Pur nella sua frammentarietà quest’opera postuma può a buon diritto essere considerata, come afferma Chiara Gallini nella sua introduzione, un libro Summa, all’interno del quale confluiscono in veste di appunti sparsi, l’insieme delle tematiche che nel corso degli anni hanno occupato la ricerca di Ernesto de Martino. Il fascino di queste pagine sta tutto nel fatto che esse riescono, malgrado la loro incompiutezza, a comunicare in maniera coerente i maggiori punti di approdo teoretici dello scrittore. «L’opera si inscrive quindi in quel moto umanistico che, dopo l’epoca delle scoperte e della fondazione dei grandi imperi coloniali, trapassa dall’umanesimo filologico-classicistico all’umanesimo etnografico. Inoltre l’opera consente di riconsiderare in una più matura prospettiva la tematica del Mondo magico (il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile), di Morte e pianto rituale nel mondo antico (la crisi del cordoglio nel mondo antico e nella civiltà cristiana), le ricerche etnografiche nell’Italia meridionale […] ma anche spunti e motivi di Naturalismo e storicismo nell’etnologia» (pp. 5-6).
L’analisi è sempre tesa a scandagliare mondi “altri”, da quello della psicopatologia, al cristianesimo delle origini, alle culture extra-europee, nell’intento preciso di indagare sulla più ampia questione dell’esserci nel mondo. Come sostenuto all’interno dell’introduzione dalla Gallini, da buon filosofo della morale il problema di de Martino: «non è più quello del “perché” l’uomo stia al mondo: al contrario, egli si chiede “come” l’uomo ci possa e ci debba stare. La sua istanza ontologica è di fatto vivificata e resa plausibile da un’altra più reale e attuale: quella etica, alla ricerca di nuove motivazioni storiche e laiche, dell’essere uomo nella storia» (p. XCII). L’attenzione rivolta a quel “come”, alle modalità attraverso cui la presenza stabilisce e ripristina di continuo il suo essere nel mondo, porterà de Martino a postulare quel principio trascendentale che fonda l’esistente, a priori inderivabile che consente all’umano di essere sempre e pienamente se stesso, movimento alla base di tutti i trascendimenti: «L’ethos del trascendimento è il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita. La vita come tale è incapace di prender distanza da se stessa oltrepassandosi nella cultura: l’energia oltrepassante che fonda l’umanità è quindi un élan moral primordiale, senza del quale la stessa base vitale, i singoli in quanto corpi, non potrebbero esistere indenni come singoli corpi umani» (p. 15). L’uomo in quanto tale, in ogni epoca storica è già sempre oltrepassante la natura, e il mondo che egli costruisce, per quanto precariamente posseduto, è già un mondo culturale: «L’uomo è sempre distaccantesi dalla natura, e non può mai saltare questo suo distaccarsi storico-culturale per raggiungere definitivamente la natura in sé» (pp. 645-646).
Ora tale tensione oltrepassante implica in sé anche il rischio di non esserci, che rappresenta per de Martino una possibilità antropologica permanente, che travaglia tutte le culture umane (p. 669). Nonostante ciò la fede che l’autore nutre rispetto alle possibilità dell’esserci, capace di restaurare orizzonti in crisi, risulta fuori discussione: «Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo […] il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta» (p. 629).
Se negli scritti precedenti l’ethos del trascendimento rappresenta l’energia valorizzante che emerge sempre e solo in momenti critici dell’esistenza, all’interno delle note preparatorie a La fine del mondo, l’elaborazione teoretica dell’ethos si fa più complessa: l’energia oltrepassante non è una risorsa a cui si attinge episodicamente per ripristinare una presenza a rischio di perdersi; essa rappresenta invece il movimento trascendentale che fonda l’individuo e che pertanto emerge sempre, giacché costituisce la sua modalità di stare presso il mondo, e si manifesta nella quotidianità, che è a ogni istante oltrepassamaento della vita nel valore, e che ci consente di guardare al mondo come casa, dimora, di sentirci in esso appaesati.
L’ethos postulato da de Martino è “trascendentale”. In realtà tale formulazione risulta abbastanza controversa: per de Martino difatti il trascendentale, più che identificarsi con la condizione gnoseologica di ascendenza kantiana, costituisce un a priori operativo, che consente a ogni istante all’umanità di costruire la propria impresa, di plasmare e disfare il mondo, per continuare a ricostruirlo nuovamente. Ma se tale ethos viene delineato secondo connotati storici, culturali, allora cessa di essere trascendentale. Tale aporia conferma, seppure in un contesto diverso, la tendenza dell’autore a rimanere in bilico tra un’esigenza di trascendentalismo (di chiara matrice crociana), e uno storicismo integrale.
La tensione etica è qualcosa che oltrepassa le singole individualità, consentendo la creazione di infiniti orizzonti culturali, che permangono al di là dell’esistenza dei singoli, garantendo loro, attraverso l’opera, l’immortalità.
Un filo rosso sembra tenere insieme tutta la riflessione demartiniana: esso si snoda coerente a partire dall’opera del 1948, Il mondo magico fino a La fine del mondo. Il mondo magico e La fine del mondo, l’inizio e la fine, quasi a voler indicare una sorta di percorso ideale, che si snoda attraverso la crisi di un mondo e di un io ancestrali, descritti come realtà condende, tutte ancora da costruire, sino a giungere alla crisi di un mondo già costruito e autocosciente che rischia di sprofondare nel baratro del non senso e del nichilismo.
Se c’è un filo che unisce le due opere, è possibile tuttavia delineare i contorni di una speculazione che va mutando nel corso del tempo e che prova ad attualizzarsi e a riflettere sul proprio presente. Anzitutto tra Il mondo magico e La fine del mondo corre un arco di tempo di quasi un ventennio. Nella prima opera si descrive una realtà primigenia nella quale la presenza ancora tutta da costituire, si comporta come una eco del mondo. In tale dimensione storica la crisi si manifesta come “perdita nel mondo”: l’esserci, non ancora costituito come presenza unitaria, non percepisce il mondo come insieme di utilizzabili in virtù di un progetto, ma è al contrario assalito da un’ipersignificatività, nella quale tutto è simbolo, premonizione, tutto rimanda a qualcos’altro. Nell’ultima opera sono analizzati invece i caratteri di un mondo e di una presenza maturi, sentiti come dati, definiti e delineati. In tale dimensione di autocoscienza, la crisi si manifesta al contrario come “perdita del mondo”: esso perde di significatività, e quand’anche sia gravido di un eccesso semantico, rinvia a una significatività caotica e ostile, sfociante allo stesso modo nel nichilismo e nell’incapacità di azione costruttiva. La disincantata autocoscienza occidentale, dopo aver perso Dio, i simboli e i valori a esso connessi, sembra non riesca a trovare in se stessa quell’energia valorizzante capace di superare la crisi, e continua a trascinarsi, crogiolandosi nell’esperienza del non-senso.
Il mondo magico è stato scritto tra il 1944 e il 1945, in un’Italia devastata dalla guerra. De Martino fu protagonista attivo di quelle vicende, e proprio a questo periodo risale la sua militanza sul fronte del Senio: l’esperienza della guerra lo pose dinnanzi a un mondo in rovina, un mondo che sembrava aver dimenticato il patrimonio di esperienze e di valori di cui è intrisa la sua storia.
Le note preparatorie a La fine del mondo sono state redatte invece per la maggior parte nella prima metà degli anni ‘60, anche se alcuni di questi appunti sono precedenti. Siamo in pieno boom economico, nell’età della tecnica totalmente dispiegata, in cui la crisi della presenza si manifesta anche come alienazione dai prodotti del lavoro; siamo inoltre in un mondo diviso nei due blocchi politico-ideologici Usa-Urss, nel quale la guerra nucleare rappresenta una minaccia gravante sull’umanità intera. De Martino registra in questi appunti la crisi della civiltà borghese e dei valori che l’hanno lungamente sorretta, una crisi che l’antropologo definisce senza éschaton: «La “crisi” nelle arti figurative, nella musica, nella poesia, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava […] diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso» (p. 471).
Sebbene l’attenzione all’apocalisse moderna sia l’esito di un excursus che si snoda attraverso lo studio delle apocalissi psicopatologiche, passando per il dramma dell’apocalisse cristiana, fino a giungere ai movimenti di decolonizzazione dei paesi in via di sviluppo e all’apocalisse marxiana, per de Martino la crisi che si sviluppa nel suo tempo manifesta caratteri inediti, che vengono analizzati attraverso l’analisi della cosiddetta letteratura della crisi, di matrice più o meno esistenzialistica. L’antropologo sottolinea il «diabolico gusto di descrivere con meticolosa accuratezza il disfarsi del configurato, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile» (p. 468). In quest’opera cresce il numero degli interlocutori di de Martino: «Dal momento in cui è riconosciuto, l’assurdo è una passione, la più lacerante di tutte. Da Jaspers a Heidegger, da Kierkegaard a Chestov, dai fenomenologi a Scheler, sul piano logico e su quello morale, tutta una famiglia di spiriti […] si sono ostinati a sbarrare la via reale della ragione e a ritrovare il giusto cammino della verità» (p. 543). Esemplare a tal proposito risulta l’analisi de La nausea di Sartre, opera nella quale è descritto, in ogni sua manifestazione, quel sentimento dell’assurdo, dello spaesamento, che per de Martino incombe sull’intera civiltà occidentale. Il protagonista, Antoine Roquentin avverte che qualcosa è mutato nel suo mondo quotidiano; ciò che era abitudinario e domestico assume un senso di estraneità, di distanza. Questo “spaesamento” risulta evidente nella mutata percezione degli oggetti: spesso essi sembrano svuotati di realtà, inconsistenti, il mondo appare come un fasullo scenario di cartapesta smontabile da un momento all’altro. A questo “difetto semantico” degli oggetti, si contrappone il vissuto di “eccesso semantico”, in cui le cose diventano onniallusive, cariche di un’intenzionalità ostile, il mondo appare gravido di una miriade di significati caotici, indecifrabili e distruttivi. Per de Martino entrambi i vissuti rifletterebbero la crisi dell’energia del trascendimento, nella quale gli oggetti perdono la loro progettabilità operativa.
L’epilogo de La fine del mondo mostra chiaramente gli esiti della visione demartiniana «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante» (pp. 669-70).
Fabiana Gambardella
S&F_n. 8_2012