È innanzitutto una questione di logica. Se la cultura del progetto non ha mai fatto a meno di ispirarsi alle forme della natura, la cultura del progetto che prende il nome di “hybrid design” fa un passo in avanti. Più e oltre le forme della natura, occorre ispirarsi alle sue “logiche di concezione”. Tutto nasce negli anni ’80 con la “biomimetica”, naturale evoluzione della più nota “bionica” (almeno nel nome, e non senza il contributo di serie tv di successo). Mentre quest’ultima mira alla creazione di artefatti in grado di riproporre, eventualmente potenziandole, le caratteristiche formali e funzionali dei sistemi naturali, la biomimetica sfrutta la migliore comprensione delle strutture dei fenomeni biologici progressivamente raggiunta dalle scienze delle vita per concepire la natura non semplicemente come modello di ispirazione ma come strumento di innovazione. Nel momento in cui vengono alla luce i principi di sviluppo degli organismi viventi, tra progettisti e non solo, si fa strada l’opportunità e, perché no, la convenienza di introiettare nella costruzione degli artefatti le logiche di concezione dei viventi, piuttosto che le loro strutture. Insomma, dalla bionica alla biomimetica c’è una soglia di discontinuità temporale, la prima ha una visione sincronica della natura mentre la seconda ne ha una diacronica. Non è un caso che la massima dei nuovi designers siano le parole dell’eclettico Burckminister Fuller: «We do not seek to imitate nature, but rather to find the principles she uses». Nel quadro della biomimetica gli artefatti non riproducono le forme dei viventi per afferrarne la funzione, ma ne riproducono i principi che sono alla base della loro evoluzione. Del resto, quale miglior designer se non quello con miliardi di anni di esperienza? Se è vero che tutti i viventi evolvono, se è vero che l’evoluzione procede per prove ed errori (e soluzioni), è molto probabile che la soluzione alle esigenze di qualche progettista sia stata già sviluppata da Gaia qualche milione di anni prima.Gli esempi di brevetti e ricerche biomimetiche sono numerosi, dal velcro (nato per imitazione del modi in cui i germogli si impigliano nel pelo dei cani), a ingegnosi meccanismi di taglio del legno (nati imitando la modalità di deposizione delle uova delle vespe basate sulla perforazione), dagli attuatori per robot (sviluppati in analogia del sistema nervoso dei vermi), all’abbigliamento a isolamento termico (modellato sul manto dei pinguini). E visto il moltiplicarsi degli studi sui nuovi materiali, sia a livello micrometrico sia nanometrico, così come di quelli sui meccanismi di crescita dei sistemi neurali o di replicazione e sviluppo di dei fenomeni genetici, è facile presagio ipotizzare il moltiplicarsi di nuovi brevetti fondati sulle logiche derivate dalla biologia evoluzionistica. Così com’è facile immaginare che l’approccio biomimetico non sarebbe potuto rimanere confinato all’ambito originario dell’ingegneria dei materiali. E infatti nel corso dell’ultimo decennio esso ha contaminato l’architettura, il disegno industriale, il design, la comunicazione e l’arte. Ebbene, da questi nuovi scenari, emerge l’hybryd design. «Il design – spiega Carla Langella – trae sempre più frequentemente ispirazione dai progressi compiuti dalla scienza, dai suoi salti, dalle sue accelerazioni, dai suoi orientamenti, dai suoi linguaggi e dalle sue scoperte. Codice genetico, evoluzione, fuzzy logic, ecologia, scienza dei sistemi, sono soltanto alcuni dei concetti provenienti da discipline scientifiche che hanno suggestionato e condizionato la cultura e la pratica del design sollecitando la nascita di nuovi processi innovativi» (p. 36). Flessibilità, multifunzionalità, auto-adattamento, coerenza ologrammatica, codici evolutivi di progetto, “energia comportamentale”, specie e famiglie piuttosto che meri prodotti, sono solo alcuni dei nuovi riferimenti concettuali e operativi della cultura del progetto bio-ispirato. Nel momento in cui il bios assume significati sempre più dinamici, ne consegue che anche il progetto a esso ispirato non possa più ridursi a interpretare il rapporto tra natura e progetto secondo i dettami della bionica classica, ovvero in una statica ottica deterministica, manco si avesse a che fare con realtà fisiche. «Se la bionica si proponeva di trarre forme, strutture e funzioni dalla natura per creare delle copie il più possibile esatte, l’hybrid design cerca di approdare a soluzioni progettuali formalmente anche molto differenti rispetto ai sistemi biologici ai quali si ispira, ma simili nei principi generativi» (p. 48). Siamo di fronte a una disciplina che non solo teorizza ma afferma nei fatti il superamento della classica ontologia bivalente, secondo cui esisterebbero enti di natura e artefatti. Il nuovo design bio-ispirato ha a che fare con “sistemi materici” più che con semplici materiali, con oggetti (ma fino a quando potremmo parlare solo di “oggetti”?) in grado di coniugare esigenze ambientali di de-materializzazione e mono-matericità con le proprietà biologiche di multi-funzionalità, autonomia, adattamento e auto-organizzazione.Con leggerezza e puntuale profondità, il volume dedica a ognuno di questi concetti uno specifico focus, corredando lì dove necessario la descrizione dei passaggi teorici più significativi con citazioni dai classici. Va da sé che in un contesto che della contaminazione fa la sua ragion d’essere, i classici siano quelli dell’architettura, della biologia, della filosofia, dell’ingegneria, della sociologia, della biologia molecolare e della genetica. Inutile aggiungere che all’ottima sostanza del volume corrisponde un’altrettanto ottima forma: grafica, foto e persino qualità della carta sono eccellenti. Chi ancora ama sfogliare un libro sa bene che non si tratta di dettagli.
Cristian Fuschetto
S&F_n. 6_2011