Scrittore sarà chi non avrà scritto, chi sarà rimasto fermo e muto, con la bocca semichiusa, di fronte a un muro spietatamente bianco. Questo il messaggio, questa la piccola apocalisse portata dal personaggio Antonio Delfini, “Barone delle Rive del Rodano”, aristocratico in decadenza e scrittore (o meglio: non scrittore) modenese, nato nel 1907 e morto nel 1963, pochi mesi prima che gli fosse consegnato il Premio Viareggio. Non a caso Giorgio Agamben, nell’introduzione alle Poesie della fine del mondo, consiglia di paragonare Delfini non tanto ai poeti novecenteschi, ma a quelli che, come Dante, Petrarca e i provenzali, credevano che vita e parola fossero un cosa sola, e che le ragazze incrociate per le strade del rione fossero né più né meno come gli angeli delle Scritture. In altre parole, Delfini, per ingenuità o per ingegno, è decisamente un trovatore gettato nel mezzo del Novecento. E l’esperienza delfiniana, proprio perché ambientata in provincia (quella emiliano-romagnola), dice tanto del destino di una lingua che nella provincia è nata, che nel dialetto si è battezzata come universale. Nelle Poesie della fine del mondo, scritte non per lodare ma per diffamare la donna che le ispira, Antonio Delfini è precisamente Antonio Delfini. Del resto, c’è una linea lirica visibilissima che rimbalza nel secondo novecento italiano, in cui il poeta smette di essere uno che fa uso di parole e rimane sulla pagina niente altro che l’individuo che è. Nel Novissimum Testamentum, Edoardo Sanguineti altri non è che Edoardo Sanguineti. Discorso uguale per il Montale di Satura, per Giorgio Caproni ne Il seme del piangere o per Giovanni Giudici in Salutz. Ovviamente, il vizio è lo stesso di François Villon, ladro o poeta (esplicitamente parafrasato e trafugato nel testo sanguinetiano), o della Vita Nuova di Dante, che attesta il fugace e messianico passeggiare di Beatrice nei vicoli fiorentini. Vissuto e parola sono una sola cosa: ed è questo il tratto lirico comune, intagliato nelle origini della lingua italiana. L’indifferenza tra alfabeto e accadimenti privati non è propriamente allegoria, né è propriamente lettera: piuttosto, la scrittura è indiscernibilità tra “visio Dei” ed esperienza contingente; zona dell’unificabilità tra lingua e vita come necessità narrativa; stanza comune di Logos e Cosmos, che assieme concepiscono il verso poetico. Deposta la moltiplicazione delle funzioni autoriali, occupata la pagina come si occupa il registro dell’anagrafe, nella lirica delfiniana avviene il recupero di una formula poetica pulita, chiara, genuina, anche se i suoi messaggi sono l’invettiva e la fine del mondo. Ma perché, secondo Delfini, il mondo sta finendo o deve finire? Come tutte le cose che significano, la risposta è stupida e seria allo stesso tempo, e consiste in quell’analogia tra universo e particella che rende possibile qualunque letteratura. Parafrasandolo, Delfini non fa che dire: la mia esperienza fallimentare è sì il mio fallimento, ma è anche il fallimento del destino della lingua. Il simbolo triste di questa rovina ha un nome e un cognome precisi: Luisa Bormioli di Parma, la donna che (come sta scritto nelle Lettere d’amore) sedusse, truffò e abbandonò Delfini. A lei, all’“Antilaura” e alla sua grazia disgraziata è dedicato lʼ “Anticanzoniere” del Barone delle rive del Rodano. Si sa, da che mondo è mondo e da che poesia è poesia: per non restare bloccati nelle caldaie infernali, per andare a gustare miele nel paradiso della lingua, serve la figura, la donna salvifica, l’angelo della grazia. Ogni apocalisse nasce da una mancanza di cui si è sazi. Allo stesso modo, l’assenza della donna significante è il centro vuoto attorno al quale si articola quasi tutta la letteratura delfiniana. In quest’assenza si genera la smania d’apocalisse: «Per andare in paradiso col mio cuore \ Vado in cerca di belle signore. \ È la mia voce che muore.\ Perché Tu non ascolti o Signore? \ Vorrei tu mi armassi la mano \ per incendiare il piano padano» (p. 9). Chiaro che, se alla letteratura è rimasto un qualche potere ontologico, non si tratta di analizzare il fatto che Delfini sia stato sfortunato in amore, che non abbia trovato l’angelo d’ispirazione al verso. Si tratta piuttosto di registrare il dato che l’angelo non esiste più. E questo è un fatto più curioso e più grave. Il rapporto tra poetato e vissuto è difficile, pieno di ostacoli, spazi vuoti e giornate insignificanti. Ma il poeta non ha che questo spazio, non cuce che le ore di questo spazio alle parole. Ed ecco che è impossibile, anzi dannoso, non considerare il nuovo stato della poesia come “genere minore”; condizione di fronte alla quale serve attirare leggenti, trovare e non inventare, riscoprire il “mestiere” di narrare di sé versificando come plausibile esercizio né poetico né critico, e cioè poetico e critico. Questo è il gesto di Delfini, il movimento che invano cerca di compiere, restando incompiuto come resta incompiuta una promessa divina, che è divina unicamente in quanto promessa. Non a caso, Dio c’è ma il mondo no è uno dei titoli scartati del suo Anticanzoniere. Qualcosa si è rotto, all’interno della lingua e della poesia: «L’Antilaura dell’Anticanzoniere ha detto che sei \ Francesco Antipetrarca critico scemo de tempi tuoi» (p. 119). La scrittura di Delfini è tutta un rimorso per come le cose potevano andare e non sono andate. È lui stesso a scriverlo nel meraviglioso incipit della Prefazione ai suoi racconti Il ricordo della Basca: «Se avessi avuto altri amici, o non ne avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore prima della caduta del fascismo, e probabilmente dopo lo sarei rimasto. Ma è più probabile che se non avessi avuto gli amici che ho avuto, io non avrei mai scritto un racconto o un quasi racconto. Molto più bello, più intelligente, più ricco e aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla terribile barriera dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione» (Il ricordo della basca, 1992, p. 7). Chiunque provasse a cimentarsi con l’opera delfiniana si troverebbe perennemente spinto in un vicolo cieco, con le spalle costrette in aporie insormontabili, perfette, impeccabili come è impeccabile solo il silenzio. Cos’è l’apocalisse se non un silenzio per la voce, un morire per la nascita? Ecco perché Delfini, narratore che non narra, è dell’apocalisse un “piccolo” ma “affidabile”ambasciatore. Come scrive in Una singolare avventura: «1) Narrare una storia è sempre stata una cosa molto difficile. Io non sono nato per le cose difficili, per quanto abbia sempre creduto di averne la vocazione. Mi sono accorto oggi, avendo già compiuto il 44º anno di età, di non essere assolutamente quello che si dice un uomo volitivo. Non so se questa è la centesima volta che incomincio un libro. Questa potrebbe essere la volta buona, ma nessuno, me compreso, scommetterebbe una lira contro dieci […]. Ma non c’è stata possibilità: sono troppo occupato… con me stesso. Che vergogna! Sì, ma che vergogna fa la gente del mio tempo, che vergogna fa il mio secolo! Non sono io che devo vergognarmi: sono gli altri. Tutti gli altri devono vergognarsi. Sono perfettamente convinto di essere l’unico presuntuoso che non pecca di presunzione. Tale è la certezza del giustificato schifo che ho per la vita a me circostante. Ma che orrore!» (Una singolare avventura in Autore ignoto presenta, 2008, p. 205). Il messaggio di questo poeta incompiuto va preso alla lettera, come un segno d.o.c. della lingua. La lingua, ogni lingua, va indebolita. Le parole sgualcite vanno licenziate, i pensieri impolverati vanno deposti per fare posto al tutto o al niente che ci attende. Se è vero (ed è vero) che la verità si rivela nel dettaglio, proprio nella minuta esperienza del provincialissimo delfiniano si formula la più fastidiosa e apocalittica domanda da porre al mondo che viene: cosa c’è alla fine della scrittura?
Gennaro Di Biase
S&F_n. 8_2012