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Di umani e altre scimmie del genere. Darwinismo, paleoantropologia e archeogenetica

Autore


Stefano Palumbo

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottore di Ricerca in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


1. L’animale umano

2. Il modello monofiletico

3. In cima a una scala ascendente

4. Genetica e evoluzione

5. La “Rivoluzione del DNA antico” 6. L’archeogenetica

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S&F_n. 28_2022

Abstract


On Human and other Apes of the kind: Darwinism, Paleoanthropology and Archaeogenetics

The affirmation and diffusion of darwinism in Europe coincides with the birth of paleoanthropology. This paper analyzes the interaction between these elements from a historical perspective, underlining on the one hand the relevance of paleoanthropology within the reception of Darwin’s theories at the time, and on the other hand, the importance of recent discoveries in the field of human evolution, stemming from the so-called “Revolution of ancient DNA”. The fall of all anthropological models, brought forward by the implementation of archaeogenetics, opens a new season in the study of humanity’s deep past: the human “family tree” has been chopped down, and in its place, an unexpected and more complex scenario seems to unravel.

  1. L’animale umano

L’evoluzione umana e la sua comprensione sono sempre state curvate da una particolare forma di pensiero, ancora non del tutto superata, che prende il nome di “antropocentrismo”: essa pretende che l’umano sia il culmine della Natura, il suo prodotto più perfetto e riuscito, superiore per essenza a ogni altra forma vivente[1]. Tale cornice, implicitamente presente in ogni campo delle scienze occidentali, ha decisamente informato la costruzione di un “ordine naturale”, e in particolare il posto da assegnare all’umano al suo interno. Alla fine del XIX secolo, il dibattito sul darwinismo si concentra anche su una mutata concezione dell’animale umano: l’ente più interessante di tutti ha finalmente un passato nell’ordine naturale, ma qual è, ora, il suo posto?

Parlare delle forme viventi non umane e della loro evoluzione risulta, per i contemporanei di Darwin, già alquanto problematico: dire che esse si siano evolute da forme più semplici per selezione naturale, e lungo il corso di milioni di anni è difficile da digerire per chi considera la Natura la Creazione di un dio, e chiama era ante‑diluviana la “preistoria”, o anche per chi è convintamente lamarckiano o legato in vario modo a teorie alternative, come l’ortogenesi o il vitalismo. La lotta violenta per l’esistenza, la feroce competizione per la sopravvivenza, la morte irrilevante del singolo e la riconfigurazione di una specie secondo uno schema di mutazioni casuali, maturate lungo varie generazioni, sembrano inaccettabili, quasi immorali. Dire poi che anche per la specie umana sia avvenuto un processo non analogo ma identico, esattamente come per il resto degli animali “inferiori”, risulta addirittura oltraggioso. Equivale a dire che non solo l’umano non sia mai stato oggetto di creazione speciale da parte del Dio biblico, ma che è appunto da considerarsi sostanzialmente nient’altro che un animale. La mole di dati accumulati dal naturalista britannico, insieme al rigore scientifico dimostrati nella loro analisi, però, non lascia spazio a errore: quella dell’evoluzione per selezione naturale è senz’altro una teoria solida, e dopo iniziali dibattiti viene dunque generalmente accettata negli ambienti accademici. Ma la sua comprensione reale risulta, almeno a cavallo tra il XIX e il XX secolo, enormemente guidata dal pensiero positivista e antropocentrico. In particolare, la diffusione delle teorie di Darwin e la “scoperta” della preistoria, in concomitanza con i primi ritrovamenti di resti umani antichi, sfociano in letture estremamente lineari dei processi evolutivi intercorsi tra le scimmie antropomorfe e i sapiens, portando a una graduale mistificazione e semplificazione dell’evoluzione umana.

 

  1. Il modello monofiletico

In qualche modo, siamo tutti stati esposti a quella diffusissima rappresentazione grafica che esemplifica gli “stadi” dell’evoluzione umana. Da sinistra a destra, quasi fosse un testo scritto, vediamo comparire una serie di individui, posizionati su una precisa traiettoria che si pretenderebbe “evolutiva”: all’estrema sinistra una scimmia antropomorfa, estremamente pelosa, ancora ricurva e semi-bipede, con lunghi arti superiori e le nocche poggiate al suolo per trovare l’equilibrio; all’estrema destra un esemplare di Homo sapiens, glabro, di carnagione chiara, compiutamente eretto, talvolta con tanto di abiti e giavellotto. Nel mezzo, a formare una scala ascendente, troviamo esseri intermedi, via via sempre più alti, eretti e meno pelosi; è come se ogni stadio “si trasformasse” inevitabilmente, attraverso un gradualismo estremamente lineare, nel successivo, al fine di raggiungere la perfezione incarnata dal capofila, il più alto, abile e armonioso dell’intero gruppo: l’umano moderno.

La familiarità che abbiamo con questo modello è quasi intuitiva, e ciò dimostra il suo successo, oggi riscontrabile soprattutto entro una comprensione “di massa” dell’evoluzione umana; in realtà esso viene proposto da Gustav Schwalbe, un anatomista tedesco, nell’anno 1900[2]. Il primo “albero genealogico” umano istituisce dunque una progressione lineare per passaggi graduali, che dalle antropomorfe porta direttamente ai sapiens. Il successo di tale modello si basa sulla convinzione che le scimmie antropomorfe si siano semplicemente “trasformate” in umani procedendo per gradi, dalle forme ancestrali alle più moderne, successive e sempre migliori, seguendo “stadi” intermedi ben distinti, progressivamente più “adattati” e evoluti dei precedenti, fino al massimo grado possibile, rappresentato dall’umanità attuale. La nascita del modello monofiletico (che riconduce tutte le forme umane a un’unica ascendenza, un unico phylum), detto anche modello lineare, risulta direttamente collegata al dibattito sul darwinismo a cavallo dei due secoli; il modello decadrà definitivamente – almeno da un punto di vista strettamente scientifico - solo nella seconda metà del ‘900.

Nel 1856 l’Origine delle Specie non è ancora stata pubblicata[3], quando, nella grotta di Feldhofer, presso la valle prussiana di Neander, vengono alla luce degli strani resti scheletrici. Pochi fossili – un pezzo di cranio, due femori, qualche frammento di omeri, ulne, scapole e costole – ma dall’aspetto complessivo davvero insolito, e dunque di difficile classificazione. I minatori che per primi li dissotterrano per caso, durante dei lavori nella grotta, pensano ai resti di un orso, e i primi naturalisti di professione coinvolti (Johann Carl Fuhrlott e Herman Schaaffhausen), influenzati dai recenti studi sui gorilla dell’autorevole contemporaneo Richard Owen[4], ipotizzano che si tratti di una qualche “strana” scimmia, anche se nell’ambito della fauna locale tale ipotesi sembra non trovare riscontro. Deve essere così; lo scheletro, seppur incompleto, mostra nell’insieme delle caratteristiche apparentemente difformi dall’umano, simili ma quasi “arcaiche”, pur non presentando una configurazione animale nota. È davvero possibile, invece, che quei resti appartengano a una forma “ancestrale” di umano? L’arrivo delle teorie di Darwin, invece di risolvere in qualche modo il problema, finisce per complicarlo ulteriormente. Con Darwin, infatti, è ora possibile riconoscere in quei resti una qualche forma arcaica di umano, ma non è altresì possibile chiudere la questione; altre ipotesi vengono formulate, fino alle più fantasiose – si pensa persino a un soldato appartenente all’armata cosacca che inseguì Napoleone nel 1814, e che avrebbe cercato riparo nella caverna di Feldhofer per poi morirvi[5]. Oppure, in quanto proto‑umano, deve trattarsi di un antenato di Homo sapiens, ma la sua “stranezza” anatomica fa pensare a una qualche patologia, o a un individuo piagato da impossibili deformità fisiche e mentali: Ernst Haeckel lo chiama Homo stupidus[6], e pensa che sia, appunto, un diretto progenitore dei sapiens. Solo nel 1863, in occasione dell’annuale incontro della British Association for the Advanced Sciences, viene coniata la denominazione di Homo Neanderthalensis – per la prima volta nella storia della scienza Occidentale vengono addotte prove fossili per l’inaugurazione di una specie umana distinta dai sapiens, estinta e imparentata, si pensa, solo con gli scimpanzé. Questo evento rappresenta l’atto di fondazione della stessa disciplina paleoantropologica: allo studio del passato evolutivo della specie Homo sapiens si affianca ora, per la prima volta, la ricostruzione dell’evoluzione di un altro gruppo umano, di cui si sa ben poco, e si comincia a guardare anche all’umanità preistorica più in generale.

 

  1. In cima a una scala ascendente

Molto presto sarà rimasto ben poco da scoprire”: con queste parole il Times di Londra presenta l’incontro della British Association del 1863 in cui William King, un geologo semisconosciuto, conia il taxon neandertaliano[7]. All’epoca, il ritmo velocissimo delle scoperte (biologiche, chimiche, geologiche, tecniche) e l’impressione di inarrestabilità connessa al progresso tecno‑scientifico lasciano presupporre che si sarebbe arrivati a una conoscenza totale dell’esistente: l’immenso potere delle scienze sembra promettere di “svelare” tutti i misteri della Natura e delle forme di vita, della Terra e del Cosmo. Darwin ha da poco dato alle stampe l’Origine delle Specie, l’anno prima Speke e Grant hanno rintracciato la fonte del Nilo, e con l’opera di Charles Lyell[8] la storia umana è stata proiettata nel profondo passato[9]. In questa cornice di stampo positivista ogni nuova scoperta è considerata inevitabile, quasi a suggerire che, dato un lasso di tempo abbastanza lungo, si possa conquistare il sapere su ogni ambito della realtà. Anche l’opera di Darwin e la teoria evoluzionista ottengono una ricezione immediata particolarmente curvata dalla fiducia nell’avanzamento umano verso il meglio, e perfettamente compatibile con l’ideale positivista di progresso a infinitum. L’evoluzione è vista come una proprietà intrinseca della Natura, volta al costante perfezionamento: le forme di vita, plasmate dalle forze di selezione naturale, approderanno sempre alla migliore possibile. Questo genere di interpretazione dell’opera del naturalista inglese instaura una visione rigidamente teleologica che si rivelerà estremamente duratura, e troverà ampia diffusione presso tutti gli ambienti accademici europei dell’epoca: si pensi all’influenza delle correnti Romantiche e della Naturphilosophie in Germania, che rende Haeckel estasiato da questa particolare “versione” del darwinismo, mentre Nietzsche ne è disgustato[10].

Intanto, alla fine del XIX secolo viene rinvenuto un altro esemplare di umano arcaico, che Haeckel prontamente denomina “Pitecantropus erectus”, ovvero uomo-scimmia dalla postura eretta (oggi più opportunamente accolto nella famiglia umana e chiamato “Homo” erectus). E, nei primi anni del XX secolo, viene dissotterrato un altro scheletro Neanderthal in Francia, presso La Chapelle-aux-Saints; nel 1908 Marcellin Boule, un paleontologo esperto ma con poche nozioni di antropologia, prende in consegna i preziosi resti e pubblica la prima analisi dettagliata di uno scheletro Neanderthal quasi completo:

Il cranio colpisce in primo luogo per le considerevoli dimensioni, tenendo presente la bassa statura del soggetto al quale era appartenuto (meno di 1 metro e 60). Colpisce inoltre per il suo aspetto bestiale o, per meglio dire, per la combinazione di caratteristiche scimmiesche. […] La colonna vertebrale e le ossa degli arti inferiori presentano molte caratteristiche pitecoidi e denotano un’attitudine bipede o verticale meno perfetta di quella dell’uomo attuale. […] L’utilizzo di un piccolo numero di materie prime, la semplicità dei suoi utensili litici, la possibile assenza di ogni traccia di interessi di ordine estetico o morale si accordano bene con l’aspetto brutale di questo corpo vigoroso e pesante, di questa testa ossuta con la mascella robusta, e si afferma la predominanza delle funzioni puramente vegetative o bestiali sulle funzioni cerebrali[11].

La descrizione anatomica fornita da Boule viene oggi definita dai manuali di paleoantropologia come fantasiosamente oltraggiosa; nonostante ciò, all’epoca costituisce la più autorevole fonte sull’anatomia di questo gruppo umano, fonte sulla quale saranno basati buona parte degli studi successivi sui Neanderthal. Questa descrizione non è scevra, come si può facilmente constatare, da posizioni di tipo valoriale, che poco hanno a che fare con il rigore scientifico, e mostra tutto sommato una certa inquietudine, dal sapore antropocentrico, verso quello che viene riconosciuto come il passato bestiale dell’umano. Cionondimeno, viene accettata dalla maggior parte degli studiosi, consolidando così anche l’immagine del Neanderthal-bruto[12]. Inoltre, la scoperta del “pitecantropo eretto”, dalla configurazione anatomica decisamente più arcaica, sembra rafforzare il fervore teleologico degli studiosi: anche i Neanderthal possono finalmente insediarsi nel loro “giusto posto”. Trovato il “punto di partenza”, un antenato scimmiesco ancor più “bruto” e “primitivo”, un anello mancante tra le scimmie antropomorfe e i sapiens, si può ora essere certi di collocare i Neanderthal, sulla scorta di Darwin, in una comodissima posizione centrale: l’essere intermedio tra una quasi-scimmia e anthropos rappresenta la giusta “congiunzione” evolutiva, in grado cioè di conciliare il passato dell’umanità con il darwinismo. Si comincia, in altre parole, a scorgere un ben delineato pattern ascendente nei ritrovamenti fossili, a notare degli “incrementi” graduali che sembrano puntare abbastanza chiaramente a una precisa “destinazione”: i sapiens. Nonostante occupassero tassonomicamente un’altra “casella”, i Neanderthal rientrano arbitrariamente nella famiglia umana per fungere da provvidi e “cavernicoli” progenitori, consolidando così sia l’accettabilità del darwinismo in sede umana, sia il modello lineare.

 

  1. Genetica e evoluzione

Invece, nonostante l’incrollabile fiducia positivista, moltissimo resta ancora da scoprire: la paleoantropologia entra, nella seconda metà del XX secolo, in una nuova fase: nuovi taxa “arcaici” vengono dissotterrati e catalogati – in gran parte in Eurasia e nel continente africano – e ogni nuovo fossile, oltre a aggiungere un tassello alla ricostruzione, finisce per complicare ulteriormente il quadro. A partire dalla scoperta e descrizione della molecola di DNA nel 1953[13], inoltre, si comprende via via che, più che le singole forme viventi, a evolversi secondo gli schemi darwiniani stricto sensu è il genoma, l’insieme delle informazioni contenute nel DNA. La teoria dell’evoluzione trova dunque pieno riscontro anche a livello genetico; dal ’53 a oggi si è assistito a un rapido sviluppo delle tecniche di estrazione e analisi del DNA, in modo da osservare comparativamente il genoma di più individui, determinando così la possibilità di chiarire meglio i gradi di parentela tra le specie: il nuovo strumento può essere impiegato anche nello studio del cammino evolutivo delle specie, tra cui quelle umane. Una svolta significativa avverrà infatti nel 1987. Cann, Stoneking e Wilson mostrano[14], attraverso l’analisi del DNA mitocondriale (mtDNA), che tutta l’umanità vivente abbia un’unica origine africana recente: la specie Homo sapiens si è generata nell’Africa sub-sahariana circa 200.000 anni fa, o forse addirittura prima. Questo è il primo effettivo “albero genealogico” umano, seppur unicamente matrilineare – effettivo perché provato dalle analisi genetiche, e matrilineare perché il mtDNA, trasmesso di madre in figlia, può ricostruire solo un lato dell’ascendenza. Le riviste dell’epoca salutano il ritrovamento dell’Eva Mitocondriale, la più recente antenata africana comune, forse nel tentativo di riallacciare il nuovo sapere con la tradizione biblica[15]; in sede scientifica la denominazione è ridicola, e il modello scaturito da queste prime analisi genetiche prende semplicemente il nome di Out of Africa. La genetica offre un approccio interessante: il record fossile presenta talvolta dei gap insanabili, e l’analisi “a occhio nudo” dei frammenti ossei fornisce informazioni limitate, mentre la genetica è una metodologia esatta, o sicuramente con minor spazio di errore o interpretazione. La sfida degli anni successivi consisterà nel comprendere cosa accadde a quell’unico “ramo” uscito dall’Africa, corroborare cioè il cosa, fornito elegantemente dall’analisi delle stringhe di codice genetico mitocondriale[16], con il come, chiarendo in che modo da quell’esiguo gruppo di migranti arcaici si sia arrivati – almeno da un punto di vista genetico – alla situazione attuale. Per una ricostruzione di questo tipo il mtDNA non basta; a raccogliere l’eredità di Cann, Stoneking e Wilson sarà uno studente di quest’ultimo, il genetista svedese Svante Pääbo, che, a partire dagli anni ‘90, continuerà e amplierà il lavoro dei suoi predecessori, ottenendo, grazie a notevoli miglioramenti tecnici da lui stesso sviluppati, scoperte senza precedenti e la riconsiderazione totale di ogni paradigma formulato in precedenza.

 

  1. La “Rivoluzione del DNA antico”

Già alla fine degli anni ‘90, mentre il Progetto Genoma umano compie i passi decisivi per la mappatura dell’intera sequenza del genoma attuale[17], Pääbo e il suo team riescono a sequenziare un campione di mtDNA Neanderthal di 40.000 anni, estratto proprio dall’esemplare scoperto nel 1856, pubblicando poi i risultati nel 1997[18]: per la prima volta vengono pubblicati i dati genetici di una specie umana arcaica. I Neanderthal non condividono mtDNA con i sapiens, ma sono i loro parenti più vicini, con una coincidenza genetica superiore rispetto alle antropomorfe. Il significato dell’operazione di Pääbo risulta però epocale: c’è chi afferma che lo studio genetico delle umanità arcaiche «sta alla paleontologia come lo sbarco sulla Luna sta all’esplorazione spaziale»[19]. Svante Pääbo inizia, nel 2006, a lavorare al Neanderthal Genome Project, progetto gemello al Genoma Umano: in pochi anni di intenso studio si arriva a risultati sorprendenti[20], tanto da inaugurare una nuova era nell’ambito della paleoantropologia: la cosiddetta “rivoluzione del DNA antico”.

La comparazione del DNA nucleare neandertaliano con quello degli umani attuali rivela qualcosa di impossibile da dedurre dai fossili, dai resti archeologici, dalla linguistica o dagli strumenti tradizionali del settore: tutti gli umani viventi oggi, fatta eccezione per chi abbia ascendenza africana[21], hanno conservato nel proprio genoma, fino all’epoca attuale, dall’1 al 4% di contributo Neanderthal. Ciò significa che le tra le due specie umane, entro un intervallo di convivenza eurasiatica stimato a almeno 5.000 anni, c’è stato flusso di geni: per conservare il contributo genetico arcaico fino alla contemporaneità devono essere avvenute certamente unioni che devono aver prodotto figli ibridi non sterili. Inoltre, l’archeogenetica passa anche da metodologia a fonte: nel 2008, nella grotta di Denisova, presso i monti Altai in Siberia, viene ritrovato un frammento di falange risalente a circa 40.000 anni fa. Pääbo e il suo team iniziano a lavorare al sequenziamento del mtDNA, utilizzando i metodi perfezionati durante le precedenti ricerche sui Neanderthal, e pubblicano nel 2010[22] i risultati. I dati molecolari del mtDNA mostrano che i resti appartengono a una ragazzina di giovane età (5-7 anni), e soprattutto a un gruppo umano arcaico estinto e finora ignoto, dal momento che risulta differente dagli altri gruppi umani: il campione non è né Neanderthal né sapiens. Si tratta dunque di una famiglia umana arcaica “perduta”, sconosciuta alla paleoantropologia perché di essa non si possiede alcun altro reperto, fossile o litico. I resti rinvenuti sui monti Altai rappresentano le uniche tracce lasciate da questo gruppo umano, che i ricercatori chiamano “Denisova” e definiscono oggi «un genoma in cerca di un’archeologia»[23]. Tra il 2010 e il 2017 viene analizzato anche il DNA nucleare Denisova[24], affinando in tal modo ancor più il profilo genetico di questo gruppo “fantasma” e i suoi rapporti con gli altri gruppi umani: anche i Denisova, come i Neanderthal, si sono incrociati con gli umani moderni. Chi oggi proviene da Melanesia e Nuova Guinea conserva infatti nel proprio genoma fino al 7% di contributo Denisova. Inoltre, nella stessa grotta presso i monti Altai sono stati trovati anche i resti di un’altra ragazzina vissuta oltre 90.000 anni fa, le cui analisi genetiche sono state pubblicate nel 2018[25]. “Denny”, com’è stata affettuosamente soprannominata dagli scienziati, aveva padre Denisova e madre Neanderthal, e rappresenta il primo caso attestato di un individuo umano letteralmente ibrido, dimostrando così l’esistenza di incroci anche tra i due gruppi umani arcaici. La scoperta dei Denisova, e del flusso di geni esistente tra tutti i gruppi umani trovatisi a coesistere nel tardo Pleistocene, scuote fortemente il mondo accademico, puntando finalmente a un nuovo scenario, come lo stesso Pääbo ricorda:

Era una scoperta sbalorditiva. Avevamo studiato due genomi di forme umane estinte e in entrambi i casi avevamo scoperto un flusso di geni negli esseri umani moderni. Quindi bassi livelli di incrocio con gli esseri umani antichi sembrano essere la regola piuttosto che l’eccezione, quando quelli moderni si sono diffusi per il mondo. Quindi né i Neanderthal né i denisovani si sono estinti del tutto: un pochino di loro sopravvive in alcuni esseri umani che vivono oggi[26].

Nel 2022 Svante Pääbo sarà insignito del Premio Nobel per la Medicina proprio a seguito di queste scoperte.

 

  1. L’archeogenetica

L’ingresso della genetica nella “cassetta degli attrezzi” della paleoantropologia dà un impulso fortissimo allo studio delle popolazioni umane preistoriche. Le scoperte incredibili ottenute da Svante Pääbo e colleghi provocano, in poco meno di dieci anni, la totale messa in discussione di tutti i modelli evolutivi in uso. Entro il modello Out of Africa, infatti, non è ammessa ampia possibilità di incroci tra specie umane distinte, e la sopravvivenza dei soli sapiens fino al presente – e l’estinzione di altre forme umane – viene interpretata, per così dire, in senso “rigorosamente” darwiniano: solo la specie più adatta può sopravvivere; solo i sapiens, tra tutte le forme di Homo mai esistite, sono sopravvissuti; i sapiens sono dunque la forma umana migliore, poiché sono emersi, tra tutti i gruppi umani, come i soli vincitori nella lotta per l’esistenza. In effetti, tale modello poggia fortemente sull’antropocentrismo strutturale che interessa buona parte degli studi antropologici: al fine di rimarcare l’unicità dei sapiens bisogna isolare la specie (anche da un punto di vista genetico) e postulare che essa, in tutto, differisca dagli altri umani, in modo da superarli di misura nella lotta per l’esistenza, quando non eliminarli del tutto con la forza, accelerandone o causandone l’estinzione.

La rivoluzione paleogenetica non intacca l’aderenza al darwinismo delle nuove ricostruzioni evolutive, ma assesta invece un colpo mortale alla componente antropocentrica: la contrapposizione si fa commistione genetica, la lotta per l’esistenza diventa ibridazione, la rivalità tra gruppi umani si fa convivenza e mescolanza. Oltre a superare la linearità della traiettoria evolutiva umana, bisogna anche riconoscere che i sapiens siano rimasti gli unici umani solo in epoca recente, e che la situazione attuale rappresenti una novità rispetto a lunghi millenni di convivenza con altri gruppi; che i sapiens (e, come abbiamo visto, non solo) siano prodotti ibridi, e che l’ibridazione, il mescolamento e la commistione tra umani siano la regola, e non l’eccezione; che gli umani moderni non siano sopravvissuti perché superiori agli altri gruppi, ma, si può ipotizzare, forse proprio perché con essi si siano mescolati[27]; che il concetto tradizionale di “specie” – gli individui dell’una non sono interfertili con le altre – in sede umana risulta ormai altamente problematico.

Le teorie di Darwin subiscono spesso semplificazioni, talvolta guidate da schemi di pensiero come l’antropocentrismo; l’evoluzione umana, così come delineata negli ultimi vent’anni dall’archeogenetica, risulta estremamente più complessa, come più complessi erano i suoi concetti chiave rispetto all’interpretazione positivista. Alla luce della rivoluzione del DNA antico, sembra dunque necessario abbandonare ogni tipo di linearità in merito all’evoluzione umana, per cercare di addentrarsi invece nella complessità dei rapporti intrattenuti dai molti gruppi umani convissuti sulla Terra per migliaia di anni. Non esiste cioè alcuna scala ascendente, nessuna direzione specifica, nessun “albero genealogico” che sia anche solo metaforicamente tale per quanto riguarda l’evoluzione umana, ma ci si trova di fronte a una costellazione di eventi evolutivi più simili, al più, a un “cespuglio” con ramificazioni radiali.


[1] Per uno sguardo alla critica contemporanea al concetto di antropocentrismo entro una cornice filosofica rimando a F. Ferrando, Il Postumanesimo filosofico e le sue alterità, ETS Edizioni, Pisa 2016.

[2] Come riportato in G. Biondi, O. Rickards, Umani da sei milioni di anni. L’evoluzione della nostra specie, tr. it. Carocci, Roma 2018, p. 146.

[3] La pubblicazione avverrà nel 1859; Nel 1871 sarà pubblicata anche l’Origine dell’uomo. Cfr. C. Darwin, On the Origin of Species, John Murray, Londra 1859; C. Darwin, The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, John Murray, Londra 1871.

[4]   In particolare, Owen interviene alla British Association nel 1854 per suggerire l’estrema vicinanza tra gorilla e umani, come raccontato in C.E. Cosans, Owen's Ape and Darwin's Bulldog: Beyond Darwinism and Creationism, Indiana University Press, Bloomington 2009, pp. 1-192.

[5]   Cfr. G. Biondi, O. Rickards, op. cit., pp. 144-145.

[6]   Tra l’altro, lo stimato naturalista tedesco è responsabile di aver ampiamente diffuso la sua “versione” del darwinismo in Germania, cfr. E. Haeckel, Storia della creazione naturale, tr. it. Unione Tipografico-Editrice, Torino 1892.

[7]   W.R.B. King, The reputed fossil man of the Neanderthal, in «Quarterly Journal of Science», 1, 1864, pp. 88-97.

[8]   J.H. Speke, Journal of the Discovery of the Source of the Nile, William Blackwood and Sons, Edinburgo e Londra 1863; C. Lyell, Geological Evidences of the Antiquity of Man, John Murrey, London 1863.

[9]   Questi gli eventi nominati a riprova della velocità del progresso scientifico da parte del keynote speaker del congresso del 1863, Sir William Armstrong. Cfr. D. Papagianni, M.A. Morse, The Neanderthal Rediscovered. How Modern Science is Rewriting Their History, Thames&Hudson, Londra 2015, p. 17.

[10]  Per i complessi rapporti tra Darwin e Nietzsche, e per un approfondimento sul dibattito sul darwinismo nella Germania del XIX secolo, rimando a C. Fuschetto, Breve storia di un appassionante equivoco. Nietzsche, Darwin e la scoperta della vita, in P. Amodio, C. Fuschetto, F. Gambardella, Underscores. Darwin_Nietzsche_von Uexküll_Heidegger_Portmann_Arendt, Giannini Editore, Napoli 2012, pp. 10-44.

[11]  Riporto qui la citazione come in G. Biondi, O. Rickards, op. cit., p. 147, enfasi mia.

[12]  I Neanderthal erano in realtà tutt’altro che bruti. Cfr. D. Papagianni, M.A. Morse, op. cit.; C. Finlayson, The Smart Neanderthal. Bird Catching, Cave Art and the Cognitive Revolution, Oxford University Press, Oxford 2019.

[13] J.D. Watson, F.H. Crick, Molecular structure of nucleic acids; a structure for deoxyribose nucleic acid, in «Nature», 171, 4356, 1953, pp. 737-738.

[14]  R.L. Cann, M. Stoneking, A.C. Wilson, Mitochondrial DNA and human evolution, in «Nature», 325, 1987, pp. 31-36.

[15]  Cfr. R. Lewin, The Unmasking of Mitochondrial Eve, in «Science», vol. 238, n. 4823, 1987, pp. 24-26.

[16]  Il modello di uscita dall’Africa è stato, negli anni, corroborato e compendiato da ulteriori ricerche genetiche, archeologiche, geologiche e paleoclimatiche.

[17]  Il Progetto sarà completato nel 2003.

[18]  M. Krings et alii, Neanderthal DNA Sequences and the Origin of Modern Humans, in «Cell», vol. 90, n. 1, 1997, pp. 19-30.

[19]  Sono le parole di Chris Stinger, stimato paleontologo del Natural History Museum di Londra, come riporta lo stesso Pääbo in S. Pääbo, L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti, tr. it. Einaudi, Torino 2014, p. 25.

[20]  R. Greene et alii, A Draft Sequence of the Neandertal Genome, in «Science» 328, 5979, 2010, pp. 710-722.

[21]  I Neanderthal non possono aver dato un contributo ai genomi attuali provenienti dall’Africa (in particolare quella sub-sahariana) semplicemente perché si sono evoluti già fuori dall’Africa, e hanno abitato principalmente l’Eurasia, incontrando dunque solo quei sapiens che, proprio partendo dal continente africano, si sono poi diffusi su buona parte del resto del globo, Eurasia compresa.

[22]  J. Krause et alii, The complete mitochondrial DNA genome of an unknown hominin from southern Siberia, in «Nature», 464, 2010, pp. 894-897.

[23]  Come ricorda David Reich: D. Reich, Who We Are and How We Got Here, Oxford University Press, Oxford 2018, p. 54.

[24]  Cfr. D. Reich et alii, Genetic history of an archaic hominin group from Denisova Cave in Siberia, in «Nature», vol. 468, 2010, pp. 1053-1060; e V. Slon et alii, Neandertal and Denisovan DNA from Pleistocene sediments, in «Science», vol. 356, n. 6338, 2017, pp. 605‑608.

[25]  V. Slon et alii, The genome of the offspring of a Neanderthal mother and a Denisovan father, in «Nature», vol. 561, 2018, pp. 113-116.

[26]  S. Pääbo, op. cit., p. 267, enfasi mia.

[27] Evolutivamente parlando, risulta vantaggioso incrociarsi con specie già adattate ai loro territori: accaparrarsi gli adattamenti della popolazione residente per via genetica rappresenta la via più rapida per prosperare in un ambiente nuovo e potenzialmente ostile – com’era l’Eurasia glaciale per gli africani sapiens.

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