S&F_scienzaefilosofia.it

Dalla scala all’anello: metafore e ostacoli epistemologici tra storia naturale ed evoluzionismo

Autore


Stefano Pilotto

Università di Roma La Sapienza

è cultore della materia in Etica e scienze del vivente presso l’Università di Roma La Sapienza

Indice


  1. Topologie della natura: catene e scale
  2. L’anello mancante
  3. Spezzare la catena per superare l’ostacolo
  4. Il valore di un errore

 

 

↓ download pdf

 

S&F_n. 28_2022

Abstract


From Ladder to Link: metaphors and epistemological obstacles between natural history and evolutionism

This paper analyses the history and conceptual implications of two metaphors that pre-existed the reflections of modern biology and yet arrived in scientific discourse through the natural history of the 18th century. Integrating historical perspective and epistemology, the metaphor of the scala naturae and the image of the missing link are examined. The heuristic use of such images concerns the continuist and gradualist conception implicit in the accounts that have attempted to explain the transformations of living beings and their variety over the course of time; therefore, their historical coordinates are briefly reconstructed, analysing how their logic came to be applied to the monophyletic conceptions of human evolution during the 20th century. On closer inspection, as knowledge increased, the metaphors proved to be epistemological obstacles to the advancement of research and theories, as was the case with the nascent evolutionary theory, the effects of which spread as far as neo-Darwinism.

  1. Topologie della natura: catene e scale

È noto che la pubblicazione de L’origine delle specie nel 1859 portò scompiglio nella comunità scientifica per la rivoluzione che preannunciava nelle scienze e per le evidenti implicazioni che avrebbero riguardato da subito la sfera etica e religiosa, nonostante il prudente Charles Darwin non si fosse ancora occupato direttamente dell’essere umano. Anzi, egli si limitò ad affermare, nelle battute finali della sua opera, che in futuro «molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia»[1]. Tuttavia, già nel XVIII secolo mediante l’opera di Linneo, e dunque ben prima della diffusione dell’evoluzionismo darwiniano, si stabilì che il posto del genere umano nel regno della natura fosse vicino agli altri animali, in particolare alle grandi scimmie[2]. A ciò si aggiunga che, nel secolo dei Lumi, il concetto della grande catena dell’Essere, eredità importante del pensiero antico, funzionava ancora come potente spiegazione del mondo naturale[3]. La versione moderna di tale immagine venne illustrata dal filosofo e naturalista ginevrino Charles Bonnet, a cui si deve la celebre scala naturae, in cui la continuità ontologica degli enti naturali va dalla base delle materie sottili fino alla sommità, in cui troviamo l’uomo. Molti attinsero a questa efficace immagine, che permise al discorso delle nascenti scienze naturali di illustrare i gradi di separazione esistenti fra le specie viventi, diffondendo al contempo l’idea di una piena continuità fra tutti gli esseri, dal più semplice al più complesso[4].

È bene precisare che con la decima edizione del Systema Naturae nel 1758, Linneo istituisce nella sua tassonomia uno spazio destinato ai primates, ovvero al primo ordine nella classificazione dei mammiferi. La nomenclatura sottolinea qui una precedenza di valore, conferita in virtù della presenza della nostra specie, a sua volta posta per prima all’interno dell’ordine, in quanto specie capace di conoscere sé stessa, da cui l’appellativo di Homo sapiens[5]. Da questo scarto tra descrizione e riconoscimento di un valore, vediamo che la tassonomia sotto la sua schematicità ingloba una teoria[6], nel caso specifico una teoria che afferma cosa sono una specie e un genere, oltre a una teoria che ostensivamente definisce la classificazione in sé. Come ha chiarito Popper, cogliere una somiglianza che si ripete – ad esempio nella classificazione e descrizione zoologica – è la conseguenza di un interesse verso un particolare aspetto focalizzato dal «punto di vista» del suo autore, entro il quale la caratteristica rilevata ha un valore e perciò assume un significato[7]. Di conseguenza, ciò vuol dire che i criteri, in funzione dei quali le similarità o le ripetizioni acquistano significato, sono interni alla classificazione stessa e come tali non si possono giustificare al di fuori di essa. In altre parole, questo stile di pensiero «non è valido perché ci aiuta a scoprire la verità in qualche ambito. È esso stesso a definire i criteri del dire-vero all’interno del suo ambito»[8]. Perciò, nonostante l’antropocentrismo che permea la classificazione linneana, va rilevato che per mezzo del suo metodo morfologico e tipologico, essa ha introdotto nel regime di veridizione scientifica la prossimità fra Homo sapiens e le altre grandi scimmie, contribuendo a suo modo a ridurre la distanza, seppure sul piano teorico e speculativo, con gli animali. Pertanto, anche se lo statuto della nostra specie è stato a lungo posto oltre una soglia rispetto ai nostri parenti più prossimi, nel grande racconto della storia naturale questi lignaggi hanno iniziato a orientarsi nella medesima direzione.

 

  1. L’anello mancante

Lungo lo sviluppo delle scienze biologiche si snoda una tappa importante di questo percorso di avvicinamento, che segna la nascita della moderna paleoantropologia, vale a dire la scoperta nel 1856 dell’uomo Neanderthal rinvenuto nell’omonima valle in Germania. Per quanto sia un reperto frammentario, il fossile lascia ben intuire le sembianze umane dello scheletro, pur avendo caratteristiche arcaiche e insolite. Attorno a questo e ad altri ritrovamenti, tra Ottocento e Novecento, si accende il dibattito sul cosiddetto “anello mancante”. Infatti, contro le posizioni fissiste, sembra che grazie a un individuo estinto da millenni con caratteristiche umane affini a quelle moderne, i gradualisti e i mutazionisti finalmente avessero trovato una conferma oggettiva, enfatizzata dalla presenza di fattezze ancora scimmiesche, in grado di provare il passaggio dallo stato ancestrale a quello moderno del genere umano. Da questo momento in poi, il concetto di anello mancante ha di catalizzato l’attenzione della paleontologia umana, senza che questa abbia riflettuto sull’effettiva valenza euristica della metafora in questione, pur arrivando ad affermare l’idea che la nostra filogenesi sia una vera e propria linea unica su cui inanellare ogni scoperta riguardante fossili di individui dalle fattezze antropomorfe[9].

Benché il quadro teorico si fece comprensibilmente più ricco e complesso dopo la pubblicazione dell’Origin, questa immagine lineare – analoga a quella della “scala” – ebbe forte presa nel discorso scientifico, non senza trovare degli oppositori, come il biologo e strenuo difensore di Darwin Thomas Huxley, il quale mise fortemente in dubbio l’idea del Neanderthal come specie di transizione fra le scimmie e noi. Huxley, infatti, comprese che si trattava non di un antenato diretto bensì di un ramo collaterale della nostra evoluzione, dal momento che la stima del volume endocranico indicava una dimensione che supera il cranio di un uomo moderno[10]. Perciò, se la logica gradualista prevede che nel passaggio dalle scimmie lo sviluppo del volume endocranico sia crescente, un esemplare che mostri un volume maggiore a quello di un cranio moderno, non può essere annoverato come predecessore nella medesima linea evolutiva. Il fossile, quindi, indica la presenza di un’altra linea.

Tuttavia, nel pieno dell’era coloniale, venne formulato un altro argomento, di tipo razziale, per tentare di mostrare la continuità graduale fra i grandi primati e la specie umana, ed è quello che troviamo condensato nell’affermazione del geologo Charles Lyell, che scrisse: «il cervello del boscimano […] conduce al cervello delle Simiadae [scimmie]»[11]. Tale logica, secondo cui l’aspetto “primitivo” di alcuni popoli colonizzati corrispondeva a una loro presunta inferiorità intellettuale, suggeriva anche l’idea di quale fosse la condizione cognitiva dei nostri progenitori[12]. È interessante notare che sullo sfondo di queste teorie, quel che non viene mai meno, anche con l’acquisizione di nuove conoscenze, è ancora la metafora lineare della catena, che spiega in senso analogico il susseguirsi della vita lungo la storia del mondo, anche se, a seguito della progressiva stratificazione concettuale, la metafora viene risemantizzata con la diffusione del paradigma darwiniano, di cui il corollario implicito è appunto la metafora dell’anello mancante. Anche lo stesso Darwin, operando all’interno delle medesime coordinate epistemiche, scrive:

anche se ammettiamo che la differenza fra l’uomo e i suoi più stretti affini è tanto grande nella struttura corporea quanto alcuni naturalisti sostengono, e anche se dobbiamo riconoscere che la differenza sta nelle facoltà mentali immense, tuttavia i fatti […] dimostrano che l’uomo discende da qualche forma inferiore, malgrado non siano stati ancora scoperti gli anelli di congiunzione[13].

 

In queste parole si può osservare la forza performativa della metafora, che da un lato offre un’immagine esplicativa e commensurabile del complesso processo evolutivo, mentre dall’altro preclude una possibile e alternativa riconfigurazione dei dati e della teoria, trasformandosi in un ostacolo epistemologico[14]. L’esempio forse più eclatante degli effetti di questo ostacolo è rappresentato da una nuova denominazione tassonomica introdotta dal biologo tedesco Ernst Haeckel, inventata però in assenza di un’effettiva scoperta. Lo scienziato, infatti, seguendo la logica dell’anello mancante, nel 1874 postulò l’esistenza del Pithecanthropus alalus[15], ovvero di un uomo-scimmia senza linguaggio, come specie di raccordo tra progenitori arboricoli e i nostri antenati biologicamente moderni. Fu poi Eugène Dubois a soddisfare tale aspettativa utilizzando il nome coniato da Haeckel per la sua scoperta fatta a Giava nel 1891: la concomitanza di un cranio dalla forte reminiscenza scimmiesca con un femore tipicamente umano, che ne indica la postura eretta, portò Dubois a denominare tale esemplare Pithecanthropus erectus (oggi Homo erectus)[16].

 

  1. Spezzare la catena per superare l’ostacolo

Nel corso del Novecento la ricerca dell’anello mancante diviene l’obiettivo principale della paleoantropologia e il modello della filogenesi unilineare si afferma, in senso kuhniano, come suo paradigma normale, basti pensare alla fama della celebre “marcia dell’evoluzione”, l’immagine in cui una fila di varie forme di Ominini procede verso il moderno Homo sapiens. La presa di questa immagine non cede neanche a seguito delle revisioni operate dalla Teoria Sintetica sul darwinismo classico, quando l’interesse della biologia evoluzionista si concentra sulle cause microevolutive della dimensione genica. Dal momento che secondo il neodarwinismo le specie sono definite come gruppi di popolazioni che costituiscono una comunità riproduttiva, un’unità genetica e un’unità ecologica[17], è quindi coerente supporre che il folto gruppo di Ominini rinvenuti negli anni rappresentino anch’essi un’unità genetica di lignaggio coerente con tali caratteristiche, in virtù della necessaria corrispondenza tra le mutazioni e la trasmissione genica.

Visto il largo consenso ottenuto da questo modello, possiamo rilevare che la sua forza risiede nella sua economia, che consente di ricondurre gli aspetti macroevolutivi e morfologici alle mutazioni genetiche e insieme permette di concepire ogni nuova specie scoperta come un ulteriore anello che sposta indietro l’inizio della catena evolutiva, offrendo così un’immagine sintetica e lineare delle maggiori conoscenze paleoantropologiche. Tuttavia, la plausibilità di questa logica interpretativa gradualista incontra molte difficoltà nel comprendere due fenomeni complementari scoperti dalla paleontologia nella seconda metà del XX secolo: i lunghi periodi di stasi evolutiva e poi l’improvvisa comparsa di nuove specie. Questo processo di revisione, di pari passo con l’elaborazione di nuovi dati, ha definitivamente spezzato la catena degli esseri, rendendo inservibile l’affascinante metafora dell’anello mancante.

È grazie soprattutto ai lavori di Eldredge e Gould, che è stato possibile osservare dei particolari pattern in cui si assiste al rapido cambiamento delle specie, con mutamenti morfologici “improvvisi” – su scala geologica – corrispondenti ai relativi processi di speciazione, legati a loro volta al cambiamento delle regole ecologiche di sopravvivenza[18]. I processi macroevolutivi, secondo l’immagine offerta dai due paleontologi americani, sono caratterizzati da lunghi periodi di immobilismo e «punteggiati» dalla comparsa “rapida” di nuove specie. A partire dallo studio degli invertebrati, il paradigma degli equilibri punteggiati è stato accolto in molti altri campi della biologia e ha trovato nella paleoantropologia un’ulteriore casistica a suo favore[19].

Forse in maniera anche più incisiva rispetto alla stessa rivoluzione darwiniana, in cui le immagini premoderne della scala e della catena continuavano ad agire sul piano categoriale delle scienze della vita, qui il cambio di paradigma è netto e lo si può cogliere dall’introduzione di una nuova metafora, quella del cespuglio[20], che taglia definitivamente i ponti con le vecchie analogie e offre la possibilità di una maggiore comprensione dei fenomeni evolutivi. Il grande problema posto dalle evidenze fossili dell’Africa orientale, inoltre, ha scosso bruscamente il modello evolutivo unilineare, mostrando che

nel corso delle varie fasi dell’evoluzione umana (come del resto di tutti gli altri esseri viventi) sono coesistite fianco a fianco, per periodi di tempo più o meno lunghi, numerose specie di Ominini, molte delle quali non hanno una relazione diretta con la storia evolutiva di Homo sapiens – rappresentano dei rami secchi del cespuglio evolutivo. Ciò è tanto più probabile quanto più ci si addentra nella profondità delle fasi antiche dell’evoluzione umana[21].

A scapito delle vecchie ipotesi, indotte dai concetti e dalle metafore fin qui discusse, è quindi emerso un andamento tutt’altro che lineare, a dimostrazione che «ciò che la scienza trova non è ciò che l’ideologia le dava da cercare»[22].

 

  1. Il valore di un errore

Ciò che può apparire come una mera divergenza tra sintesi concettuali o narrative interne alla biologia è invece, come si è visto, una questione affatto marginale, proprio perché il ruolo delle metafore nelle scienze della vita è decisivo, la cui forza euristica è pari a quella delle leggi, poiché

invece di formulare leggi i biologi organizzano abitualmente le loro generalizzazioni in modelli concettuali. È stato affermato che l’opposizione tra legge e concetto è solo di carattere formale, poiché ogni concetto può essere tradotto in una o più leggi. Anche se ciò fosse vero formalmente – cosa di cui non sono del tutto certo – una tale traduzione son sarebbe utile nella pratica concreta della ricerca biologica; alle leggi manca la flessibilità e l’utilità euristica dei concetti. Con ogni probabilità il progresso nelle scienze biologiche è in gran parte una questione di sviluppo di concetti o di princìpi[23].

La precisazione di Mayr mette bene in luce come non sia possibile fare a meno delle immagini veicolate dalla metafora, poiché pur trattandosi di una formalizzazione discorsiva non matematizzata è tuttavia «una forma di ragionamento che permette di organizzare, interpretare e reinterpretare ampi quadri di riferimento categoriale all’interno di una parola»[24]. Il problema di fronte a questi enunciati è che muovendo da ragionamenti di tipo analogico utilizzano concetti presi in prestito all’esterno della regione scientifica in cui vengono impiegati, tali migrazioni possono introdurre distorsioni o aspetti di tipo ideologico che non è possibile prevedere, poiché, come spiega Canguilhem, «la qualifica di ideologia data a un certo insieme di osservazioni e di deduzioni è posteriore alla sua squalifica come scienza a opera di un discorso che delimita il proprio campo di validità e viene messo alla prova dalla coerenza e dall’integrazione dei suoi risultati»[25]. Ciò appare evidente nel caso del concetto di anello mancante, che per più di cento anni è stato piegato alle esigenze teoriche dell’evoluzionismo, finché proprio a seguito dei risvolti pragmatici della ricerca esso ha mostrato la sua mancanza di flessibilità e i suoi limiti ideologici, portando gli scienziati a produrre nuovi strumenti concettuali e nuove metafore. Ma è proprio per questa sua incidenza storica nella biologia evoluzionista, che i discorsi sull’anello mancante rivestono una grande importanza epistemologica, facendo di tale metafora un paradosso: insieme una spinta e un limite per le scienze della vita. Questa efficace metafora ha guidato a lungo l’organizzazione di alcune conoscenze, fornendo loro una spinta propulsiva verso un ampliamento esponenziale dei dati e delle informazioni, per poi rivelarsi, infine, un vincolo interno alle stesse teorie. Pertanto, in questi casi, oltre alla falsificazione interna alla singola disciplina scientifica, un’epistemologia in grado di misurarsi tanto con gli enunciati quanto con la loro storia, permette di giungere a una critica radicale di questi concetti così stratificati, nella consapevolezza che tali bias costituiscono un tutt’uno con il corpo materiale della pratica scientifica.


[1] C. Darwin, L’origine delle specie (1859), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 551.

[2] Cfr. Caroli Linnæi, Systema Naturae, Leiden 1735; sul pensiero evolutivo predarwiniano rimandiamo a G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell'evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005.

[3] Cfr. A.O. Lovejoy, La grande catena dell’Essere (1936), tr. it. Feltrinelli, Milano 1981.

[4] Cfr. G. Barsanti, Il labirinto della natura. Dalle metafore alle immagini (scale, mappe, alberi) e ritorno, in E. Gagliasso, G. Frezza, Metafore del vivente. Linguaggi e ricerca scientifica tra filosofia, bios e psiche, Franco Angeli, Milano 2010; il testo di Bonnet in cui compare la prima volta tale immagine è il suo Traité d'insectologie pubblicato a Parigi nel 1745.

[5] Il testo linneano letteralmente riporta: «Mammalia, I. PRIMATES, Homo, nosce te ipsum», cfr. Caroli Linnæi, Systema Naturae, 1758, p. 18.

[6] Per questo particolare aspetto epistemologico rimandiamo a B. Continenza, E. Gagliasso, Giochi aperti in biologia. Una riflessione critica su adattamento, struttura, specie, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 94 sgg.

[7] Cfr. K. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), tr. it. Einaudi, Torino 1974, pp. 476-477.

[8] I. Hacking, La ragione scientifica (2017), tr. it. Castelvecchi, Roma 2017, p. 49.

[9] Cfr. G. Manzi, Dalla ricerca dell’anello mancante alla biologia evoluzionistica: storia e metodi della paleontologia, in L. Calabi, Il futuro di Darwin. L’uomo, UTET, Torino 2010, p. 106.

[10] G. Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, Il Mulino, Bologna 2017, p. 148.

[11] Cit. in S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo (1980), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2008, p. 55.

[12] Per una analisi critica del rapporto tra darwinismo e razzismo cfr. A. La Vergata, Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica, guerra e altri mali, UTET, Torino 2009.

[13] C. Darwin, L’origine dell’uomo e la scelta sessuale (1871), tr. it. Bur, Milano 1982, p. 193.

[14] Cfr. G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico (1938), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2000.

[15] Cfr. G. Manzi, Dalla ricerca dell’anello mancante alla biologia evoluzionistica, cit.

[16] Cfr. Id., Il grande racconto dell’evoluzione umana, Il Mulino, Bologna 2013, p. 146.

[17] Cfr. E. Mayr, Biologia ed evoluzione (1976), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 23.

[18] Cfr. S.J. Gould, N. Eldredge, Punctuate Equilibria: The Tempo and Mole of Evolution Reconsidered, in «Paleobiology», 3, 1977, pp. 115-151.

[19] Cfr. S.J. Gould, L’equilibrio punteggiato (2007), tr. it. Codice, Torino 2008.

[20] È interessante notare che tra gli appunti tracciati da Darwin, in uno dei suoi taccuini risalenti all’autunno del 1837, compare precisamente l’immagine di un cespuglio, cfr. C. Darwin, Taccuini 1836-1844 (Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2008, p. 137.

[21] J. Moggi-Cecchi, Le più antiche evidenze della linea evolutiva umana, in «XLI seminario sulla evoluzione biologica e i grandi problemi della biologia: l’origine dell’uomo» presso l’Accademia dei Lincei, Bardi Editore, Roma 2016, p. 96.

[22] G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita (1977), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 32.

[23] E. Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità (1982), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 43.

[24] E. Gagliasso, «Organismo» e «individuo» come arcipelaghi di metafore, in L. Calabi, Il futuro di Darwin. L’individuo, UTET, Torino 2008, p. 86.

[25] G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, cit., pp. 34-35.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *