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Jacques Derrida – Ogni volta unica, la fine del mondo – presentato da Pascale-Anne Brault e Michael Naas, tr. it. a cura di M. Zannini [Jaca Book, Milano 2005, pp. 364, € 34]


Ogni volta unica, la fine del mondo è unʼopera singolare di Derrida, si fa fatica a includerla nella sua produzione filosofica, perché a tratti assume i toni del diario intimo, dellʼaneddoto biografico. Il testo ci invita a una lettura che sia piana, pacata e rispettosa della memoria di chi scrive e di coloro ai quali Derrida stesso dedica le sue parole, amici e colleghi, pensatori tra i più importanti del novecento francese: Barthes, Foucault, Althusser, Lyotard, Levinas, Deleuze, Blanchot, solo per citarne alcuni. Si tratta dunque di una raccolta di orazioni funebri, testimonianze e memorie, curata nella sua prima edizione statunitense da Pascale-Anne Brault e Michel Naas e apparsa con il titolo The Work of Mourning (Il lavoro del lutto), perché se cʼè una legge imprescindibile dellʼamicizia è che lʼuno se ne va prima dellʼaltro, obbligando il secondo a sopravvivergli, a fare i conti con la sua scomparsa. In Politiche dellʼamicizia Derrida scrive appunto che «la philía incomincia dalla possibilità di sopravvivere» (J. Derrida, Politiche dellʼamicizia, 1995, p. 25). Sopravvivenza è lʼaltro nome del lutto. I testi qui raccolti, dunque, ruotano tutti attorno allʼintimo nesso tra amicizia e lutto. Il lavoro del lutto è di una risma particolare, esso è «il nome di un problema. Se lavora è per tentare di dialettizzare la morte, quella che Roland Barthes chiamava: «“lʼindialettica”» (Ogni volta unica, la fine del mondo, p. 69). Il riferimento a Barthes è men che mai casuale: la scomparsa del critico francese rappresenta ciò che dà il la alla stesura di questi brevi testi commemorativi. In quella triste occasione, e poi per altre quindici volte, Derrida contravverrà al veto autoimpostasi di non scrivere in occasione della morte, «nellʼinsieme di celebrazioni, omaggi, scritti “in memoria” di coloro che da vivi erano stati miei amici» (ibid.). Sicuramente lʼoratio funebri è un genere insidiato da numerosi pericoli, in primis quello dellʼaccecamento narcisistico: nel parlare dellʼamico scomparso non si fa altro che parlare di se stessi, della propria sorte, della propria vita. La condotta da seguire, secondo Derrida, consiste nel mantenere un difficile equilibrio tra il vocativo e il discorsivo, tra lʼeccesso di fedeltà e il tradimento necessario, nellʼordine del discorso tra il contentarsi di citare e lʼevitare ogni citazione. Il primo ha sì il merito di far parlare la voce stessa dellʼamico, ma dʼaltro canto sembra non aggiungere niente alla narrazione. Il secondo rischia, invece, di far tacere ancora una volta la voce dellʼamico, di «aggiungere morte alla morte» (p. 64). Fare le due cose assieme si mostra come lʼunica valida alternativa, correggendo così «unʼinfedeltà con lʼaltra» (ibid.). Ne La camera chiara Barthes per spiegare il dolore della perdita materna ricorre alle parole di Proust in Sodoma e Gomorra: «non solo mi stava a cuore soffrire, ma anche rispettare lʼoriginalità della mia sofferenza» (R. Barthes, La camera chiara, 2003, p. 76). Così anche per Derrida si tratta di tutelare lʼunivocità di queste scomparse, il titolo scelto dai curatori italiani rende allora bene il sentimento del filosofo francese che afferma nella Prefazione: «La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita» (p. 11). Quel mondo così come lo conoscevamo giunge a compimento. Non si tratta soltanto del mondo che condividevamo con la persona che ci manca, ma del mondo intero nella sua quidditas, esso perde una qualità insostituibile, non già indispensabile (tutti, pagando un prezzo più o meno alto, sopravviviamo ai lutti delle persone a noi care), ma senzʼaltro unica. Ecco perché il testo di Derrida volentieri si colora di piccoli quanto preziosi episodi, che fanno baluginare di una luce chiara il ricordo dellʼamico scomparso, come nel caso di Paul de Man. Derrida racconta di quando sentì parlare suo figlio Pierre insieme con Paul della parola “anima”: «mi insegnarono che lʼanima degli strumenti corrisponde in francese al nome del pezzo di legno, piccolo e fragile, sempre molto esposto, minacciato, che si mette dentro il corpo dello strumento a sostegno del cavalletto per rendere comunicanti le due tavole» (p. 92). E ci racconta anche della strana commozione che ne seguì, «ero [commosso] a motivo della parola “anima”, che ci parla sempre, contemporaneamente, di vita e di morte, e ci fa sognare lʼimmortalità come lʼargomento della lira nel Fedone» (ibid.). O ancora il ritratto che fa di Berthes, ricordando «quella tristezza sorridente e affaticata, disperata, solitaria, fondamentalmente incredula, raffinata, colta, epicurea, che scorre senza irrigidirsi, continua, fondante e disincantata sui fondamenti» (p. 55); la venerazione nei confronti del maestro Levinas, la simpatia per Deleuze, «il più innocente e il meno colpevole per il fatto di “fare filosofia”» (p. 211). Infine cʼè un luogo in cui Derrida cita esplicitamente lʼApocalisse di Giovanni: appare nel secondo tra i due testi qui pubblicati alla memoria di Jean-François Lyotard, a proposito dellʼenigmatico quanto affascinante aforisma di Lyotard «Non ci sarà alcun lutto» [Il nʼy aura pas de deuil]. Derrida lo pone in connessione con la frase giovannea «Dio cancellerà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci saranno più né lutto, né grida, né dolore, perché il primo universo (le prime cose del mondo) sono passate» (p. 235). Sebbene Derrida non sia convinto che lʼaforisma di Lyotard si esaurisca tutto nelle parole di Giovanni è indubitabile che se ne senta lʼeco. La ritrosia ermeneutica di Derrida si fonda nella convinzione ultima che quelle parole, pubblicate più di dieci anni prima della morte dellʼamico sulla «Revue Philosophique», fossero indirizzate proprio a lui, o meglio, a loro. Allora Derrida cerca di sviscerare la grammatica futura di quel “non ci sarà”, quasi a volerne cogliere lʼindicibile segreto, è una prescrizione o una descrizione, un divieto o un augurio? «Non ci sarà affatto del lutto. Il “del” partitivo davanti allʼarticolo della morte e del lutto è così inquietante nella sintassi di questa frase straordinaria: il lutto non ci sarà, non ce ne sarà affatto, né poco né molto, né in tutto, né in parte» (p. 234). E ancora lʼaforisma non può caratterizzarsi come una norma prescrittiva perché è privo di soggetto, è senza io, tu, voi, o noi. La grammatica della frase di Lyotard apre come una lingua straniera nella lingua stessa, essa «si regge da sola […] non la si può comprendere, né si può essere sordi, né decifrarla, né non capirci nulla, né conservarla, né perderla, né in sé, né fuori di sé» (pp. 236-237). Solo tendendo lʼorecchio agli interrogativi irrisolti, facendosi eredi delle domande, la nostra sopravvivenza ci sembrerà meno penosa, e così il parlare in memoria conterrà il parlare avvenire.

Alessandra Scotti

S&F_n. 8_2012

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