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L’etica creatrice. Dal dissenso della scienza al pluralismo antropo_etico

Autore


Ignazio Iacone

LUM

docente di Bioetica ed Etica delle Imprese presso la LUM

Indice


  1. Considerazioni introduttive
  2. Tecnologizzazione delle esperienze, etica generale ed etiche applicate
  3. Il dissenso della scienza e la pro-vocazione etica
  4. L’etica come sub-stantia delle etiche applicate

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S&F_n. 29_2023

Abstract


Creative Ethics. From the Dissent of Science to Anthropo_Ethical Pluralism

The techno-scientific accelerations have forced moral philosophy out of a certain self-referentiality and to face concrete problems concerning the life of men. Some factual questions of a bioethical nature (think of the redefinition of life or death) have required as many concrete solutions as possible. These solutions, of course, had to be guided and guided by general principles. And the general principles, in turn, had to be applied in various situations. On the one hand, the general ethics with its principles and on the other, the applied ethics called to face the dilemmas emerging from the technological advance. Beyond the methodological criticalities deriving from the application of the general principles in specific situations and fields, the "general" ethics remains the sub-stale (the substance) of the applied variants, avoiding that the latter is increasingly directed at endorsing the prevailing model of liberalism, which in practice moves along the line of authorisation of all that is chosen autonomously and consciously, with the only limitation dictated by the possibility of insult and fraud.

  1. Considerazioni introduttive

La nascita delle “etiche applicate”, o “etiche speciali”, «costituisce una delle novità nel campo della riflessione filosofica degli ultimi decenni»[1]. Con l’avanzare delle nuove tecnologie, la filosofia ha iniziato a occuparsi di questioni concrete relative alla vita, alla morte, alle emergenze ecologiche, ai mutamenti in atto nelle relazioni economiche e sociali e alle loro conseguenze. Se ne occupa, appunto, mediante una particolare riflessione sull’agire umano: l’etica. Il pluralismo disciplinare e la centralità della scienza, infatti, sollevano alcune importanti questioni riguardo proprio l’applicazione di alcuni principi etici ad ambiti diversi. Nasce così l’etica applicata che, in questa direzione, è integrata in modo crescente nei percorsi formativi di diverse professioni, oltrepassando gli stessi confini della filosofia morale accademica e assumendo sempre più un ruolo pubblico. Essa ha una lunga storia che risale almeno al lavoro di Beuchamp e Childress[2] sulla bioetica negli anni ’70 del secolo scorso. Inizialmente era considerata come un insieme di principi etici generali che potevano essere applicati a diversi contesti. Tuttavia, negli ultimi decenni, si è sviluppata una maggiore sensibilità rispetto al fatto che i contesti specifici richiedono un’attenta considerazione delle peculiarità etiche che essi presentano. Ciò ha portato all’emergere di “etiche applicate”, come la bioetica, l’ingegneria etica, l’etica ambientale, l’etica della comunicazione, la neuroetica e così via. Sebbene sia fondamentale riconoscere la specificità dei diversi contesti, è altrettanto importante mantenere un nucleo comune di principi etici generali che possano guidare l’applicazione di etiche specifiche e, per questo, è necessario chiedersi se sia corretto parlare di “etica applicata” o di “etiche applicate”. Il pluralismo disciplinare, infatti, potrebbe portare a una frammentazione dell’etica, rendendo difficile una visione d’insieme e una discussione critica dei principi etici coinvolti. Il presente contributo concentra l’attenzione sul carattere metodologico della problematica che in questa riflessione è considerato il problema fondamentale: il problema terminologico, che riguarda la discussione relativa al nome tramite cui è opportuno riferirsi a ciò che finora è stato chiamato “etica applicata” e il problema che riguarda l’unità o la pluralità delle etiche applicate e le relazioni che le diverse discipline intrattengono sia tra loro che rispetto alla filosofia morale e ai saperi scientifici e professionali nei quali si inscrivono[3]. In altri termini è necessario sciogliere il nodo della questione che riguarda la distinzione tra etiche e “etica forte”.

Nelle società tecnologicamente avanzate, caratterizzate dalla mancanza di unità ideali, potrebbe risultare paradossale parlare di “etica forte”; è preferibile usare il termine etiche. In realtà si deve e si può parlare di “etica forte” più che mai.

Prima di delinearne il significato estensivo è necessario stabilire la genesi della parola etica. Essa affonda le sue radici in due parole apparentemente equivalenti nelle loro origini, ma sostanzialmente diverse nel loro significato: mentre il mos (morale) dei latini si riferisce all’abitualità sociale, collettiva, ai costumi di un popolo, l’ethos (etica) dei greci, soprattutto filtrata dalla riflessione aristotelica, indica l’abitualità del comportamento individuale, derivato non dalla pressione sociale, ma dalle sue azioni liberamente scelte. La postmodernità, o per meglio precisare la neomodernità[4], caratterizzata dalla fragilità dei costumi (fragilità della morale collettiva), dalla crisi della ragione intesa come capacità sistematica, dalla dissoluzione delle teorie metafisiche e politiche onnicomprensive, dal predominio dell’interpretazione sui fatti e dall’emancipazione della dittatura del reale, inteso come dato di esperienza immodificabile, ha creato spazi un tempo impensabili per l’ethos, inteso come iniziativa individuale. Di conseguenza, mentre le abitualità sociali hanno perso autorità, diventando modi di comodo, sono cresciuti sempre più gli spazi in cui la coscienza del singolo affronta problemi che vanno al di là dell’orizzonte del mos (morale collettiva). L’inquietudine, che scaturisce dal ritrovarsi del singolo, solo di fronte alla propria coscienza, è diventato il nuovo alimento della trasformazione umana.

 

  1. Tecnologizzazione delle esperienze, etica generale ed etiche applicate

La società contemporanea è contraddistinta da un’insolita accelerazione del mutamento sociale: esso porta a molteplici “rifiuti” che vengono assunti e discussi come problemi all’interno del dibattito pubblico. All’interno del quadro delle condizioni delle strutture democratiche, è difficile trovare soluzioni dall’alto per questi problemi; i discorsi pubblici non si basano solamente su potere e autorità, ma anche su argomenti. In modo più generale, le società moderne sono società che riflettono e che sono oggetto di riflessione; in esse tutto diventa oggetto di comunicazione e considerazione. In effetti, l’etica applicata può essere concepita, in primo luogo, come una parte di questo processo di riflessione e comunicazione. Essa è il tentativo di reagire con mezzi filosofici al crescente peso dei problemi. D’altro canto, l’etica (come la filosofia in generale) ha risposto da sempre ai problemi sociali, anche se talvolta il suo modo di riferirsi ai problemi è per lo più mediato e la sua reazione astratta[5].

L’etica applicata si distingue, perciò, da quella tradizionale per il modo diretto con cui affronta il problema e per la sua reazione contenutistica. Visto da questa prospettiva, il successo stupefacente dell’etica applicata perde il carattere di una semplice moda passeggera e si inserisce in una vera e propria tendenza di tipo sociale e storico-teoretico che è oggi in atto. Diviene, così, comprensibile per quale motivo l’etica applicata si frantumi in una molteplicità di sotto-discipline (bioetica, etica dell’economia, etica dell’ambiente, etica del computer, fino all’etica del museo, ecc.), secondo una dinamica spesso sottovalutata.

Se l’etica applicata deve essere vista come parte del processo di auto-riflessione della società moderna, e se questa società si divide in numerosi sottosistemi e istituzioni, allora tale differenziazione deve ripercuotersi in un’analoga differenziazione etica.

L’avanzata tecnologica, infatti, soprattutto in relazione ai molteplici impieghi dell’Intelligenza Artificiale, ha costretto la riflessione etica ad attardarsi su ambiti finora sconosciuti. Ecco la nascita di tante etiche quanti sono gli ambiti in cui si compie direttamente o indirettamente la trasformazione antropologica. L’etica della comunicazione, l’etica dell’economia, l’etica ambientale, l’etica della vita pubblica e la bioetica sono macro-ambiti in cui l’etica viene applicata allo scopo di approfondire e regolamentare questioni dovute all’impatto delle nuove tecnologie sulla vita degli esseri umani. All’interno di queste macro-aree ci sono settori più specifici di ricerca riguardanti ad esempio le cure mediche, il potenziamento umano, l’uso delle tecnologie comunicative, Big Data, l’economia globale, il mondo delle imprese, i temi della disabilità e delle differenze di genere.

Lo scenario “naturale” che si staglia sullo sfondo della postmodernità è un mondo tecnoliquido[6]. Relazioni tecno-mediate, apprendimento virtuale e digitalizzazioni delle informazioni sono solo alcune delle tecnologizzazioni delle esperienze quotidiane. La rivoluzione digitale ha trasformato il nostro sistema di relazioni e il modo in cui l’essere umano intrattiene rapporti con il mondo e con i suoi simili. Tutto l’agire comunicativo, potenziato e trasformato dalle nuove tecnologie, è qualcosa che non è più possibile controllare nelle sue variegate conseguenze. È inesorabile, dunque, una trasformazione di ciò che comunemente chiamiamo etica. Essa, infatti, non è più ciò che riguarda il comportamento degli uomini nelle decisioni che assumono di volta in volta individualmente e collettivamente; è divenuta, piuttosto, approfondimento delle forme e dei principi che dovrebbero soggiacere tra l’agire umano e l’agire dei vari dispositivi tecnologici. È necessario, perciò, nell’ambito dell’agire comunicativo, operare una trattazione di tutte le novità che costantemente vengono proposte dalle tecnologie emergenti.

Un altro tratto specifico dell’etica applicata consiste nella pretesa di riflettere su tali problemi, non semplicemente in termini teoretici, ma di concorrere alla loro soluzione pragmaticamente.

Quando Martin Heidegger tematizza una serie di ricerche a proposito della medicina e della biologia riproduttiva, la sua prospettiva si distingue decisamente dalle riflessioni che vengono introdotte, in nome dell’etica applicata, a proposito della fertilizzazione in vitro o di altre tecniche oggi disponibili. Per Heidegger la produzione artificiale di esseri umani[7] è un segno per il «vuoto dell’abbandono dell’essere, entro il quale la consumazione dell’essente per le produzioni della tecnica, a cui anche la cultura appartiene, rappresenta l’unica via di uscita per mezzo della quale l’uomo, così tenacemente attaccato a sé stesso, può ancora salvare la soggettività nella superumanità»[8].

Il progetto di una generazione artificiale dell’uomo, secondo questo autore, rappresenta il tema della riflessione, ma non il problema alla cui soluzione intendono, in qualche modo, contribuire le sue riflessioni. Proprio questa pretesa, invece, è avanzata dall’etica applicata in modo programmatico, andando oltre i confini stessi della filosofia.

Per ragioni facilmente comprensibili, in questo caso le possibilità di contribuire alla soluzione di problemi sociali – del tipo che abbiamo tratteggiato – sono più ampie, il che è facilmente comprensibile se si confronta il tradizionale ambito di lavoro di coloro che si occupano di etica applicata (in seminari universitari, riviste o congressi), con quanto avviene quando essi si impegnano in comitati etici o commissioni di consulenza politica.

La tendenza a un impegno “trans-accademico” non corrisponde solo a un interesse degli eticisti applicati; il rafforzato inserimento istituzionale dell’etica applicata nasce dal fatto che tale impegno è socialmente gradito e accettato dai corrispondenti sottosistemi della società. Se è corretta la diagnosi secondo cui le società moderne si caratterizzano per una più intensa auto-osservazione e auto-riflessione, e che individua il modo in cui l’etica applicata debba essere concepita come parte di tale processo di auto-osservazione e riflessione, allora non può stupire che il processo, che mira a guadagnare un orientamento normativo, non sia più lasciato alla iniziativa privata di pensatori appassionati, ma assuma istituzionalmente una forma duratura.

L’istituzionalizzazione dell’etica applicata nell’ambito delle biotecnologie e della medicina è l’ambito più percorso.

Molti paesi europei hanno recentemente istituito commissioni etiche analoghe a quelle già esistenti, da tempo, negli Stati Uniti all’interno di ospedali, laboratori e altre istituzioni legate al tema della salute. Tali attività istituzionali, certamente, non rappresentano l’intero spettro dell’etica applicata. Essa, tuttavia, è ancora per alcuni aspetti una sotto-disciplina della filosofia intesa quale materia accademica, che ha le sue tradizionali attività nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento; come tale, non deve essere separata in modo radicale dalla ricerca etica fondamentale o, più generalmente, dalla riflessione filosofica.

Su questo tema è concentrata l’attenzione di Bayertz:

Il ruolo istituzionale dell’etica applicata rimanda a un mutamento di funzione della riflessione etica nelle società moderne, che vorrei descrivere – in modo deciso – come un processo di «politicizzazione». L’etica applicata non riflette semplicemente i problemi della società moderna, confrontandosi con essi sul piano teoretico, ma si concepisce come momento del processo sociale di soluzione dei problemi. In ragione di questa pretesa immediatamente pratica essa abbandona la sua posizione distaccata dalla realtà sociale: essa si allontana dagli istituti filosofici e si lascia inglobare nei procedimenti pratici-istituzionali che strutturano il lavoro sui problemi della società[9].

 

Questo tipo di progressione ha però, di fatto, originato nuove problematiche che rischiano, in nome del pluralismo etico, di minare alla base la stessa etica filosofica. Se si prende in considerazione, ad esempio, la manipolazione della vita, ci si rende conto che essa si è attuata all’interno dei costumi occidentali prima ancora che le etiche applicate (bioetica) svolgessero le loro analisi filosofiche.

La neomodernità è caratterizzata da alcuni fenomeni storici che, praticamente, condizionano l’etica applicata intesa come etica filosofica. L’incremento delle biotecnologie e le nuove imprese scientifiche sono improntati ad una secolarizzazione che esclude dal discorso pubblico il fenomeno religioso e i suoi valori normativi e qualunque riferimento metafisico, rivendicando una neutralità dello Stato rispetto agli stili di vita ritenuti privati.

«La secolarizzazione si presenta come una cornice liberale che postula l’impossibilità di stabilire criteri per una vita buona che valgano per tutti, creando, invece, condizioni formali affinché ognuno possa scegliersi lo stile di vita che meglio crede»[10].

A tal proposito il filosofo tedesco Jürgen Habermas, facendo riferimento alla teoria politica di John Rawls, considerata il risultato di una progressione storica che ha visto frantumarsi tutte le certezze metafisiche, afferma: «La società giusta lascia libere tutte le persone di decidere che uso fare del tempo della loro vita. A ciascuna essa garantisce pari libertà di sviluppare un’autocomprensione etica al fine di realizzare una concezione personale di vita buona in base alle proprie possibilità e preferenze»[11].

In un tale orizzonte l’etica sembra passare dall’idea che si debba “ragionare come se Dio non esistesse”, alla persuasione che si debba valutare se possa ancora esistere un’etica filosofica. E in questo consiste il senso della trasformazione del pluralismo etico in una vera e propria incommensurabilità delle etiche. La globalizzazione tecno-scientifica, inoltre, ha decretato una sorta di liberalismo di chiara matrice capitalistica che ha depotenziato l’influenza delle etiche applicate sempre più indirizzate ad avallare il modello prevalente del liberalismo, che in pratica si muove lungo la linea dell’autorizzazione di tutto ciò che è scelto in modo autonomo e consapevole, con l’unica limitazione dettata dalla possibilità dell’insulto e della frode. In questa cornice va, altresì, letto il cosiddetto fenomeno del “potenziamento umano”, correlato al miglioramento delle prestazioni fisiche e intellettuali, che trova nei teorici del transumanesimo e del postumanesimo gli interpreti più convinti[12].

 

  1. Il dissenso della scienza e la pro-vocazione etica

L’intera esistenza è considerata dal transumanesimo e dal postumanesimo come un’incessante e libera produzione di bisogni e di desideri che liberano in maniera disorganica l’intenzionalità corporea finalizzata alla seduzione e allo sfruttamento dell’altro. In tale forma si celebrano l’esteriorizzazione della corporeità, i liberi impulsi e la forza del desiderio; l’esaudimento dei bisogni, al contrario, diventa la regola suprema dell’azione. Liberare i propri impulsi, scrollarsi di dosso le arrugginite impalcature delle leggi e delle norme sociali tradizionali, significa andare oltre ogni ideale, arrivare alla gioia totale della superficialità corporea. Questa condizione trova conferma nello sperimentalismo etico dove tutto viene lasciato al caso, alla fantasia, agli umori singoli. In questo modo, l’uomo, sradicato da qualsiasi consistenza relazionale, senza passato e senza futuro, privo di memoria e di attesa, si risolve in un consumo perennemente sperimentale del presente, in un continuo transito e nomadismo identitario[13], in cui «il nulla etico non è che un ulteriore prolungamento del nulla conoscitivo: è la piena consapevolezza che la decostruzione di ogni apriori trascina con sé ogni senso e ogni significazione; dunque, anche il mondo delle norme e dei valori»[14]. Sotto questo profilo sembra che l’etica non abbia più nessuna forza normante; è necessario, perciò, distinguere l’etica di matrice liberista, asservita alle leggi del mercato e della tecnologia dall’ethos della coscienza individuale, che rimane l’unico baluardo della razionalità alle derive del relativismo etico.

La scienza, in quanto espressione di una razionalità dialogica e problematizzante, sempre alla ricerca del fondamento ultimo, dovrebbe occupare un posto centrale nella tematizzazione etica; la scienza in-forma l’etica e l’etica pro-voca la scienza. L’affidamento dell’ethos alla coscienza del singolo potrebbe indurre erroneamente a pensare che le etiche siano frutto di questo tentativo relativista. In realtà il relativismo etico non nasce dalla coscienza del singolo ma dalla contrapposizione di blocchi all’interno dei quali tutto può essere il contrario di tutto. L’etica quanto più è affidata alla coscienza individuale, come invenzione di soluzioni a problemi di rapporti umani, tanto meno è relativistica e tanto più universale. Anche nei diversi ambiti, in cui essa viene applicata per regolamentare i riverberi delle nuove tecnologie sulla nostra vita, il fine è quello di dare risposte. E la categoria della temporalità assume un ruolo drammaticamente centrale, poiché il tempo è il senso del vissuto e del cambiamento. È un vissuto drammatico in quanto racchiude delle perdite, producendo allo stesso tempo novità all’interno delle quali l’uomo sperimenta una inesorabile centralità. Si impone, dunque, la necessità di individuare una nuova sintassi etica, capace di ricomporre quelle relazioni che fanno dell’uomo un tutto integrato non riconducibile solamente alla somma dei suoi singoli comportamenti. È necessario adottare uno schema etico-interpretativo che, coniugando la molteplicità delle dimensioni dell’umano, consideri l’uomo nella totalità del suo essere persona secondo l’ordine dell’intero al di là delle differenze spersonalizzanti e nullificanti. Appaiono di estrema chiarezza le affermazioni di Francesco Bellino quando afferma che

L’aporia della bioetica attuale è nel suo dimenarsi tra un’etica dell’ordine naturale e dell’equilibrio e un’etica della conquista e del rischio, tra lo sforzo di restaurare un presunto ordine naturale, continuamente minacciato dalla tecnoscienza, e la hybris di orientare e stimolare l’evoluzione dell’umanità verso nuovi e ignoti orizzonti. […] Il postumano se diventa disumano non ha senso e perde ogni valore etico. […] Senza l’uomo e la sua unicità, senza la sua ontologica relazione col mondo e con le alterità non c’è storia, comunità, né arte, scienze, etica. L’etica è nata con l’uomo, per orientarlo nel mondo e nei suoi rapporti con gli altri uomini e anche con le realtà non umane (natura, animali, macchine, beni culturali). Se scompare l’uomo o viene superato, viene superata e scompare l’etica. La dissoluzione ontologica dell’uomo produce la demoralizzazione, abolisce ogni criterio per distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’umano dal disumano[15].

 

Se nell’avanzamento della tecno-scienza l’etica applicata non si concretizza, soprattutto in ambito sanitario, in una sorta di dogmatismo di una «razionalità assiomatico-deduttiva o nel relativismo di una razionalità tecnico-strategica»[16], in un «pensiero zippato»[17] o in una semplice «pratica sociale»[18] ma in una positiva etica pubblica, che non concerne soggetti collettivi a sé stanti, ma il bene comune, allora non sarà caratterizzata da un’attitudine dilemmatica esclusiva, ma da una forma inclusiva che salvaguarda la razionalità dell’agire senza degenerare nell’intolleranza[19].

Le etiche applicate, in altri termini, dovrebbero diventare strumenti di comprensione attraverso cui filtrare e dotare di senso assiologico la pluralità di elementi che emergono trasformandosi nei principali ambiti in cui si corporizza l’esercizio dell’etica (economia, tecnologia, comunicazione, ambiente, etc.). La contemporaneità è contrassegnata da una moltiplicazione/parcellizzazione dei saperi e da una teologizzazione della metafisica; ma proprio la differenziazione e pluralità del reale stimola una maggiore richiesta di senso. In questa direzione l’etica applicata diviene etica pubblica nel senso che si lega necessariamente a una concezione di metafisica pubblica, descrittivista e oggettivista che, non accettando più un uso privato della ragione, rende possibile un confronto morale tra posizioni differenti senza esclusioni aprioristiche e senza arbitrarietà.

L’etica filosofica, quindi, è costretta a venire allo scoperto, a fare i conti con la realtà, a risolvere problemi concreti, a mettersi alla prova dei fatti anche di fronte, talvolta, a veri e propri dilemmi; deve avere il coraggio di applicare fino in fondo la teoria anche quando questa fosse in contrasto con quanto emerge dalla realtà. Ciò non significa subordinare positivisticamente i principi o le norme universali ai fatti, la riflessione teorica alla verificabilità empirica, quanto piuttosto evidenziare la rilevanza di uno scambio arricchente tra concetto e realtà.

Nella misura in cui la scienza rivendica uno status di neutralità o un predominio sull’uomo e sul reale, costringendo la riflessione etica a un consenso acritico, annulla quel nucleo razionale grazie al quale l’etica generale non solo pone dei limiti a uno scientismo liberista, ma diventa la sostanza stessa delle etiche applicate.

 

  1. L’etica come sub-stantia delle etiche applicate

L’etica è sostanza (sub-stantia, fondamento nel senso della sintesi tra ragione e affezione) delle etiche nella misura in cui epura il tempo dell’uomo dalle perdite e dai cambiamenti e lo rende aperto a nuove possibilità, consegnando l’uomo al suo vero inter-esse: la cura della propria esistenza. L’etica è tale, anzi è “forte”, nel senso che diventa sub-stanzia delle sue varianti, proprio quando libera il tempo dell’uomo. Una riflessione etica è autentica per la sua capacità di riconsegnare l’uomo al senso del suo esistere e del suo operare; per la forza che dispone nel creare nell’uomo l’inter-esse (coinvolgimento, capacità di prendersi cura, di avere un obiettivo). E quale sarebbe l’inter-esse predominante dell’uomo se non quello di prendere a cuore la propria esistenza? La scienza, nella sua repentina evoluzione e nelle sue finalità ha inter-esse per l’uomo? Ha cura della sua esistenza? L’essenza della scienza e della tecnica in particolare, parafrasando Heidegger, risiede nell’imp-posizione[20].

La scienza pone l’uomo sull’orlo di inedite possibilità che, da un lato lo pongono al centro del disvelamento di ambiti sconosciuti, dall’altro lo espongono al pericolo di una erronea interpretazione dell’ambito di-svelato. Sia bene inteso che il pericolo non è la tecnica o la scienza. L’Intelligenza Artificiale, le nuove macchine, i nuovi apparati tecnici non hanno nulla di demoniaco. Il pericolo, semmai, è costituito dal fatto che l’uomo, fagocitato dall’im-posizione scientifica, non esperisca più la verità che connota ed eccede la scienza stessa. Laddove i criteri sono quelli della necessità o, peggio ancora, della causalità, l’uomo non fa più esperienza della libertà. La verità non ha più ragione di esistere e lascia spazio soltanto a una narrazione egemonica. Non c’è più bellezza etica; solo una lotta sordida per sopravvivere.

La scienza, in sé e per sé, non può dare conto della dignità umana, perché la dignità è basata sulla libertà umana. Secondo Harari, l’umanità non ha nulla di sacro, e l’Homo Sapiens non è l’apice della creazione. Gli umani sono «meri strumenti per creare l’internet-di-tutte-le-cose, che potrebbe alla fine espandersi dal pianeta Terra fino a invadere l’intera galassia e perfino tutto l’universo»[21]. Secondo questa visione la scienza e tutte le nuove tecnologie digitali non hanno inter-esse per l’uomo se non per quanto concerne una sua possibile reificazione strumentale. Solo una scienza pro-vocata dell’etica, invece, agisce secondo il criterio della promozione umana. Solo se l’etica racchiuderà criteri e principi condivisi, affinché l’essere umano possa compiere scelte buone, chiarendo alcuni concetti come “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”, “vizio e virtù”, potrà non solo essere la sostanza delle sue varianti applicate, ma promuovere modelli di vita che consentiranno a uomini e donne di giungere alla loro piena realizzazione.


[1] A. Fabris (a cura di), Etiche applicate. Una guida, Carocci Editore, Roma 2018, p. 11.

[2] Cfr. T. Beuchamp, J. Childress, Principles of biomedical etichs, Oxford University Press 2008.

[3] F. Fossa, Che cosa sono le etiche applicate? Tre problemi preliminari, in «Etica e politica», 2, 2018, pp. 433–466.

[4] Cfr. R. Mordacci, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino 2017.

[5] Cfr. K. Bayertz, Self-enlightment of Applied Ethics, in A. Cortina, A. García-Marzà, Public Reason and Applied Ethics, Routledge, London 2008.

[6] Cfr. T. Cantelmi, Tecnoliquidità, la psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida, San Paolo, Milano 2013.

[7] M. Heidegger, Saggi e discorsi (1976), tr. it. Mursia, Milano 2015, p. 62.

[8] Ibid., p. 60.

[9] Ibid., p.103.

[10] A. Pessina, Etica e manipolazione della vita, in A. Fabris (a cura di), op. cit., p. 34.

[11] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), Einaudi, Torino 2002, p. 6.

[12] Cfr. R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009.

[13] D.J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1985), tr. it. Feltrinelli, Milano 1995, p. 158.

[14] C. Scilironi, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, EDB, Bologna 1991, p. 98.

[15] F. Bellino, Pensare la vita, Bioetica e nuove prospettive euristiche, Cacucci editore, Bari 2013, p. 13.

[16] L. Bertolino, Etica e pratiche filosofiche, in A. Fabris (a cura di), op. cit., p. 357.

[17] A. Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, Manifestolibri, Roma 2007, p. 36.

[18] Ibid., p. 10.

[19] P. Dordoni, Oltre un’etica meramente applicata”. Spunti per la costruzione di un’eticapratica”, in «Phronesis. Semestrale di filosofia, consulenza e pratiche filosofiche», VI, 10, pp. 11-49.

[20] M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), tr. it. GoWare, Firenze 2017, p. 51.

[21] Y. Harari, Homo deus. Breve storia del futuro (2015), tr. it. Bompiani, Milano 2019, p. 480.

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