A un primo sguardo, il testo curato da Andrea Gatti, Pensieri sul riso e Osservazioni sulla favola delle api edito da Mimesis, potrebbe mostrarsi come una raccolta di lettere di un medesimo pensatore, l’irlandese Francis Hutcheson, su due tematiche ben distinte: una disamina epistemica sul riso, in opposizione all’opinione hobbesiana che esso scaturisca da un sentimento di superiorità, datata 1725, e una critica all’impianto morale mercantilistico e proto-capitalista di Bernard de Mandeville, edita nel 1726. Tuttavia vi è un filo nascosto che sostiene l’ordito di queste due tele e che ne motiva la pubblicazione congiunta fin dal 1750. Hutcheson è un convinto sostenitore della natura benevola dell’uomo e difende a spada tratta questa posizione contro chiunque voglia mostrare la socialità antropica come un conveniente artificio. Le tematiche sul riso in Hobbes e la inevitabile e necessaria compresenza di vizi e virtù in una comunità fiorente in Mandeville sono l’esito logico di una lettura pessimistica e negativa dell’essere umano. Come rammenta lo stesso Gatti: Hutcheson «risulta ancora oggi ammirevole per la sua fede nel principio che la mente dell’uomo sia governata non tanto da un determinismo teleologico o da una propria capacità razionale, quanto da un senso comune o morale innato, istintivo, ma soprattutto “fondamentalmente virtuoso e benevolo”» (pp. 12-13). Il saggio, dopo un’ampia e particolareggiata introduzione del curatore volta a favorire la contestualizzazione e l’esegesi degli scritti inglesi, si struttura nei due capitoli che danno il titolo all’elaborato complessivo. Lo studio del riso porta lo scrittore irlandese a inserirsi all’interno di un filone narrativo particolarmente rigoglioso tra XVII e XVIII secolo. Eppure, Hutcheson «fu tra i primi a produrre un’epistemologia del riso, a studiarne non solo le cause produttive, ma anche gli effetti individuali e sociali» (p. 19) al fine di mostrare l’inesattezza di quella che forse costituiva, all’epoca, la più influente teoria del comico: l’idea hobbesiana. Secondo quest’ultima la risata esprimerebbe il piacere di colui che la manifesta nel rinvenire, rapportandosi a qualcun altro, un sentimento di superiorità nella propria condizione. Si palesa anche in questo frangente il naturale egoismo dell’uomo-lupo leviatanico: il passaggio all’artificio assolutistico non eclissa completamente la connaturata superbia dell’homo hobbesiano, la quale si svelerebbe come sostrato latente nei rapporti interumani ordinari. Con un procedimento quasi eziologico, Hutcheson vaglia la proposta dell’autore del Leviatano attraverso esempi e situazioni quotidiane, giungendo alla conclusione che non si possa asserire in modo generale né che il riso sia riconducibile a un sentimento di superiorità, né, all’opposto, che dalla suddetta emozione scaturisca sempre il ridere. Quindi viene enucleata la “teoria dell’incongruenza”, per la quale la risata sarebbe causata dalla «unione di immagini che presentano idee corollarie opposte e qualche somiglianza nell’idea principale» (p. 52). Una sintesi grottesca originerebbe il senso del comico, sia quando il contrasto è semantico, sia quando a cozzare sono i suoni: il cosiddetto gioco di parole. La teoria appena esposta, lungi dall’essere un mero esercizio dialettico, offre all’autore il modo di avanzare, in opposizione a Hobbes, la sua ottimistica antropologia, esibendo la funzione e il valore morale di questa peculiare espressione umana. Il coefficiente edonico generato dalla risata costituisce un ottimo espediente catartico per il soggetto; inoltre la contagiosità di tale affezione partecipa nella fondazione della socialità, in quanto «se non siamo fatti bersaglio noi o i nostri amici, il riso ci dispone a una buona opinione della persona che lo suscita» (p. 57). Oltre a ciò il riso, accostando archetipi di grandezza e banalità, consente a chi ne è colto di prendere le distanze dall’oggetto del comico per riassegnarlo alla sua corretta posizione nella scala delle priorità. Ed è in ciò che il ridicolo rivela il suo valore gnoseologico. Condizionato dalle proprie passioni, dalla tensione all’infinito delle proprie facoltà, l’individuo spesso travalica ciò che l’esperienza e l’acume gli dovrebbero permettere di concludere: ridere di questa condizione rappresenta una zavorra ai voli pindarici a cui l’uomo troppo sovente si abbandona. Tale mansione è tanto autodiretta quanto eterodiretta poiché addolcisce ammonizioni e critiche inducendo una buona disposizione e una franca riflessione in colui che ne viene colpito. Ergo, anche nelle scelte retoriche si evince la naturale predisposizione alla socievolezza dell’homo sapiens. Nonostante le numerose qualità relazionali di questa affezione, il mittente si premura di mettere in guardia colui che non tiene conto delle differenti predilezioni e capacità cognitive dei suoi interlocutori. Mescolando idee opposte, il comico può portare a non discernere il meschino dall’aulico, esaltando ciò che è per natura infimo o degradando ciò che in sé è eccelso. Per questo è quanto mai necessario seguire alcune regole pratiche delucidate dallo stesso Hutcheson. Queste norme a conclusione del capitolo “Pensieri sul riso” guidano il curatore Gatti a ipotizzare un certo prospettivismo epistemico nello scrittore irlandese. Differenti gradi di consapevolezza e di inclinazione spirituale sono in grado di corrompere il benefico effetto del ridere, per cui, in quanto artificio retorico, colui che si avvale del ridicolo deve tenere conto delle peculiarità dell’uditorio. La capacità di una verità di essere ritenuta oggettiva si fonda sempre in parte sul credito soggettivo che ciascuno è disposto ad affidarle. L’assolutamente vero non descriverebbe quindi ciò che si qualifica in quanto evidente in sé o incontestabile. Spostarsi da Hobbes a Mandeville, ovvero dalla prima alla seconda parte del saggio, significa esaminare una serrata critica contro la retorica demagogica di questo scrittore e soprattutto contro la sua corrosiva etica mercantilistica, foraggiera di una perversa valutazione del vizio. La favola delle api rappresenta l’allegoria di un alveare come società opulenta nella quale le perversioni connaturate alla natura orgogliosa delle api sono modulate e indirizzate dalla politica, mediante l’artificio delle pubbliche virtù, alla crescita e all’accumulazione di benessere. L’uomo che si cela dietro alla figura antropomorfa dell’ape è per Mandeville un essere principalmente dotato di uno smisurato amore di sé: questo è la fonte primaria dei malcostumi quali il lusso, l’invidia, la malizia. Il legislatore, più che arrischiare nell’utopico e controproducente tentativo di eliminare i vizi, dovrebbe direzionare i suddetti nella produzione di ricchezze, in special modo attraverso la buona educazione e il timore per la disapprovazione altrui, ossia la vergogna, il principale nemico dell’orgoglioso abitante dell’alveare mandevilliano.
Hutcheson palesa la fallacia di questa interpretazione e propone altri modelli possibili di organizzazione comunitaria che non implicano una giustificazione delle depravazioni. Innanzitutto è necessario distinguere tra appetizioni e affezioni o passioni: i bisogni del primo tipo «sono naturalmente determinati da un senso di dolore preliminare a qualunque opinione sulla bontà dell’oggetto in sé, desiderato al fine precipuo di rimuovere quel dolore»; i secondi «sorgono solo su una preliminare opinione che vi sia qualcosa di buono – per noi o per coloro che amiamo – nell’oggetto. Questi ultimi desideri possono tuttavia accompagnarsi al dolore quando l’oggetto che si immagina buono è sfuggente» (p. 66). Il mancato assolvimento di queste esigenze apporta inevitabile dolore nel primo caso; nel secondo, ristabilendo l’importanza e le qualità intrinseche al movente e dissociandovi le opinioni false, è possibile prevenire la sofferenza. Da questa differenziazione emerge una morale di condotta sociale la quale non impone un’etica coercitiva verso le passioni, la quale, come ogni forma di proibizionismo, produrrebbe malcontento e rigetto; bensì la fede nella benevolenza antropica dell’autore affida all’autovalutazione individuale la competenza per assegnare alle proprie affezioni il giusto peso nella personale ricerca eudemonistica. Il mittente esibisce appunto una prospettiva mediale per la quale i piaceri non sono elementi da ostracizzare, purché essi non generino brame inutili e non si trasformino in abitudini deleterie per la persona e la società. L’eterogeneità delle comunità umane permette al consumo di svilupparsi anche attraverso la temperanza e la moderazione, qualità queste che divergono nei vari soggetti a seconda della loro condizione socio-economica. Difatti ognuno ha il dovere di concedersi alle passioni relativamente alle proprie possibilità e sempre tenendo bene a mente l’assunto, quasi proto-utilitaristico, che la felicità somma si realizza nella sua più ampia diffusione. La perniciosità di una allegoria quale La favola delle api appare evidente nella riflessione di Hutcheson: «lusso, intemperanza e orgoglio, nella loro accezione comune, sono vizi; […] i lettori comuni immaginano ancora che quei termini denotino vizi; ma apprendendo che quanto essi confusamente immaginano come vizioso è in realtà necessario al bene comune, perderanno la loro avversione al male morale in generale e lo immagineranno ben compensato da alcuni dei suoi vantaggi» (p. 74). Non soltanto il testo di Mandeville non chiarifica in quale modo i vizi dovrebbero necessariamente essere compresenti alle virtù, ma tende a giustificare i primi sulla base del loro effetto economico-politico, mortificando l’idea di una eticità intrinseca all’atto e svuotando di utilità qualunque intervento moralizzante. Le licenziosità divengono così qualcosa da tollerare e addirittura perpetrare. La fortuna della Favola delle api scaturirebbe dalle argomentazioni capziose e volte alla persuasione del lettore. Quest’ultimo resta confuso di fronte alle incoerenze e contraddizioni del testo, le quali vengono dischiuse dall’accurata analisi del pensatore irlandese e illustrate nella loro natura aporetica. Attraverso uno stile semplice e diretto, atto alla divulgazione, Hutcheson affronta non soltanto due dei teorici più famosi nella produzione filosofica britannica, egli prende parte a un dibattito che segna l’intera storia del pensiero umano. La condizione naturale dell’uomo, la sua antropologia, è la prima pietra di qualunque struttura filosofica. Politica, etica, gnoseologia non possono prescindere dalla preliminare definizione dell’essenza dell’individuo, perché se i sistemi posso crollare, vi sono sempre costruttori pronti a erigere nuovi palazzi del sapere, e il solo modo per poter arguire la forma della nuova struttura è studiando coloro che ne sono gli artefici. Per tale motivo questo libro può costituire un valido aiuto nella contemporaneità: in un’epoca di immoralità e degrado, in cui la speranza nell’altro scema fino a impedire di fidarsi di chiunque al di là di se stessi nell’inconscia supposizione filo-mandevilliana che nessun atto è mai disinteressato, considerare l’altro un essere simile a se stessi, con le medesime virtù e paure, ricordarsi che ognuno condivide la facoltà di ridere e che la presenza di tale espressione ha il compito precipuo di unirci e di aiutarci nella comprensione di ciò che conta nella vita, può portare ciascuno, quale costruttore dell’essere, a edificare, invece di una fortezza eretta sui vizi, un faro accogliente sulla rotta per una società più giusta. «A meno che tutta l’umanità sia pienamente dotata non solo di ciò che è necessario ma anche di tutte le innocenti comodità e dei piaceri della vita, è ancora possibile, in assenza di vizi, favorire notevoli consumi prendendosi cura in maniera onesta della famiglia, degli amici o di qualche degna persona in difficoltà» (p. 76).
Tommaso Corleoni
S&F_n. 21_2019