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Edoardo Massimilla – La ragione, la morte, la storia: note in margine alla riedizione di un saggio di Aldo Masullo – La storia e la morte – a cura di Giuseppe Cantillo e Chiara De Luzenberger [Editoriale Scientifica, Napoli 2014]


«La ragione, consapevole di essere mortale, lotta contro la morte. Questa lotta, fin che dura, è la storia» (p. 21). Così si apre La storia e la morte, un saggio di Aldo Masullo pubblicato per la prima volta nel 1964 e ripubblicato nel 2014 per i tipi dell’Editoriale Scientifica come ottavo numero della collana “Vedere e pensare” diretta da Giuseppe Cantillo e Chiara de Luzenberger. Il senso del laconico cominciamento, che rimane saldamente impresso nella mente del lettore, è a mio parere connesso al significato (o piuttosto ai significati) che Masullo attribuisce al termine «ragione» nello sviluppo del proprio tema.Questa circostanza emerge con chiarezza allorché Masullo – dopo aver dedicato alcune considerazioni a Spinoza e a Malebranche e alla concordia discors della loro interrogazione sulla morte (cfr. pp. 26-31) – ingaggia un serrato corpo a corpo con la nozione di storicità che sta al centro del pensiero di Benedetto Croce. L’affermazione crociana che Masullo prende di mira è quella celebre di Teoria e storia della storiografia secondo cui «la storia non è mai storia della morte, sibbene storia della vita» (cfr. Napoli 2007, I, p. 77). Nelle pagine introduttive alla seconda edizione di La storia e la morte de Luzenberger sottolinea opportunamente come Masullo evidenzi il debito delle argomentazioni addotte da Croce per supportare la propria tesi nei confronti di quelle dottrine della tradizione teologica e metafisica che fanno del male una semplice privatio boni, «nient’altro che il momento negativo o dialettico dello spirito» (ibid., p. 41), nel linguaggio ormai secolarizzato dell’idealismo crociano per il quale, di conseguenza, l’assolutamente negativo coincide con l’assolutamente irreale. Ancor prima, però, Masullo evidenzia come la tesi di Croce poggi in ultima istanza sulla convinzione del filosofo secondo la quale «l’individuo veramente reale» è solo «lo spirito eternamente individuantesi» di cui la storia è «l’opera», non essendo, essa storia, «l’opera della natura» o di un mitico «Dio estramondano» riconoscibile in tralice perfino dietro la hegeliana “astuzia della Ragione”, ma nemmeno «l’opera impotente, e a ogni istante interrotta, dell’empirico e irreale individuo» (ibid., p. 84), sul cui agire pretende di far leva la «storia prammatica» (ibid., p. 80). Nell’immediata e infallibile coincidenza dell’universale e dell’individuale in cui consiste lo spirito eternamente individuantesi – il quale ha perciò nell’«espressione», e non già nella «comunicazione», la «forma» che gli è propria (p. 42) – si risolve secondo Croce tutta la realtà o, che è lo stesso, tutta la storia.Per Masullo invece la storia «non è l’indifferenziato spirito-realtà», ma «il luogo dei rapporti drammatici (…) tra l’uomo e la realtà», realtà in cui «l’uomo è radicato e che è in lui», ma «che giammai si riduce puramente e semplicemente (…) nelle forme di lui» (p. 54). La storia è dunque «il campo della lotta tra la “ragione”, l’uomo che sì è fatto attiva coscienza della realtà, e la morte, la rovina di questa coscienza» (ibid., corsivo mio. Si noti che il termine ragione è posto da Masullo tra doppi apici, quasi a voler sottolineare che qui esso è adoperato con un significato molto ampio e per certi versi traslato). Mi sembra che in questa prima e basilare accezione la ragione consapevole della sua mortalità che lotta contro la morte ponendo in essere la storia (intesa non solo come res gestae, ma anche come historia rerum gestarum) sia assimilabile a ciò che Max Weber, nei primi anni del Novecento, definiva come la capacità e la volontà intrinsecamente relazionali dell’uomo (o meglio del Kulturmensch) di attribuire senso a una porzione finita dell’infinità priva di senso che lo circonda e lo attraversa (M. Weber, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, 1904, Torino 2001, p. 179).La possibilità di un simile accostamento è corroborata da quanto Masullo afferma poche righe dopo, in un passo molto denso che merita una citazione per esteso. «Da una parte – egli scrive – lo “spirito” [ossia la ragione consapevole della sua mortalità, l’uomo che s’è fatto coscienza attiva del reale] non può e non potrà mai risolvere tutto in sé il reale, per la semplice ragione che lo “spirito” è un “aprirsi-al-reale”, un rapporto con l’esistente in forza di cui l’esistente acquista significato, sicché lo “spirito” fuori di questo rapporto non è nulla e dunque la realtà è sempre più ampia che non lo “spirito”: da questo punto di vista la storia non può morire, perché è impossibile che lo “spirito” viva avendo del tutto soppresso l’esistente e disimpegnato sé dalla lotta, che è la storia, assorbito in un’assoluta pace [viene in mente l’impossibilità di un «definitivo irrigidimento della vita spirituale» di cui parla Weber, impossibilità di una Erstarrung che faccia «desistere l’umanità dal porre nuove questioni alla vita sempre inesauribile» (Weber, p. 182)]. Dall’altra parte, lo “spirito” è continuamente minacciato dalle oscure forze con cui si trova in un ambiguo rapporto e nulla gli garantisce che a tali forze non soccomberà mai; e da questo punto di vista la storia può morire» (p. 55, corsivo mio).Ma in che cosa consistono propriamente le «oscure forze» con cui l’uomo, lo “spirito” finito, la “ragione” mortale intrattiene «un ambiguo rapporto»? Esse sono – dice Masullo rifacendosi esplicitamente alla reinterpretazione del tema crociano della “vitalità” proposta da Enzo Paci in Esistenzialismo e storicismo (1950) (cfr. p. 55, nota 39) – «le oscure forze del Caos», del disordine e della mancanza di senso, le quali offrono «nutrimento e materia» alle «lucide forze del Kosmos» che pure sono «loro nemiche» (pp. 54-55). Per tale motivo la loro lotta, che è la storia, non può mai finire nel trionfo assoluto dello spirito, con la sua assunzione al cielo, perché lo spirito non vive se non sulla terra, entro il problematico rapporto che lo lega alle sue nourritures terrestres. Tale lotta può invece finire con «il sopravvento delle forze oscure dello spiritualmente informe»: in altri termini «la storia può morire perché lo spirito può morire, soverchiato dal disordine» (p. 56). Difatti, mentre lo spirito non vive se non nel legame col suo opposto, tale opposto, in quanto informe, non ha limite né necessità di forma, e dunque non ha alcuna necessità dello spirito.Su tali premesse lo storico può, secondo Masullo, giudicare del bene e del male. Può farlo, proprio nella misura in cui muove dall’autentico «storicismo assoluto» (ibid.) che è altra cosa dallo «storicismo idealistico» (p. 65) di Croce perché assume criticamente la storia e la sua contingenza come il luogo intrascendibile entro cui lo spirito vive, finché vive, nel legame e nella lotta col suo opposto. Lo storico che muove da una simile posizione «giudica un bene ogni gesto di uomo con cui le condizioni favorevoli al vivere della storia, e dello “spirito” in essa, vengano rafforzate, e giudica un male e condanna senza appello ogni gesto d’uomo con cui quelle condizioni vengano indebolite, e avvicinato così il trionfo della morte» (p. 56). Difatti «ogni movimento dell’uomo può (…) essere un contributo alla sopravvivenza, anzi all’allargamento della vita della storia; o viceversa (…) una ferita più o meno grave inferta a quell’umana comunione in cui si costituiscono e vigono i significati, a quel discorso, in cui in definitiva consiste lo “spirito”, ossia la ragione» (pp. 55-56, corsivo mio).Qui mi pare che il termine “ragione” sia adoperato in un’accezione che non coincide del tutto con la prima. A tale proposito è secondo me opportuno richiamare anzitutto alcuni importanti elementi di contestualizzazione del saggio di Masullo efficacemente tratteggiati da Chiara de Luzenberg. «Quando La storia e la morte venne pubblicato, nel 1964 [in una Napoli ancora segnata dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale], il ricordo di quei tredici giorni della “crisi di Cuba” dell’ottobre 1962, che tennero il mondo con il fiato sospeso, consapevole di essere a un passo dalla catastrofe, erano ancora vivi e, esattamente due anni più tardi, il 16 ottobre 1964, il timore di quella catastrofe trovò nuovo alimento quando, nel deserto del Gobi, si innalzò la minacciosa nube a forma di fungo della prima bomba atomica cinese» (pp. 10-11). Non a caso Masullo si sofferma a più riprese sulla circostanza che la tecnologia nucleare ha ormai conferito all’uomo una prerogativa prima attribuibile solo alla “cieca natura” (e solo perciò ancora compatibile con la risoluzione gentiliana ma anche crociana della «storia temporale» nella «storia ideale ed eterna», del «tempo passato» nell’«eternità del pensiero che lo comprende») (pp. 58-60): la prerogativa di infliggere un colpo mortale alla vita della storia, non dunque all’«esistenza individuale» propria o altrui, ma all’«esistenza in se stessa», ove essa sia intesa «come trascendimento verso il valore, come storia, come campo dei possibili significati dell’essere» (p. 76).«Nulla ci copre più, nemmeno l’esistenza», il che significa che «tutto è storicizzato» (p. 75) e che la vita stessa della storia è sospesa alla volontà di singoli individui e di singoli gruppi umani: questa condizione, che è ancora la nostra, era tuttavia quotidianamente e drammaticamente in primo piano negli anni più difficili della “guerra fredda”. Masullo la descrive con filosofica lucidità, ma proprio per questo avverte al contempo il bisogno etico di richiamarsi con vigore a un bene assoluto da salvaguardare a ogni costo, e cioè alla «ragione» intesa come «discorso», come «umana comunione in cui si costituiscono e vigono i significati». Qui la ragione non è più soltanto la pluralità dei nostri (certo intrinsecamente relazionali) conferimenti di senso all’infinità priva di senso che ci circonda e ci attraversa, ma si configura piuttosto come un “agire comunicativo” che costituisce la loro condizione di possibilità, come l’orizzonte universale di tutte le nostre universalizzazioni, e cioè appunto come “umana comunione”, “forza del Kosmos” per eccellenza contro il definitivo prevalere del Caos. «Dove, infatti, la volontà, messa ormai allo scoperto dalla necessità di decidere non sull’essenza (…) dell’esistenza, bensì sull’esistenza stessa (…), può rinvenire il principio della sua decisione se non nella sua “razionalità”, ossia nel suo alimentarsi del discorso umano, nella sua capacità di assumere come possibilità le condizioni di fatto secondo un piano che si va facendo nella trama delle operazioni intersoggettive? Non è forse così che alla fine tutte le operazioni di conferimento di senso (…) risultano integrate nella totalità di un’azione in cui vige come progetto il senso unitario di tutte le innumerevoli operazioni particolari da esso appunto illuminate e rese significative» (pp. 79-80)?Rispetto a un approdo di questo tipo un possibile problema risiede a mio modo di vedere nella circostanza che, fin dai suoi albori, il mondo moderno è caratterizzato dalla compresenza di una pluralità di ordini di discorso non composti né componibili tra loro in un Kosmos comunque inteso: è caratterizzato, in altri termini, da ciò che Max Weber denomina politeismo delle sfere di valore. Non esiste un solo modo di dare senso e forma all’informe e all’insensato che ci circonda e ci attraversa e ciascuno di questi modi è insofferente ad armonizzarsi con gli altri e ancor più a disporsi rispetto agli altri in un ordine gerarchico, giacché ambisce (almeno in linea di principio) a una propria assolutezza. Ciò rende non inevitabile, ma sempre incombente e mai del tutto esorcizzabile l’interruzione del dialogo e dunque il conflitto: non già quello (davvero inevitabile) della forma in generale con l’informe in generale che pure offre alla prima nutrimento e materia, ma quello fra un modo di dare senso e forma all’informe e all’insensato e un altro modo, diverso per principio, di dare senso e forma all’informe e all’insensato. Laddove è evidente che un conflitto di questo tipo, allorché insorge, non può essere semplicemente rubricato come «patologia del volere» o «patologia del discorso» (p. 80), né essere facilmente composto tramite un conciliante rimando alla dimensione relazionale e intersoggettiva generalmente sottesa a ogni dazione di senso.Si pensi d’altronde alla nostra contemporaneità. In essa la minaccia nucleare globale, ben lungi dall’essere venuta meno, è per così dire passata in secondo piano a causa di alcuni mutamenti dei rapporti di forza in campo. Della bomba, che continua a esistere, che continua a poter essere prodotta e adoperata, nessuno parla più o quasi. Nel discorso pubblico la possibilità di alcuni gruppi umani di infliggere un colpo mortale alla vita della storia in genere si presenta soltanto in un modo più indiretto e indeterminato, vale a dire come “irresponsabilità” nei confronti del problema ecologico. Mi sembra tuttavia sintomatico che, in questo mutato orizzonte, siano tragicamente esplosi o siano riesplosi con nuovo vigore una miriade di conflitti “locali” che non di rado si configurano, o quanto meno si autorappresentano, come scontri tra “visioni del mondo” del tutto inconciliabili l’una con l’altra. C’è chi li ha chiamati e continua a chiamarli “scontri tra civiltà”: ma a mio parere questa è soltanto una maniera inadeguata e astorica per “reificarli” illudendosi in tal modo di allontanare da sé la responsabilità e i rischi necessariamente iscritti nel pensare, nell’agire e nel prendere posizione (tanto nel senso della “radicalizzazione” quanto nel senso del “compromesso”).

S&F_n. 13_2015

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