in tali ambienti può essere artificiale, bisogna progettare, ristrutturare e dunque “avvolgere” tali ambienti intorno all’agente, in modo tale che sia in condizioni di svolgere con successo i suoi compiti. Il potere trasformativo delle IA si concreta anche in questo: è in atto un progressivo adattamento dell’ambiente all’IA piuttosto che dell’IA all’ambiente.

Sono molti i problemi etici sollevati dal prepotente ingresso del digitale nella vita quotidiana, si pensi ai concetti di progettazione e responsabilità; in questo importante contributo, Luciano Floridi guida il lettore attraverso una corretta concettualizzazione delle IA, per spianare la strada a una tematizzazione etica sulle intelligenze artificiali a partire da ciò che esse sono, da ciò che possono e non possono fare, per arrivare a considerare anzitutto i possibili usi (benevoli o malevoli) che se ne possano fare. Floridi ritiene che il problema non risieda nell’IA in sé – l’apparato tecnoscientifico che ne permette e ne ospita l’esistenza non è in sé buono o cattivo – ma, piuttosto, nel grado di intenzionalità che vorremo imprimere a essa nel guidarne le applicazioni, e verso quali scopi. Siamo ancora in pieno potere di direzionare queste tecnologie, potenzialmente verso ogni obiettivo; l’imperativo che abbiamo, dunque, è solo quello di comprenderne le opportunità e coglierne l’impatto in prospettiva futura, facendo lavorare l’IA verso il miglioramento delle società umane.

Il vero intento del volume è quello di proporre dunque tutta una serie di riflessioni strettamente etiche, raccolte in quattro macroaree concettuali: rendere l’IA più adatta all’ambiente umano, per permetterle di affrontare problemi concreti come i disastri ambientali, o la povertà, o la disuguaglianza sociale; dovremmo rendere l’IA più adatta all’umano, e, per dirla con Kant, assicurarci che le applicazioni di essa facciano in modo che gli esseri umani vengano trattati sempre come fini, e mai come mezzi; dovremmo mettere la “stupidità” dell’IA al servizio dell’intelligenza umana, facendo dunque in modo che i benefici trasformativi vengano condivisi da tutti, e non solo da alcuni; in ultimo, dovremmo fare in modo che l’IA ci renda più umani, scongiurando il rischio di usi potenzialmente o intenzionalmente “maligni”, che danneggerebbero la polis umana e l’intero pianeta. Attorno a queste riflessioni si sviluppano raccomandazioni o avvertenze pratiche, basate su anni di esperienza e lavoro sul campo, di carattere etico, politico e economico, per condurre questa nuova tecnologia, così promettente e così potente, verso il bene comune: per rendere le nostre società contemporanee più eque; per aiutare a risanare il pianeta dall’enorme minaccia – stavolta davvero catastrofica – del cambiamento climatico causato direttamente da interventi umani; per riequilibrare il mondo del lavoro alla luce delle possibilità dell’IA, per migliorare i rapporti sociali, personali e internazionali, e così via. Si comprende dunque che quello dell’autore sia un progetto umano, più che tecnologico, non ancora completo ma certamente da compiersi: come egli stesso ricorda, «il mondo ha bisogno di una buona filosofia» (p. 277), che traghetti con sicurezza verso il bene l’immenso potere tecnologico a disposizione delle generazioni presenti e future.

Stefano Palumbo

S&F_n. 27_2022

 

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