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L’intelligenza delle mani

Autore


Maria Teresa Catena

Università degli studi di Napoli Federico II

Insegna Filosofia Teoretica presso l'Università degli studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Naturale e artificiale
  2. I tre anelli
  3. L’errore di Cartesio
  4. Un nesso tra eterogenei

 

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S&F_n. 27_2022

Abstract


The Intelligence of Hands

Attributing artificiality solely to technological intelligences certainly means distinguishing their capabilities from those of the human mind, whose biological origin, however, runs the risk of becoming synonymous with an immutable nature. Adopting a palaeontological perspective, the contribution, conversely, seeks to draw attention to the close evolutionary link between our brains and the practices of the living body. Such a reflection is intended to recall not only the constructed nature of our intelligences, but also to show how, in removing the plasticity of the body, Cartesian Modernity was instead inspired by a machinic model of the brain that rendered the mind an immaterial and static entity. Therefore, trying to probe the presence of this approach between the lines of some conceptions of A.I. is a necessary premise both to read human intelligere in terms of a specific articulation of the artificial and to reposition its relationship with other machinic intelligences in the more horizontal perspective of a respectful heterogeneity.

Le tecnologie sono artificiali, ma l’artificialità è naturale per gli esseri umani

W. Ong

 

  1. Naturale e artificiale

Non c’è dubbio: più passa il tempo e più l’Intelligenza Artificiale ha molto da dirci e, soprattutto, molte sfide da proporci. A dispetto del termine, coniato nel relativamente recente 1956, le riflessioni su questa ingegneria dedita alla costruzione di macchine che agiscono con capacità più o meno simili a quelle dell’uomo aumentano in modo direttamente proporzionale alle applicazioni che essa sperimenta. E così, dalle prime descrizioni delle reti neurali artificiali fornita da Alan Turing, passando per le tartarughe meccaniche di William Grey Walter, senza dimenticare Eliza, il primo chatbot progettato nel 1966 per imitare uno psicoterapeuta in conversazione con i suoi pazienti, siamo giunti, tra “estati e inverni”, alla costruzione di veicoli senza pilota in grado di procedere autonomamente nel traffico o in un’azione militare, nonché alla ben più amena programmazione di AlphaGo, famoso per aver battuto a Go lo stremato Lee Sedol. Stupefacente, davvero.

A scrivere, sia chiaro, non è una specialista né una scienziata né, tantomeno, un ingegnere; piuttosto un’umanista che, nell’aggirarsi un po’ frastornato tra i molti campi di applicazione che le diverse forme d’intelligenze artificiali mostrano oggidì, sa di non avere le competenze specifiche per schierarsi con sicurezza nell’annosa diatriba tra gli “entusiastici integrati” e gli “apocalittici diffidenti”; convinti, i primi, che i nuovi processi tecnologici, le cui attitudini supereranno di gran lunga quelle degli esseri umani, saranno in grado di rendere più abitabile e controllabile il mondo, portando nuovi benefici all’umanità e risolvendo i tanti problemi che essa è stata in grado di creare; pronti, invece, i secondi, a denunciare i danni che l’I.A. rischia di provocare, non ultimi gli impatti delle sue applicazioni in campo militare o le conseguenze che l’automazione di compiti complessi può avere sulle nostre capacità cognitive e dunque sulla nostra vita.

Naturalmente, non è mia intenzione sottrarmi a una doverosa presa di posizione su questioni evidentemente delicate e sempre più urgenti. Il punto è che, com’è stato di recente sottolineato, «chi fa filosofia lavora con concetti generali»[1]: cosa questa che, se non è confusa con una tendenza all’astrattezza, dà anche l’opportunità di distogliere lo sguardo dall’immediato, dal progetto e dalla sua applicazione, per provare a individuare le stratificazioni concettuali sedimentate – e in parte celate – dietro la scelta e l’uso che facciamo di nomi e parole; come a dire che si tratta di provare a capire di cosa parliamo e cosa mettiamo in campo – o fuori gioco – nelle nostre scelte espressive, magari per arricchire con un “tassello” teoretico il pur indispensabile momento etico e decisionale delle nostre riflessioni.

Così, al cospetto della definizione “Intelligenza artificiale”, è evidente – anche al netto di un andamento che oscilla tra l’emulazione e il superamento – la scelta di prendere come modello per la costruzione di queste nuove macchine, l’intelligenza più complessa che abbiamo a disposizione: la nostra. Il che presuppone – e qui emerge una prima domanda – che sia ben chiaro di che cosa parliamo quando parliamo d’intelligenza.

Lungi dal semplificarsi, però, la questione si complica, non foss’altro perché non è affatto facile mettersi d’accordo sul significato della parola, specificare che cosa s’intende con essa e definire quali sono i rapporti che, ad esempio, intercorrono con il cervello, la conoscenza del quale è un work in progress composto, ormai, dalle più disparate competenze di neurobiologi, fisici, matematici, ingegneri e informatici. Va da sé che gli stessi esperti di I.A. hanno da sempre cercato di dare una risposta a questo difficile quesito, spesso accendendo un dibattito fatto di posizioni differenti e, a volte, anche difficilmente conciliabili: basti pensare, ad esempio, alle obiezioni che John Searle rivolse all’impostazione simbolica e computazionale sostenuta da Marvin Minsky, Herbert A. Simon e Allen Newell, decisamente dominante nei primi decenni della disciplina. Al cospetto della convinzione che la mente umana è simile a un hardware la cui attività consiste nella capacità di combinare, secondo le regole della logica, rappresentazioni isolabili, oltre che precisamente localizzabili, si riteneva sufficiente studiare e replicare questi processi per costruire un computer intelligente; e di fatto i primi risultati di questo approccio furono programmi in grado di riprodurre attività intelligenti come le dimostrazioni matematiche. Ma, si domandava Searle, siamo sicuri che nella nostra testa si svolga esclusivamente un tal genere di lavoro? E siamo certi che si possa chiamare intelligente un software che, per quanto sofisticato, altro non fa che collezionare numeri, ancorché in maniera aggiornata e veloce[2]?

Non è stato dunque un caso che a questa seconda scuola di pensiero se ne sia affiancata un’altra che, stante le intenzioni di Frank Rosenblatt, provava a pensare l’intelligenza come una proprietà funzionale del sistema biologico e, ispirandosi alle reti neurali, cercava di riprodurne le strutture. Anche in questo caso, tuttavia, nonostante gli indubbi progressi che le attuali RNA hanno nel ricavare informazioni dai dati, applicandole, ad esempio, al riconoscimento delle immagini, è difficile giungere alla conclusione che la capacità di apprendere o imparare esaurisca lo spettro della nostra attività cerebrale. Nemmeno la robotica, infine, con le sue macchine in grado di vedere e riconoscere gli oggetti, nonché di comprendere il linguaggio naturale e comunicare con gli esseri umani, può esimersi dal constatare che il nesso tra intelligenza e percezione, su cui ragionevolmente basa i suoi studi, è molto difficile da indagare, anche volendo limitare le indagini al “banale” sistema autoselettivo di visione di una rana[3].

Così, visti i problemi posti dalla definizione del termine “intelligenza”, è forse più opportuno, per provare a comprendere le sedimentazioni concettuali presenti nelle diverse riflessioni facenti capo all’I.A., rivolgere la nostra attenzione all’aggettivo “artificiale”. Tale spostamento di prospettiva, inoltre, è autorizzato dal fatto che, a dispetto della difficoltà a convenire su cosa debbano fare le nuove macchine - se ragionare, comunicare e interagire con l'ambiente o, piuttosto, apprendere - tutti concordano sul come lo facciano: artificialmente, appunto, a partire cioè da una complessa organizzazione e costruzione di strategie e meccanismi o, più precisamente, attraverso un articolato e sempre più diversificato sistema di elaborazione d’informazioni; dunque in modo differente dalle modalità realizzative dell’intelligenza umana che, a contrario, è implicitamente considerata naturale. Perché non ci sono dubbi: anche se stabilissimo che la mente umana null’altro è se non un «sistema di elaborazione di informazioni che non fa nulla che non possa fare un altro sistema di elaborazione di informazioni»[4], resta certo che essa svolge questo compito con modalità biologiche e naturali tutte proprie.

Ma – e questo è il punto – siamo sicuri di avere ben chiaro che cosa significa un’intelligenza naturale? Che cosa dobbiamo intendere con tale termine: l’emanazione immateriale e spontanea di un mondo spirituale? Il prodotto predeterminato delle operazioni fisiche del cervello? O piuttosto il termine non significa niente di tutto questo, rimandando piuttosto a un lungo e per niente scontato percorso evolutivo, le cui radici sono intrinsecamente materiali?

 

  1. I tre anelli

Ebbene, non sembrano esserci dubbi: una volta superate le visioni che tendevano a risolvere la naturalità delle leggi dell'uomo e del mondo «dentro un ordine naturale tanto vasto da trascendere se medesimo in una superiore armonia»[5], anche l’umano smette di essere una volta e per tutte una particolare creatura “sovrannaturata”, frutto di un piano che, in fin dei conti, sempre la trascende, per scoprirsi intrecciato al contesto della sua situazione biologica, della struttura delle sue percezioni, delle sue azioni e dei suoi bisogni; per collocarsi, in una parola, in stretta dipendenza da un ambiente ormai irrimediabilmente orizzontale nel quale, organismo tra i tanti, viene maturando, in un reciproco arricchimento, la sua specificità. In questa prospettiva, la sua intelligenza, lungi dal brillare come riverbero di “altra scintilla”, diventa piuttosto la semplice maglia di una catena decisamente più materiale; come tale, ben saldata agli altri due anelli fondamentali del cervello e del corpo, il cui movimento, poi, in particolar modo, «ci insegna qual è il nostro posto tra i primati»[6].

È una tesi ben nota, questa, si sa; una tesi che ha trovato tra i suoi sostenitori André Leroi-Gourhan, i cui studi hanno fatto del nesso tra posizione, dentatura ed arti, la triade che condiziona l’evoluzione del cranio e del cervello di qualsivoglia vivente, homo compreso. A suo modo di vedere, infatti, è la posizione eretta, specifica condotta motrice conquistata a un certo punto dalla nostra specie, a permettere la maturazione del cervello, la cui massa si è potuta accrescere grazie alla nuova posizione assunta dal cranio. Del resto, non è difficile comprendere la mutazione morfologica subita dalla scatola cranica una volta che essa, collocata verticalmente sulla colonna vertebrale, vede, al tempo stesso, le mani liberate dalla funzione locomotrice, la mandibola sollevata dal suolo e il ventaglio corticale aprirsi. L’ampliamento delle cellule nervose o l’aumento della materia grigia, dunque, «non può essere antecedente all’edificio scheletrico», dato che, piuttosto, è la massa cerebrale a «seguire il movimento generale» e ad avvantaggiarsi «dei progressi dell’adattamento locomotore anziché provocarli»[7]; come a dire che la forza di espansione del cervello, e la correlativa intelligenza, lungi dal produrre il gesto e la parola, abbisogna innanzitutto della struttura somatica, con i suoi movimenti e ritmi; necessitano, in una parola, del complesso lavorìo dell’anello del corpo.

Occorre intendersi però: il corpo in questione non è una mera estensione né tantomeno un meccanismo che ammette fra le sue parti, o fra se stesso e l’esterno, solo relazioni esteriori. Più che semplice recettore, dipendente in modo univoco e lineare da uno stimolo, che tocca poi all’apparato nervoso decrittare con neurotrasmettitori e sinapsi, il sostrato biologico mostra di essere un varco, un accesso, un contatto costante con una situazione aperta e pratica, che suggerisce e sollecita quelle che solo in via riduttiva si chiamano risposte perché, viceversa, è di un complesso di condotte motorie che si tratta o, detto in altri termini, di un insieme di gesti – sessuali, affettivi, sociali, comunicativi o indirizzati alla costruzione di strumenti e alla produzione di utensili – che sono tutti già “tecniche”, cioè modi attraverso i quali si sperimentano strategie vitali esposte, come tali, tanto al fallimento quanto alla riuscita.

In tutta evidenza, dunque, in questa impostazione, il rapporto con l’ambiente non si gioca nei termini di un fronteggiamento tra due “in sé”: quella descritta piuttosto è un’immediata e per niente semplice co-appartenenza che salda vicendevolmente le condotte somatiche alla vasta schiera di potenziali alterità - siano esse gli altri uomini, gli animali, i vegetali o la stessa sfera materiale - rendendole atti radicalmente integrati nella materia, intrisi di uno “sfondo affettivo” e, pertanto, capaci di influenzare e modificare la morfologia del cervello con la sua attività neuronale. Non è un caso che il paleontologo francese parli degli scheletri come «di utensili»[8], cioè di veri e propri artifici organici, intendendo con questa formulazione la natura malleabile di un soma disponibile, già nella sua architettura anatomica, a essere plasmato e diversamente modificato dalle sue stesse condotte, nelle quali vanno senz’altro incluse anche quelle variazioni intra e inter-organiche, fisiologiche e senzienti che, sempre intrecciate al rapporto efficace con la materia, costituiscono «un’azione simultanea dei ritmi e delle forme»[9] o, detto in altri termini, una capacità di essere e darsi un mondo, certamente indispensabile per l’orientamento e la sopravvivenza.

E così, per tornare alla domanda posta, non solo occorre ammettere che la nostra intelligenza, quale frutto di un lungo processo evolutivo, ha ben poco d’immateriale o spirituale, ma anche constatare che sarebbe fuorviante identificarla con un cervello che, simile a una struttura di cemento, segue i percorsi immutabili di circuiti dai ruoli precisi e non suscettibili di alterazioni.

«L’uomo», affermava invece Mauss citando Halbwachs, «è un animale che pensa con le sue dita»[10]. Non è solo un’affermazione suggestiva: il punto di vista filogenetico ed evolutivo ci dice infatti che l’intelligere di cui è capace la nostra materia grigia è innanzitutto un “fare”, materiale e situato, le cui configurazioni orientative altro non sono che stratificazioni e sedimentazioni di pratiche, esperienze e modi di vita che, radicati nel “veicolo del corpo”, conferiscono al cervello il suo più importante risultato evolutivo: la neuroplasticità, cioè quella capacità di “cambiare idea” che consente al sistema nervoso di «sottrarsi alle limitazioni del proprio genoma e di adattarsi alle situazioni ambientali, ai cambiamenti fisiologici e alle nostre esperienze»[11]. Insomma, i fossili di Leroi-Gourhan mostrano in maniera chiara quanto anche la neurofisiologia più recente sostiene; sarebbe a dire che il nostro cervello, con la sua intelligenza, non è quella macchina neuroanatomicamente standardizzata che abbiamo creduto fosse, né le sue componenti cellulari posso essere assimilate a “banche dati” permanenti: piuttosto, trattasi di una materia altamente adattabile, pronta a cambiare in sintonia con gli strumenti che utilizza, con le azioni motorie che compie, con gli schemi di pensiero, i ritmi e le affezioni che vive e percepisce.

Osservato da punto di vista della sua storia evolutiva e delle sue prestazioni neurofisiologiche, il nostro “anello” cerebrale appare dunque più come un artefatto, oserei dire un vero e proprio “manufatto”: qualcosa la cui intelligenza, debitrice com’è alle tecniche della mano e alle più complessive condotte – e ritmi – somatici, è molto simile a un «fai da te» che ciascuno «si costruisce a suo modo, partendo da un modello base tendenzialmente aperto a tutte le scelte successive»[12]. È dunque certo che «pensare è agire, e agire è pensare»[13], ma altrettanto certo è che a quest’affermazione occorre aggiungere che il nostro pensare, almeno dal punto di vista evolutivo, è sempre l’agire di un corpo protesico, senziente e, in quanto tale, artificiale.

Trattasi di una posizione non priva di elementi problematici[14], ma che ha il vantaggio di indurci a rinunciare all’astrusa ricerca di una definizione sul che cosa sia l’intelligenza, spingendoci, viceversa, in direzione della più semplice constatazione che le nostre menti, proprio perché incarnate, non sono altro che uno specifico e possibile modo di articolare quel come dell’artefazione che poi trova nelle intelligenze macchiniche un’altra e differente modalità di azione; un’azione quest’ultima che - si badi bene - si svolge non tanto in assenza di un «intelligere»[15], ma secondo strategie improntate a comportamenti costruiti in assenza di quel particolare artificio organico che abbiamo visto essere il nostro soma.

Il punto è che, almeno da un dato momento in poi, la nostra storia materiale e il nostro linguaggio si sono mossi in tutt’altra direzione, mostrandosi più propensi a mettere sottotraccia quest’agere protesico delle nostre facoltà mentali, avviando così una serie di non trascurabili conseguenze, anche relativamente al nostro rapporto con le cosiddette nuove macchine.

 

  1. L’errore di Cartesio

Del resto, che questo accadesse era forse inevitabile. Basta riflettere su quella particolare tipologia di condotte somatiche che sono i gesti efficienti, “padri” delle tecnologie. Se infatti si pensa ai primi utensili - una pietra affilata per tagliare, una leva per spostare un carico pesante - è ben evidente il loro carattere di secrezioni organiche, cioè la loro capacità di sostituire, magari in maniera più efficace, tutto quanto il medium del corpo è solito fare, oppure di rendere possibili compiti viceversa impossibili da realizzare per la difficoltà o la grandezza dell’obiettivo in gioco. Insomma, attenendosi ai risultati di quella che è stata chiamata la prima rivoluzione tecnologica, chiara ci appare la natura manufattuale dell’intelligenza umana, la sua radicale contaminazione con il corpo protesico, in sintonia con il quale essa “materializza” i propri pensieri.

Non che la Modernità meccanica, con i suoi telai e le sue macchine a vapore, non fosse legata alle prassi del corpo; come d’altro canto, in una linea che non sembra affatto costituire una deviazione da queste premesse, a esse s’intrecciano anche le cosiddette tecnologie della Galassia Marconi, vere e proprie estensioni del nostro intero sistema nervoso. È indubbiamente vero che negli anni Quaranta e Cinquanta il computer altro non era che una stanza e «programmare significava usare un cacciavite»; allo stesso modo in cui, al netto della «parentesi semantica», anche oggi, pur se calate nell’«infosfera che le circonda spesso impercettibilmente», le interazioni umano-computer sono diventate di nuovo somatiche, «con touch screen, comandi locali, dispositivi di ascolto, applicazioni sensibili ai gesti, dati proxy per la geolocalizzazione e così via»[16].

Eppure, nonostante l’indiscutibile esattezza di queste considerazioni, uno slittamento, forse un ribaltamento, si è dato nella nostra relazione con le macchine. Il fatto è che, a furia di creare strumenti, si sviluppa una tendenza a ricreare noi stessi a loro immagine: e così, come martello, incudine e staffa sono i nomi dati ad alcuni ossicini del nostro orecchio, allo stesso modo, l’invenzione dell’orologio o quella delle macchine idraulico-pneumatiche a vapore suscita l’idea che il cuore sia una pompa e che il corpo che lo custodisce altro non sia che un meccanismo. Ne deriva – e inevitabilmente – un ripensamento e una rimodulazione della visione stessa della nostra intelligenza.

A riguardo non c’è emblema più pregnante della filosofia cartesiana, per la quale il soma, vera e propria macchina da terra, non solo nulla sa fare se non sottostare alle leggi meccaniche del moto, ma nulla può pensare se non grazie e per tramite di un cogito, la cui attività immateriale e inestesa è un patrimonio innato dai frutti tanto più veritieri quanto più capaci di astrarre da contaminazioni materiali. Non è un caso che, per il filosofo francese, è questa mente disincarnata e centripeta la vera matrice e sede di qualsivoglia cogitationes, ivi compresi i processi inventivi e razionali deputati alla costruzione dei moderni artifici meccanici. Del tipo di rapporto che un’intelligenza così concepita ha con le proprie creature macchiniche, ci raccontano poi i primi automi, le cui “teste parlanti” sempre distinte e distanti da quelle dei loro artefici, sono perciò stesso in grado di rassicurarli circa l’eccellenza e la superiore acutezza naturale della loro mente, unica e vera causa della loro realizzazione.

Che questa lettura dei corpi e delle intelligenze si sia esaurita, è ben difficile dirlo giacché, anche quando la nozione di mente immateriale si è andata facendo sempre meno sostenibile, è sopravvissuta l’idea cartesiana di un corpo-cervello-macchina, le cui operazioni fisiche bastano da sole a spiegare la formazione di pensieri, emozioni, memoria, immaginazione, creazione. E così, rinforzata dall’avvento del computer digitale, questa visione ha condotto scienziati e filosofi a riferirsi «ai nostri computer mentali, e persino al nostro comportamento, definendoli cablati a livello di “hardware” (hardwired), proprio come i microscopici circuiti incisi nel sostrato di silicio di un chip di computer»[17].

È una proiezione che, attraverso un percorso diverso, dà vita a una nuova versione del vecchio adagio relativo a una supposta e stazionaria natura umana: come infatti nota Nicolas Dodge, «dal momento che il cervello, modellato sulla sicurezza della macchina, non può cambiare, così anche la natura umana che ha la propria origine nella mente sembra altrettanto inalterabile»[18].

Evidentemente, non si tratta di spostamenti di poco conto.

Pensare a un corpo-macchina, infatti, non significa tanto sostituire l’agente con l’agito, il produttore con il prodotto, ma soprattutto rescindere il legame evolutivo che abbiamo visto saldare il pensare con l’agire somatico, in una vera e propria separazione delle forze in campo che lascia ottuso e privo di senso il corpo vitale. Non può che derivarne una, anzi, per meglio dire, due diverse idee d’intelligenza, entrambe molto distanti da quella materiale e manufatta: la prima, che in un ripensamento della vecchia e pre-moderna “natura sovrannaturata”, ne fa di nuovo un’entità spirituale o comunque immateriale; la seconda, tutta improntata al modello macchinico, la considera un sistema statico e immutabile di elaborazione d’informazioni calato in una materia il cui agere è prettamente meccanico.

Resta fermo però che, comunque la si voglia mettere, nessuna di queste due concezioni condivide con l’intelligere cresciuto con il corpo protesico il pregio non trascurabile che esso ha di sapersi porre in una relazione orizzontale con i propri interlocutori; ovvero di saper comprendere che di fronte a sé non si parano mai «meri oggetti» o più o meno complessi prodotti delle proprie capacità sovrannaturate, quanto piuttosto «enti», il cui «il peso di soggetti» li rende parimenti «interpreti delle dinamiche globali» di cui esso stesso è fatto[19]. Viceversa, in entrambe le sue declinazioni, la metafora del corpo-cervello-macchina mette in scena un rapporto sicuramente più ambivalente con quegli stessi congegni che egli osserva – lo si è accennato – tanto come prodotti capaci di testimoniare circa la superiorità della mente umana quanto, insieme, come modelli cui ispirarsi – quando non addirittura come veri e propri specchi su cui proiettare, di volta in volta, l’immagine dei propri vizi o delle proprie virtù.

 

  1. Un nesso tra eterogenei

Sarebbe interessante – e forse opportuno – provare a declinare una fenomenologia di queste sedimentazioni concettuali, ivi compresa la relazione tra l’emulativo e il competitivo che s’è venuta instaurando con le nuove macchine intelligenti. Ad esempio, si potrebbe notare la presenza di queste posizioni in quella che è stata definita “I.A. forte”: convinta che la chiave del pensiero risieda nella capacità di combinare, secondo le regole della logica, rappresentazioni ritenute «chiaramente isolabili, oltre che precisamente localizzabili nella macchina cervello»[20], tale impostazione, in un’evidente circolarità, ritiene intelligenti tutte le macchine capaci di ragionare simbolicamente una volta che siano state in loro implementate sufficienti quantità d’informazione. Che un tal genere di congegno, «in grado di trasferire informazioni alla velocità della luce; compiere calcoli complessi in frazioni impercettibili di secondo; predire se pioverà tra dodici ore su un campo di grano», altro non sia che mera computazione e, in quanto tale, fonte di rassicurazione sulle capacità delle nostre intelligenze, basterebbero a provarlo le parole di Elaine Rich e Kevin Knight, secondo i quali l’I.A. è «l’arte di delegare a macchine computazionali compiti, “che, al momento, la gente sa comunque fare meglio”»[21]. Trattasi di una posizione che pur avendo il pregio di rimandare alle responsabilità dell’umano, ricordandoci che occorre innanzitutto occuparci di «cosa noi possiamo o vogliamo fare con esse, se classificare individui affetti da malattie o reiterare il reato di cui sono accusati», corre il rischio di scivolare in una petizione di superiorità, almeno fintantoché si dichiara poco interessata a «cosa queste macchine riescano a fare»[22].

Allo stesso modo, occorrerebbe provare a scandagliare la presenza di simili sedimentazioni concettuali, nei tentativi compiuti dall’“I.A. dell’apprendimento” – automatico e profondo – e delle “reti neurali” che, basata su una visione più dinamica del cervello, cerca di costruire un tipo di macchine intelligenti in grado di avvicinarsi quanto più possibile alla sottigliezza e alla complessità della mente umana. In tale direzione andrebbero annoverate le stesse ricerche dell’I-Life – cioè della codificazione digitale della vita – e dell’“I.A. evolutiva”, alcune delle quali focalizzate sul ruolo dell’emozione nell’architettura del pensiero. Ebbene, anche in questi casi non sarebbe difficile rilevare come la presenza di alcuni degli apriori teoretici di cui s’è detto, sia all’origine dell’impasse in cui tali ricerche cadono ogniqualvolta cercano di simulare, «tramite modelli matematici dei singoli neuroni e delle loro sinapsi», il cervello umano precedentemente scansionato, per poi accoppiare «tali simulazioni a un corpo fisico (robotico) e a un ambiente simulato»[23].

Infine, sarebbe interessante – e nemmeno tanto difficile – decodificare la presenza di un non superato disagio nei confronti dei limiti del “vecchio corpo”, con la sua caduca intelligenza incarnata, in riflessioni che, incrociando e rilanciando in direzione avveniristica alcune tematiche dell’I.A., immaginano «un aggiornamento radicale dei sistemi fisici e mentali dei nostri corpi» teso a far sì che le nostre macchine diventino «molto più simili a noi» e noi «molto più simili alle nostre macchine»[24].

Si tratta evidentemente di approcci molto diversi tra loro, tutti caratterizzati da risvolti scientifici molto complessi e da inevitabili rimandi a problemi etici, le cui soluzioni, va da sé, non sono facili né a portata di mano. Tuttavia – e proprio a causa dell’estrema complessità dei problemi in gioco – potrebbe non essere fuori luogo provare ad accompagnare i tanti dibattiti che ne scaturiscono sia con la ricognizione delle stratificazioni concettuali presenti nelle nostre pratiche – linguistiche e non – sia con la considerazione che ho cercato di far emergere dalla breve indagine intorno all’aggettivo “artificiale”. Insomma, si potrebbe provare a tener ferma la premessa teoretica che, quali modi diversi di articolazione dell’artificialità, le intelligenze umane manufatte dei corpi protesici e quelle dei corpi macchinici sono radicalmente diverse tra loro ed equiparabili solo entro certi limiti; come a dire che le menti umane e quelle dei circuiti elettronici «offrono risorse radicalmente differenti», non solo in termini di velocità, ma in quanto codificano, organizzano, memorizzano, scambiano le “informazioni” in modo «totalmente diverso»[25].

Così, riprendendo un’antica distinzione filosofica, più che nei termini di una composizione matematica tra entità omogenee, la relazione tra l’intelligenza umana e quella macchinica, andrebbe declinata piuttosto quale nesso dinamico tra modalità eterogenee[26].

È un’affermazione questa che non ha nulla della resa a una sacralizzazione oscurantista di confini invalicabili. Al contrario, dato che l’acquisizione di trovarsi al cospetto di due – o più – differenti modalità di artificialità, sottraendo le menti umane all’auto-narrazione sostanzialistica implicita in una certa – e malintesa – idea di naturalità, sgrava la specificità della loro «materialità connessa» da qualsivoglia istanza di superiorità, restituendole più disponibili a una reale condivisione di spazi e tempi con le altre intelligenze; condivisione che – si badi bene – è tanto più urgente in quest’“oggi” in cui siamo continuamente posti di fronte a strumenti che, differentemente dagli utensili classici, «non sono attivi solo nel momento dell’interazione ma agiscono retroattivamente anche quando la persona smette di interrogarli»[27].

Sono considerazioni preliminari, non c'è dubbio, ma tenerle presenti non costa nulla, soprattutto se si vuol far sì che l’intreccio delle diverse artificialità che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi riesca a imboccare «percorsi al fine di superare problemi comuni»[28].


[1] A. Fabris, Etica delle nuove tecnologie, Scholé, Brescia 20212, p. 6.

[2] Cfr. in proposito, J.R. Searle, Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale (1980), tr. it. CLUP, Milano 1984.

[3] A proposito del cervello e delle capacità di visione di una rana, cfr. S. Angeletti, Il cervello nelle mani. La neurobiologia dalla cellula al robot, Longanesi, Milano 1995, pp. 29 sgg.

[4] D.W. Hillis, Vicini alla singolarità, in J. Brockman, La terza cultura. Oltre la rivoluzione scientifica (1995), tr. it. Garzanti, Milano 1999, p. 372.

[5] P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Liguori, Napoli 20002, p. 60.

[6] J.L. Arsuaga, I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal (1999), tr. it. Feltrinelli, Milano 2001, p. 27.

[7] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. Tecniche e linguaggio (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 33.

[8] A. Leroi-Gourhan, Le radici del mondo. Dalla ricerca preistorica uno sguardo sulla totalità dell’uomo (1982), tr. it. Jaca Book, Milano 1986, p. 83.

[9] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. La memoria e i ritmi, cit., p. 330.

[10] J.-P. Warnier, La cultura materiale (1999), tr. it. Meltemi, Roma 2005, p. 27.

[11] A. Pascual-Leone, A. Amedi, F. Fregni, L.B. Merabet, The plastic human brain cortex, in «Annual Review of Neuroscience», 28, 2005, pp. 377- 401.

[12] S. Angeletti, op. cit., p. 42. Cfr. inoltre N. Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello (2007), tr. it. Ponte alle Grazie, Milano 2014. Il neuropsichiatra racconta, tra le altre, la vicenda di Michael Bernstein, il quale, vittima di un ictus all’età di 54 anni che gli lasciò la mano sinistra menomata, recuperò nel giro di qualche settimana quasi tutti i movimenti grazie a un programma di terapia sperimentale che lo costringeva a ripetere in maniera massiccia azioni molto semplici. Le azioni ripetute, infatti, erano un mezzo per “convincere” i suoi neuroni e le sue sinapsi a formare nuovi circuiti che avrebbero rilevato le funzioni un tempo svolte dai circuiti collocati nell’area danneggiata del cervello.

[13] Citando Heinz von Foerster, è K. Kelly a ricordarcelo in Out of control: la nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell’economia (1992), tr. it. Apogeo, Milano 1996, p. 49.

[14] N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello (2010), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 51 ss.

[15] È la tesi sostenuta da L. Floridi in Agere sine intelligere. L’intelligenza artificiale come nuova forma di agire e i suoi problemi etici, in L. Floridi, F. Cabitza, L’intelligenza artificiale. L’uso delle nuove macchine, Bompiani, Milano 2021, pp. 115-181.

[16] L. Floridi, op. cit., p. 158.

[17] N. Carr, op. cit., p. 40.

[18] N. Doidge, op. cit., p. 8.

[19] N. Deisori, Etica e Intelligenza Artificiale. Conversazione con il professor Edmondo Grassi, https://www.centrostudi-italiacanada.it., novembre 2021.

[20] M.A. Boden, L’intelligenza artificiale (2016), tr. it. il Mulino, Bologna 2019, p. 131.

[21] F. Cabitza, Deus in machina? L’uso umano delle nuove macchine tra dipendenza e responsabilità, in L. Floridi, F. Cabitza, op. cit., p. 38.

[22] Ibid., p. 30. Il testo citato dall’autore è E. Rich, K. Knight, Intelligenza artificiale (1991), tr. it. McGraw Hill, Milano 1992.

[23] S. Parra, M. Torrens, Intelligenza artificiale. La strada verso la superintelligenza, RBA, Milano 2018, pp. 32-33. Cfr. inoltre, in proposito, AA.VV., Macchine che pensano. La nuova èra dell'intelligenza artificiale (2017), tr. it. Dedalo, Bari 2018, in particolare pp. 64 sgg.

[24] R. Kurzweil, La singolarità è vicina (2008), tr. it. Apogeo, Santarcangelo di Romagna 2014, p. 297. Su tali questioni, mi permetto di rinviare a M.T. Catena, Breve storia del corpo, Mimesis, Milano 2020, pp. 165-175.

[25] J. Bailey, Il postpensiero: la sfida del computer all’intelligenza umana (1996), tr. it. Garzanti, Milano 1998, p. 23.

[26] I. Kant, Critica della ragion pura (A 1781, B 1787), tr. it. Laterza, Roma-Bari 19853, p. 179.

[27] N. Deisori, op. cit.

[28] P.K. Dick, L’androide e l’umano, in Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari (1972), tr. it. Feltrinelli, Milano 1997, p. 225.

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