Nell’ultimo decennio si è fatta vieppiù copiosa la messe di scritti riguardanti le ripercussioni etico-politiche ed economiche delle incredibili trasformazioni avutesi nel campo delle biotecnologie. Come sovente capita allorché occorre esprimersi su fenomeni radicalmente nuovi, intellettuali e uomini politici si sono quasi subito scissi in due gruppi contrapposti: apocalittici e integrati. Gli uni, gli apocalittici, partendo da una feroce critica della tecnica e della tecnologia, restano ancorati a un concetto di natura umana ormai desueto, sforzandosi, al tempo stesso, di integrarlo con il “fatto” dell’evoluzione, intesa, per lo più ed erroneamente, come progresso; gli altri, gli integrati, pontificano di continuo sulle virtù della scienza, senza interrogarsi in maniera critica e profonda su come essa stia modificando gli individui e la loro relazione con l’ambiente nel quale si muovono. Certo, esistono posizioni più sfumate, più trasversali, per così dire, ma la diade “tecnofobi” essenzialisti vs. “tecnofili” post-umanisti o trans-umanisti può costituire, nonostante i suoi limiti, un’utile chiave ermeneutica per la comprensione del dibattito su scala internazionale, dibattito nel quale il politologo americano Francis Fukuyama è riuscito col saggio L’uomo oltre l’uomo a far parlare nuovamente di sé. Già convinto assertore agli inizi degli anni ’90 della fine della storia e dell’impossibilità di future trasformazioni politiche, tali da mettere in questione il primato della democrazia liberale di stampo occidentale, Fukuyama si interroga in questo testo circa le problematiche politiche sollevate dalle nuove biotecnologie cercando di capire come sia possibile arginarne lo sviluppo. Intendendo la natura umana come «somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che ambientali» (p. 178), cioè come insieme delle peculiarità trasmissibili per via ereditaria che statisticamente sono più frequenti nell’essere umano, cerca di portare alla ribalta il mai tramontato diritto naturale. E, nel far ciò, si dimentica, volutamente, di ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo, da un lato, con le scienze fisiche, che già all’alba della modernità hanno frantumato lo sfondo cosmologico, di matrice stoico-medievale, che rendeva “possibile” la lex naturalis vista come riflesso della lex divina e quindi dell’ordinamento divino del mondo; dall’altro, con le scienze biologiche, che, in particolare negli ultimi anni, insieme con altre discipline quali l’antropologia, hanno evidenziato sempre con maggiore precisione i fattori e le modalità dell’evoluzione dell’essere umano. Analizzandone la storia, numerosi scienziati hanno rilevato che l’animale uomo ha dovuto per sopravvivere superare numerosissimi ostacoli facendo massicciamente ricorso ad atteggiamenti aggressivi nei confronti del proprio simile oltre che degli altri animali. Per raggiungere un certo predominio territoriale, per imporsi nel branco come maschio dominante, per ottenere maggiore soddisfazione dal punto di vista sessuale, ha fatto dell’aggressività e della violenza le componenti principali del proprio comportamento. Tenendo presente ciò, risulta alquanto arduo costruire un discorso quale quello costruito da Fukuyama, per il semplice fatto che di una presunta natura umana, intesa come l’insieme di quegli elementi che più spesso si riscontrano nell’uomo, farebbero parte a pieno titolo “qualità” poco onorevoli, che, pur tuttavia, hanno avuto una funzione precisa nel corso dell’evoluzione. Fukuyama è ben consapevole di ciò, ma dribbla la questione sostenendo che questo è un falso problema, nella misura in cui, col passare del tempo, le sempre più complesse comunità politico-sociali hanno vigilato sui comportamenti violenti e lesivi del bene comune. Ma un’osservazione del genere è discutibile da più punti di vista: uno Stato, di qualsiasi natura esso sia, non riuscirà mai a eliminare la violenza, ma al massimo cercherà di impedire, come di fatto avviene a tutt’oggi, che le regole del “vivere civile” siano dettate dalla legge della giungla; in secondo luogo, senza voler recuperare teorie vetero-marxiane e marxiste considerate oggi obsolete ma che hanno una validità empirica insuperata per certi aspetti, lo Stato è sempre espressione di una sola classe, ragion per cui non può non compiere violenza, in senso lato, nei confronti della classe considerata nemica. Anche lo Stato democratico-liberale, tanto decantato dal filosofo americano, non è esente da questi difetti e contraddizioni, se così li si può definire: la storia più o meno recente lo dimostra in maniera chiara. In questo modo, si potrebbe dire, vengono a crollare quelle che sono le fondamenta del discorso di Fukuyama: crolla cioè sia la possibilità di una natura umana, che sia sganciata del tutto da qualsivoglia cosmologia e contenga esclusivamente caratteri positivi, da salvaguardare, e sulla base della quale sia possibile ripristinare un non ben identificato diritto naturale e difendere l’uomo dall’invasione delle biotecnologie; sia la garanzia offerta dalla democrazia liberale, che perpetua, non elimina, il problema della violenza e dell’aggressività come fattori dell’atteggiamento socio-politico dell’uomo.
Interessanti, però, sono le argomentazioni che Fukuyama presenta nella prima parte del testo, quella più politica per intenderci. Infatti, interrogandosi su come sarà l’uomo del futuro, pone una questione di scottante attualità che non riesce ad approfondire: le biotecnologie, sottoforma di farmaci e non solo, possono modificare non soltanto il corpo dell’uomo, ma anche la sua psiche e la sua moralità. Si tratta, in altre parole, di cambiamenti che in particolare negli Usa hanno fatto parlare di moral enhancement, di un miglioramento morale in senso generale. Come si devono comportare l’opinione pubblica e il governo di fronte a questa eventualità? Ma soprattutto questa eventualità è da considerarsi positiva o negativa? Cosa si intende per “morale” nell’epoca del libertinismo massificato?
Agli androidi l’ardua sentenza.
Ciro Incoronato
S&F_n. 8_2012