S&F_scienzaefilosofia.it

Frédéric Neyrat – La part inconstructible de la Terre. Critique du géo-constructivisme [Seuil, Paris 2016]

Il dibattito scaturito dalla crisi ecologica ha certamente indirizzato l’attenzione sulla nozione di Terra. D’altronde, fenomeni come il riscaldamento climatico o l’acidificazione degli oceani sono incomprensibili se non su scala planetaria. Eppure, il fatto che la Terra sia divenuta un oggetto di sapere nella sua totalità non rappresenta necessariamente la garanzia di una prospettiva che possa dirsi ecologica. Dall’assunzione di tale nesso problematico muove Frédéric Neyrat, professore di Planetary Humanities alla University of Wisconsin-Madison, nel suo volume La part inconstructible de la Terre.

Seguendo il fil rouge del rapporto tra ecologia, politica e Terra, il volume si articola in tre parti che guidano progressivamente il lettore da un’indagine empirica dei progetti geo-ingegneristici a una disamina filosofica ed etico-politica di alcuni presupposti del pensiero ecologico contemporaneo. In conclusione, la proposta di un’ecologia della separazione, sviluppata nella terza e omonima parte del libro. La linea argomentativa seguita, di indubbia originalità, ambisce a dimostrare come le concezioni della Terra e della natura sottese ai progetti geo-ingegneristici e a buona parte dei discorsi dell’ecologia politica contemporanea si fondino su un approccio di matrice costruttivista che impedisce l’elaborazione di una postura autenticamente ecologica.

Andando più nello specifico, la prima sezione del volume propone una disamina critica del geo-costruttivismo, vale a dire quell’insieme diversificato di discorsi e politiche il cui nucleo principale risiede nell’affermazione secondo cui «la Terra e tutto ciò che in essa è contenuto […] possano e debbano essere ricostruiti e rifatti integralmente» (p. 11). Per affrontare i problemi posti da questa posizione, viene presa in esame la relazione tra il concetto di Antropocene e una delle più emblematiche emanazioni del geo-costruttivismo, la geo-ingegneria, ovvero il complesso di pratiche tecnoscientifiche che consistono nella manipolazione di elementi chimico-fisici su scala planetaria con l’intento di porre fine tecnicamente alla crisi climatica.

Unendosi al nutrito gruppo di studiosi e studiose che hanno sottolineato le criticità del discorso dell’Antropocene, Neyrat mette in luce come, a partire dalle concettualizzazioni dell’umano e della natura proposte, esso trovi una risposta coerente nella geo-ingegneria. Se è infatti l’umano, concepito come un universale astratto dai contesti socio-economici di riferimento, a essere considerato il principale responsabile della crisi ecologica, quest’ultima si presenta come un esito necessario della semplice presenza umana sul pianeta Terra. Di conseguenza, l’unica soluzione per porre fine alla crisi non può che essere il definitivo e pervasivo controllo della Terra, concepita come mero oggetto disponibile alla manipolazione. In questo senso, che si tratti dello stoccaggio di diossido di carbonio, della costruzione di uno scudo chimico per diminuire le radiazioni solari o dell’aumento artificiale dell’effetto albedo, i progetti della geo-ingegneria rappresentano una risposta in linea con la narrazione dell’Antropocene nella misura in cui al generico soggetto denominato umanità, caratterizzato da un’indisturbata attività e un assoluto potere, si oppone l’oggetto Terra, rappresentato come «scatola vuota» (p. 76), come materia grezza disponibile all’uso e consumo umano.

Il discorso egemonico dell’Antropocene si caratterizza, dunque, come l’articolazione di due discorsi solidali. Se, da un lato, esso naturalizza il soggetto della crisi ecologica, cogliendo l’umanità nella sua generica astrattezza, con lo stesso gesto compie uno speculare atto di annichilimento della natura, considerata come materia infinitamente disponibile al controllo umano. Da questo punto di vista, la geoingegneria non sarebbe l’ultima frontiera di una parabola di innovazioni tecniche che traghetta l’umanità in una nuova epoca, come spesso viene presentata, bensì il più antiquato dei progetti. Secondo Neyrat, infatti, essa affonda le sue radici nell’ideale scientifico moderno di emancipazione assoluta dell’umano dalla natura che trova i suoi maggiori esponenti in Galileo, Bacone e Cartesio (p. 76). Lungi dall’essere semplicemente il “piano B” nelle proposte di contrasto della crisi ecologica, per Neyrat la geo-ingegneria ne rappresenta, quindi, la costante sottotraccia.

Nel concludere la prima sezione del volume, Neyrat sottolinea dunque che a sostenere il discorso della geo-ingegneria e a caratterizzare il geo-costruttivismo non vi sarebbe esclusivamente la dicotomica separazione tra umano e natura, come rileva il pensiero ecologico contemporaneo,  bensì un diffuso anaturalismo, ovvero la negazione tout court dell’idea di natura: «con l’arrivo dell’ipermodernità geo-costruttivista è precisamente l’idea di natura stessa che scompare all’indomani della sostituzione di quest’ultima con entità artificiali il cui scopo è integrare, digerire e riprogrammare tutta l’alterità naturale» (p. 16). Per il geo-costruttivista la natura, in effetti, non esiste se non in relazione ai suoi progetti tecnici di modifica e ricostruzione terrestre; egli la considera come un servizio e un mezzo di produzione per il benessere umano, le nega qualsiasi alterità e, così facendo, la cancella (p. 121).

La seconda parte del volume si confronta invece con le principali proposte del pensiero ecologico contemporaneo, restituendo parte delle criticità emerse in modo trasversale e tracciando delle geografie interne originali. In particolare, viene mostrato come il discorso di alcuni esponenti dell’ecologia politica condivida gran parte delle assunzioni che vertebrano il discorso geo-costruttivista, attestandosi su una posizione che viene definita eco-costruttivista.

Per delineare la genesi concettuale di questa postura, Neyrat parte dal cambio epistemico rappresentato dall’ascesa del paradigma della turbolenza, diffusosi a partire dagli anni Settanta nelle scienze della vita e in quelle sociali (p. 133). L’assioma ontologico alla base di tale paradigma afferma la non esistenza di ordine e stabilità dell’universo, dipingendo il mondo come un mutevole, aleatorio e imprevedibile processo. Se una conseguenza di questa svolta concettuale è stata certamente quella di fornire un’immagine della natura che eccede il cieco meccanicismo cui storicamente è stata spesso consegnata, nel tempo l’assunzione di questo paradigma ha mostrato di essere un’ottima base per lo sviluppo di economie politiche neoliberiste e antiambientaliste. L’enfasi sul caos e l’incertezza permette infatti di far leva sulle capacità adattive, di resilienza, degli individui, generando una vera e propria economia politica della catastrofe che rende la crisi un principio primo e giustifica l’interventismo tecnologico. Infatti, se non vi è nessun ordine naturale da ripristinare, nessuna natura edenica a cui tornare, allora tutto è passibile di costruzione e ricostruzione, tutto è riprogettabile tecnicamente.

Insieme all’acquisizione dell’incertezza, l’altro asse concettuale a partire da cui si sviluppa l’eco-costruttivismo viene individuato nell’idea di interconnessione generalizzata (p. 30). Quest’ultima, riconosciuta come il principio cardine del pensiero ecologico da Ernst Haeckel in poi, sembrerebbe rispondere in modo efficace alla negazione della relazione tra umanità e natura che caratterizza i discorsi geo-costruttivisti. Quando però la complessità e l’interconnessione sono mobilitate per negare alla natura uno statuto di inappropriabilità e per giustificare l’interventismo tecnologico, l’eco-costruttivismo svela il suo paradossale legame con il geo-costruttivismo. Secondo Neyrat, infatti, l’eco-costruttivismo «soffre di un eccesso di geo-costruttivismo al contrario: non della divisione soggetto umano/oggetto non umano, ma dell’inevitabile interrelazione che porta all’impossibilità di acquisire una prospettiva» (p. 252).

Un ulteriore tratto caratterizzante l’eco-costruttivismo viene individuato nel modo in cui esso si rivolge alle tecnologie in relazione alla crisi ecologica (p. 219). Molti dei movimenti a vocazione ecologista che confluiscono in questa posizione propongono infatti di interfacciarsi con la crisi ecologica in termini tecnici, attraverso un maggiore, sempre più rapido e pervasivo sviluppo tecnologico. L’ecomodernismo, ad esempio, propone di integrare le preoccupazioni ambientali nel sistema capitalista senza modificarne la struttura né rinunciare agli ideali di crescita. La tecnologia, in questo quadro, rappresenta il principale strumento per far collimare questi imperativi. Pertanto, l’ingiunzione all’intervento tecnico non sarebbe appannaggio esclusivo dei geo-costruttivisti ma anche degli eco-costruttivisti.

Tutti questi tratti che emergono dal discorso eco-costruttivista per il filosofo francese sono ben ricapitolati dall’ecologia politica senza natura di Bruno Latour, cui viene dedicato un intero capitolo di critica. In linea con quanti hanno proposto delle letture costruttiviste del lavoro di Latour, criticandone l’Actor Network Theory per il timore di un’ontologia “piatta” e depoliticizzata, Neyrat sposa l’idea secondo cui farsi carico delle mediazioni e delle connessioni che avvengono nel farsi delle pratiche tecnoscientifiche equivale a cancellare l’idea stessa di natura, scivolando un anaturalismo ipermoderno. Se tutto, infatti, viene messo sullo stesso piano, se non vi è differenza sostanziale tra umani, primati e prioni, come determinare ciò che è rilevante? Come distinguere, ad esempio, tra tecnologie desiderabili e indesiderabili? (p. 187) Latour sarebbe, da questa prospettiva, più moderno dei suoi moderni, legato a un ideale di progresso e sviluppo tecnologico incapace di mettere a fuoco ed evidenziare il negativo della connettività, ciò che a essa si sottrae e le resiste. Il progetto di un «Parlamento delle cose» (si veda B. Latour, Non siamo mai stati moderni, tr. it. Eleuthera, Milano 2009 e Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2000), l’idea di composizione, la costituzione di un collettivo nuovo e simmetrico finirebbero per ricreare un sintetico Uno: «L’obiettivo ultimo di Latour non è lasciare che esista la molteplicità di attanti, ma riguarda il produrre l’Uno» perché «l’esclusione del Due, inevitabilmente conduce all’Uno, per quanto in là nel futuro possa essere» (pp.186-7). In questo modo, «dall’ecologia della resilienza all’ “ecologia politica di Latour”, l’eco-costruttivismo sembra essere in una posizione difficile per ergersi contro la geo-ingegneria e le sue versioni dell’Antropocene» (p. 216).

Il confronto tra geo-costruttivismo ed eco-costruttivismo è dunque disposto. Se l’eco-costruttivismo certamente insiste sull’idea di interconnessione tra umani e non umani, il geo-costruttivismo pone l’umanità in una posizione di lontananza assoluta rispetto alla Terra. Tuttavia, al netto di queste divergenze, l’eco-costruttivismo, al pari del geo-costruttivismo, è insomma incapace di pensare la radicale alterità del vivente, la sua resistenza a ogni forma di domesticazione e diluizione, la sua incostruttibilità. L’impossibile identificazione di una sfera autenticamente naturale e il riconoscimento dei traffici che avvengono tra natura e cultura da parte dell’eco-costruttivismo conducono, in questo quadro, ad abbandonare la nozione di natura, a dichiararne la morte, mettendo in luce la diffusione all’interno del pensiero ecologico di un anaturalismo costruttivista il cui risvolto più eclatante si manifesterebbe proprio attraverso la stessa logica che motiva le proposte geoingegneristiche: «se la battaglia contro la grande partizione tra natura e cultura significa disfarsi di ogni sorta di separazione, allora questa battaglia non farà altro che nutrire un anaturalismo globalizzato» (p. 266).

Si apre, così, la terza parte del volume, in cui Neyrat procede a illustrare la pars construens del suo discorso. La proposta, come si anticipava, è quella di elaborare un’ecologia della separazione capace di resistere alle tendenze sintetiche di un anaturalismo costruttivista. Scardinare la logica costruttivista che nutre non solo le proposte geo-ingegneristiche, ma gran parte del pensiero ecologico stesso, come si è visto, diviene dunque la chiave di volta per pensare in termini finalmente ecologici. Un’ecologia della separazione tenterà dunque di riconnettere ciò che è stato scisso mentre separerà ciò che è stato eccessivamente unificato (p. 34). Al principio di interconnessione dell’ecologia bisognerà quindi accompagnare quello della separazione, al fine di proporre una concezione di natura e di Terra che si sottragga al sogno di una totale astrazione e controllo tecnologico.

Per strutturare la proposta di un’ecologia della separazione, Neyrat si confronta innanzitutto con le riprese dell’ecologia profonda della distinzione tra natura naturata e natura naturans. Se, da un lato, è possibile affermare in via generale che con un approccio ecologico sia possibile pensare la natura non come mero oggetto, dall’altro il richiamo alla generatività e processualità non è sufficiente per giungere a una proposta che si confronti con l’anaturalismo delle posizioni eco-costruttiviste. Per uscire dall’impasse di pensare la natura o come mero oggetto completamente esteriorizzato o come soggetto assoluto cui facilmente si sostituisce l’umano, Neyrat trova allora nella filosofia di Friedrich W. J. Schelling la possibilità di pensare la natura e la Terra altrimenti.

Proponendo una rilettura di alcuni aspetti meno frequentati dell’opera schellinghiana, il filosofo francese si concentra sul movimento di sottrazione, anteriore alla distinzione tra natura naturans e natura naturata, che permette di pensare la natura stessa come «istanza di separazione in un mondo che ha esteso il principio dei principi dell’ecologia alle mediazioni tecnologiche» (p. 276). Introdurre un principio di separazione porta infatti l’attenzione sul movimento anti-produttivo che precede e rende possibile ogni generatività e produzione. Questo significa pensare la natura in termini denaturanti, come natura denaturans, secondo il neologismo proposto (p. 278). Solo un’originaria contrazione, un occultamento (riprendendo il noto frammento eracliteo), è ciò che rende possibile l’espressione e la manifestazione: questa assenza è al cuore stesso della produttività, pur essendone, appunto, separata.

Per spiegare meglio questo movimento denaturante, Neyrat ricorre alla categoria di wildness (sauvage), condizione di possibilità di ogni individuazione che invita a intendere la natura come un’istanza di disconnessione che apre a nuove pratiche di abitazione del mondo (p. 290). La wildness è, così, incostruttibile; intraducibile nella semplice wilderness e nelle riserve naturali, essa è piuttosto condizione di possibilità, essa stessa inaccessibile, che apre e dispone un campo sempre alle spalle dell’umano, presupposto di ogni sua pratica creativa o distruttiva.

Dunque, solo una Terra incostruttibile elude la sfericità della sua forma (p. 291) e permette di pensare alle relazioni che l’umano può intrattenervi mantenendo un legame che non si rovesci in un movimento di sintesi. Riprendendo la terminologia di Augustin Berque, la Terra non è dunque né oggetto, né soggetto bensì tragitto, trans-getto; evento di lunga data che, contrariamente a Gaia, esibisce l’origine inorganica e fredda del suo percorso e non promette omeostasi né un futuro controllo dell’umano. La Terra così intesa rimanda alla costitutiva opacità e dunque all’inappropriabilità e all’eccentricità del suo tragitto.

Pensare un’ecologia della separazione significa quindi pensare un’ecologia politica che possa misurarsi con degli ordini di grandezza che eccedono i sogni prometeici di un completo controllo tecnico. Si tratta dunque, in ultima istanza, di identificare un margine di invisibilità, di far sì che vi sia uno spazio per l’alterità. Tuttavia, se per Neyrat pensare la politica a partire dal suo rimosso significa pensare la natura in termini di antiproduzione, un’ulteriore declinazione di questo nodo è forse necessaria per accompagnare l’originale lavoro di mappatura critica realizzato nel campo dell’ecologia politica.

 

Camilla Bernava

S&F_n. 29_2023

Print Friendly, PDF & Email