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Pensiero e strategia. Su di alcuni legami tra teoria e azione politica al tempo del covid-19

Autore


Mario Cosenza

Università degli Studi di Napoli "Federico II"

Indice


  1. Nota pandemico-filosofica
  2. Pensare globale, agire locale
  3. Covid-19. Un ingranaggio nelle maglie della riproduzione sociale
  4. Le parole dis-azionate?

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S&F_n. 25_2021

Abstract


Thought and Strategy. On some Links between Theory and political Action in the Time of covid-19.

This article aims to illustrate some potential approaches to the social crisis due to the pandemic: through highlighting some “basic” differences between the philosophical thought and the ambition of the political strategy, it analyses the theoretical prerequisites of a purely political program as the one that has been advocated in France by a theorist and a politician such as Jean-Luc Mélenchon. It is likely that it will be noticed that the two approaches – the long range reflection and the political strategy- are neither equal by themselves nor forcedly opposite, neither in contradiction nor necessarily incompatible, neither impossible to be put together nor actually really in a dialogue.

  1. Nota pandemico-filosofica

Breve avvertenza introduttiva. La crisi pandemica in corso non ha mostrato solo le fragilità evidenti o nascoste di una società fondata su catene di valore e scambio ampie e allo stesso tempo immensamente fragili: ha anche messo alle corde il pensiero teorico stesso. La crisi da Covid-19 è anche la crisi delle capacità del pensiero di interrogarsi “in diretta” sulle cose del mondo. Il volo della nottola di Minerva è continuamente rimandato; il pensiero si strugge, e, aspettando i notiziari, è costretto a smentirsi due volte al giorno. Lo sviluppo dell’articolo in corso si vuole, in questo, integralmente fallibile e necessariamente sottoposto allo stress-test del futuro.

Un così radicale mutamento delle più radicate abitudini di vita delle società occidentali ha scatenato un effluvio di scritti filosofici, di differente taglio ed estremamente diversificati tra loro[1]. Un dibattito per fortuna ampio e articolato.

Oltre al riconoscimento della complessità dell’evento Covid-19, tratto diffuso delle varie interpretazioni è stato l’evidenziare anche il prepotente ritorno in scena della fragilità del vivente: non solo quella dei sistemi al collasso bensì di una debolezza trascendentale e costitutiva. Quando non travolti (o anestetizzati) dal flusso informativo, ci si è ricordati di essere animali deboli – ossia tutto ciò che doveva essere celato dal tardo Capitalismo realizzato.

Ciò detto, nel presente contributo interessa più da vicino il dibattito propriamente filosofico-politico. Si dica subito come tale filone di pensiero e di studi non abbia rinunciato, contro ogni frantumazione arbitraria tra teoria e pratica, a dire la propria sulle forme di controllo e gestione emergenziale imposte dalle politiche governative[2]. L’impostazione biopolitica, anche quando estremamente critica riguardo lo strutturarsi delle reazioni “governative” di fronte all’evento pandemico, non poteva non porsi alla guida di una riflessione, anche ambiziosa, sulle articolazioni schiettamente politico-giuridiche delle torsioni descritte: un evento socialmente epocale come l’emergere di modalità inusitate di rapporto tra potere e corpi era evidentemente destinato a essere oggetto di serrato confronto tra forme di (bio)potere costituito e pensiero teorico.

In sintesi, molti filosofi si sono ben resi conto che non era possibile parlare del mondo del virus senza parlare del mondo politico in cui il virus ha preso piede – a meno di non voler fare dell’escatologia. La politica affiora all’improvviso, allora, e finanche i contributi teorici meno politici si fanno politici.

Filosofia o politica, si tratta sempre di dare un senso prospettico alle “cose” del mondo e di ordinarlo per i propri fini.

 

  1. Pensare globale, agire locale

Anche i “politici di professione” interessati a un’istanza manifestamente politica – da intendersi, in maniera che si vuole il più possibile “neutrale” e specifica, come proposta di governo di problemi sociali, da vagliare elettoralmente e misurare tramite relativa ricaduta parlamentare – non potevano restare insensibili riguardo la direzione e la tenuta delle società al tempo del Covid-19. In questo senso, dal marzo 2020, non sono mancati gli interventi teorici da parte di esponenti politici della scena europea.

Ma al contrario di un contributo filosofico, un’interrogazione teorica (“destituente” o “costituente” che sia) non può costituire l’unico momento di una riflessione politica, esattamente perché non di solo pensiero si nutre l’agone politico[3]. Senza una proposta di prassi e una relativa tendenza governamentale, l’indagine politica resta – nei casi più articolati – un’importante testimonianza teorica ma un assai parziale contributo al conseguimento d’un obiettivo immediato.

Da questo punto di vista, è allora non privo d’interesse Covid-19: l’engranage[4], scritto di Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise, movimento/partito (la definizione è sul punto complessa) francese[5]. La FI è, da un punto di vista genetico, erede del Front de Gauche, ma il suo posizionamento resta legato all’idea che la politica viva un’epoca di indebolimento delle categorie fondamentali della democrazia liberale; ciò permette di collegare senz’altro la FI al “momento populista” teorizzato da Ernesto Laclau, e dunque svincolarla da una caratterizzazione destra/sinistra troppo classicheggiante, rifiutata da Mélenchon stesso[6].

A ogni modo, non è però questo il luogo per identificare la questione del populismo politico[7]. Piuttosto qui ci si propone di investigare il breve testo redatto da Mélenchon durante la prima fase apicale della pandemia da Covid-19, e cercare di mostrare in che modo esso si articoli da un punto di vista dell’analisi del contesto e della proposta politica. Covid-19: l’engranage[8] pone un’analisi del fenomeno pandemico visibile, dalla riflessione scientifica (divulgativa: il testo resta un documento d’informazione tra militanti) alla contingenza sociale; il dettato precipita poi in una riaffermazione della proposta politica della France Insoumise. Si sottolinei come l’analisi della speculazione teorica di Mélenchon – connessa immediatamente al programma L’avenir en commun[9] con il quale egli si è presentato nel 2017 e si presenterà nel 2022 alle elezioni presidenziali francesi – si presta particolarmente bene al tentativo di far dialogare “programmazione” politica e approccio teorico “puro” in quanto egli stesso si considera sia un primus inter pares tra i militanti del suo movimento sia un teorico a più ampio raggio[10].

 

  1. Covid-19. Un ingranaggio nelle maglie della riproduzione sociale

Una prima distanza operativa tra contributo a orientamento strategico e riflessione filosofica è segnata fin dall’esordio stesso dello scritto: al contrario di uno scritto che vuole spingere a una lotta sociale, una proposta teorica non dev’essere per forza ricondotto a una scelta tra alternative elettorali o al tentativo di creare coscienze mobilitanti.

La differenza radicale tra i due approcci resta, quindi, la volontà di «repolitiser le moment»[11], seppur preservando lo spazio per un’analisi continuativa del reale: in questo senso, la prospettiva teorica, nel contesto orientato di una strategia politica, non è negata, ma serve, in ogni caso, a tenere in piedi lo spazio per una contesa sociale; sennò, semplicemente, non è.

Andando oltre la differenze tra contributi, ci sono poi punti in comune, ad esempio i “tempi lunghi” con cui pensare ciò che avviene: «La première leçon à retenir c’est qu’il s’agit d’un processus de longue durée. Ses effets ne se manifesteront pas dans tous les domaines au même rythme de la même façon»[12].

Si tratta di ricostruire allora una genealogia della pandemia, non obliando il momento biologico né dimenticando mai la diffusione politicamente orientata della diffusione del virus.

Violenza della diffusione, sua estensione, durata inusitata di una crisi ancora in corso di aggiornamento: tutto concorre a mostrare come, nella vita associata, non possa esistere un «temps suspendu» – ossia un momento im-politico durante il quale la realtà della lotta sociale aspetti. L’analisi deve concorrere a mostrare, allora, come l’evento pandemico si muova lungo le linee già tracciate dalle modalità di produzione dell’esistente, tra le abitudini del vivere e le scelte della politica, così toccando ogni sfera dell’organizzazione sociale.

Pour étudier la trajectoire de cette contamination j’ai utilisé les outils proposés par “la théorie de l’ère du peuple” et la méthode du matérialisme historique. Puis j’ai traité des formes d’entrée de notre action de militants politiques dans ce contexte à la lumière du deuxième volet de cette théorie, celle de “la révolution citoyenne” et de son moteur essentiel, la revendication populaire spontanée d’auto-contrôle[13].

 

Da subito dunque si mostra la cassetta degli attrezzi scelta da Mélenchon: “materialismo storico” e “momento populista”, con il tutto che precipiti verso le richieste immediate cui il pensiero deve accedere per farsi politica.

Il lemma engranage è una pista decisiva per seguire l’analisi. Il Covid-19, ingranaggio nella macchina di riproduzione, mostra, per Mélenchon, la distorsione di un sistema intrinsecamente irrazionale – oltre che, per lui, ingiusto. Chi non ricorda Charlie Chaplin in Modern Times, risucchiato all’interno della gigantesca catena di montaggio? Ecco, - sembra dire Mélenchon – il virus si è così infilato tra le maglie delle enormi catene del sistema-mondo[14].

Bisogna rendersi conto in primis che non esiste qualcosa come un tempo sospeso, poiché, anche nel momento iniziale del primo lockdown europeo di marzo 2020, solo alcune categorie di agenti sociali non primariamente intaccati dalle restrizioni hanno potuto sperimentare una sensazione di “galleggiamento” a-temporale. Al contrario, la riproduzione sociale e i flussi di merci hanno, sì, subito alcuni rallentamenti, ma senza mai arrivare a un reale arresto, intrinsecamente impossibile con la data organizzazione sociale del lavoro e della sua divisione globale – pena il collasso. Tale ragionamento, nel testo, si lega alla tesi centrale che tiene in piedi la proposta teorica di Mélenchon, ossia quella de «l’ère du peuple», esposta anche in opere precedenti, meno legate a contingenze particolari[15].

Secondo il nucleo di tale tesi, il parametro fondamentale per inquadrare la contemporaneità è l’aumento della popolazione mondiale a sette miliardi di abitanti. «Dans cette approche le pullulement humain doit se lire comme un fait écologique affectant la biodiversité globale dont il ne cesse jamais d’être une composante. Ce que l’on nomme l’Anthropocène»[16].

E nell’ottica di questa crescita – legata secondo Mélenchon a una forma privilegiata di riproduzione economica, ossia l’economia dei flussi che rimpiazza quella degli «stocks», e si fa dominio del valore di scambio – che l’evoluzione antropologica converge verso la creazione di un homo urbanus. È logicamente e storicamente ovvio che le concentrazioni umane siano un vettore perfetto di contaminazione, e tutto ciò non può prescindere da una valutazione storica che ricordi come le epidemie siano una sorta di invariante della civilizzazione umana. Il passaggio di virus tra specie – lo spillover – è semplicemente il risultato necessario delle modalità evolutive della civiltà mondiale, il cui primo germe è la convivenza stanziale. Le megalopoli sono il luogo di cultura ideale per una diffusione istantanea di un virus.

Mélenchon si lancia alla ricerca di una storia dei virus, che nella chiave del materialismo storico da lui rivendicata apertamente non può che essere appunto una storia che leghi inscindibilmente produzione e “civilizzazione” – incluse le forme apertamente colonialiste di questa storia. Non è necessario seguire il testo in ogni punto; basti riportare come il politico francese ricordi l’esempio “pandemico” della colonizzazione europea del continente americano, e ciò che questo fenomeno comportò riguardo la distruzione di intere civiltà.

In questo senso, senza discorsi specificamente epidemiologici che a Mélenchon non interessano, «on peut dire que l’épidémie est un fait d’écologie politique»[17] – considerazione meta-storica, perché riguarda le condizioni di produzione di ogni tempo e la vicinanza di habitat umanità/mondo animale, la quale, nell’oggi, trasforma un episodio sanitario locale in una pandemia mondiale.

Chiariamo meglio: nessun alibi al pensiero “complottista” di alcun genere. La crisi sanitaire est un fait biologique[18]. Nessuna volontà maligna di rivoluzionare le condizioni umane tramite una costruzione in laboratorio. Ma allo stesso tempo: «le fait biologique n’a aucune signification par lui même[19]».

Siamo qui al fulcro della breve ricostruzione:

Le capitalisme de notre époque crée les conditions écologiques de l’apparition du virus, puis les conditions sociales de la transmission aux corps des humains et enfin il réunit les conditions économiques des sa propagation à l’ensemble du monde globalisé[20].

 

Tra epidemiologia, sviluppo di “armi, acciaio e malattie”, situazioni abitative, flussi di merci e competizione sfrenata, l’analisi di Mélenchon individua nell’ideologia neoliberista una delle cause profonde di una società dell’egoismo e della stanchezza (la pandemia è senz’altro sindemia, non solo accadimento biologico ma innesto di una catena di crolli – e la depressione è lo sfondo socio-biologico dell’epoca), delle domande simultanee legate tra loro e dei relativi bisogni e stimoli in via di allineamento[21]. Per collegarci a quanto già accennato, allora, non tutti potevano “fermarsi” in quanto fermare questa macchina-mondo fatta di legami simultanei vorrebbe dire far collassare la stessa.

Continuando nel ragionamento, però, si evidenzia come questa tendenza all’allineamento globale delle modalità generali del consumo coesista con la differente capacità da parte dei vari gruppi di questa umanità “consumatrice e a una dimensione” di essere rappresentata sullo scenario politico-sociale, come evidenziano le monumentali forbici di reddito, di aspettative di vita, di accesso ai servizi essenziali tra le diverse fasce della popolazione, così come la demarcazione netta tra i luoghi frequentati e abitati anche all’interno delle stesse megalopoli, oltre che fuori – l’analisi della frammentazione e della polarizzazione centro-periferia è uno dei fulcri dell’analisi del momento populista. Allineamento ed esclusione: tale è la dialettica infinita e irrisolta delle società contemporanea[22].

Il Covid-19 è il frammento che corrode l’ingranaggio, che brucia i circuiti, che si inserisce nelle maglie di un sistema diffuso, estremamente fragile, nel quale i singoli luoghi geografici hanno reso sistematicamente impossibile la propria sussistenza autonoma – e qui non può non entrare in gioco un ragionamento intorno al concetto stesso di limite, limes e sovranità degli e negli spazi[23]. Emergono questioni di frontiere: non solo tra saperi e nei saperi, non solo come limiti del pensato e del pensabile, i confini sono invece quelli storico-geografici rispetto ai quali il virus non ha nessuna remora a invadere prontamente lo spazio – e non c’è recinto che tenga. Il virus distrugge ogni preteso “sovranismo”, distrugge l’idea di auto-sussistenza di organismi sovrani rispetto all’apertura generalizzata? O, al contrario, è forse il progressivo indebolirsi della capacità regolativa degli Stati depauperati di sovranità ad aver distrutto le strutture sociali capaci di resistere alla pressione degli eventi? Opinioni opposte si fronteggiano nell’agorà e non è qui necessario parteggiare, purché si dica della sostanziale irricevibilità della proposta di piatte similitudini tra misure organizzative delle frontiere e il funzionamento complessivo dell’evento sanitario Covid-19.

Una prima sintesi: per Mélenchon il virus è natura che “si fa cultura” in maniera immediata e pressoché irredimibile. Esso mostra plasticamente l’interrelazione tra catene d’interdipendenza di flussi e catene equivalenziali tra lotte, tra catene che opprimono – echi rousseauviani – e catene “slegate”, ossia sensi unitari che la fioca ragione post-moderna non si sembra più essere in grado di rintracciare.

Tutto ciò abbraccia le crisi alimentari e – di tutt’altro segno e dignità – gli appetiti geopolitici e i loro relativi equilibri.

Fondamentale è il tema del debito, monolite economico-teologico[24] che opprime il dibattito pubblico, certo, ma anche “debito con la terra” contratto da un’ipotetica umanità (o meglio, secondo Mélenchon, dai settori dominanti della stessa): in tal senso, le convivenze sono difficili non solo nelle abitazioni tra individui costretti al lockdown, ma tra l’intero apparato industriale-produttivo delle società del Capitalismo realizzato e il resto del non-umano.

Ora, politicamente, secondo Mélenchon le conseguenze sono chiare:

il n’existe pas d’humanité qui accepte un sort pitoyable sans essayer d’en sortir. À de tels niveaux, la résignation change de nature. Les pauvres, les anéantis sont obligés d’auto-organiser des communautés parallèles pour se nourrir, pour s’occuper des petits et des anciens, pour les activités fondamentales de l’existence humaine[25].

 

Il sistema dominante non è fatto per funzionare in decrescita o in retromarcia. Accadrà qualcosa:

Ce sera nécessairement un évènement politique. Alors le mot “crise” ne conviendra plus. Il s’agira d’un phénomène bien plus ample: une bifurcation de la trajectoire de l’histoire globale des humains. La question est: dans quelle direction se fera cette bifurcation? C’est l’enjeu de notre engagement politique[26].

 

Siamo oggi forse vicinissimi all’apparizione di un evento politico, ossia di una concatenazione di cause ed effetti storici e produttivi che daranno il là all’apparizione del nuovo, una realtà tutta da interpretare, con nuovi rapporti di forza, nuovi schieramenti e nuovi orizzonti programmatici?

Lo si vedrà solo retrospettivamente. Per ora si deve notare che questa precipitosa accelerazione si svolge in uno spazio sociale e geografico. Il fulcro della proposta teorica dell’ère du peuple di Mélenchon è che gli agenti sociali (che noi siamo) hanno bisogno di accedere alle risorse collettive per riprodurre la propria esistenza materiale. Le varie risorse logistiche che trasmettono i flussi di merci non sono contemporaneamente produttrici dei beni che assemblano o trasmettono. Un’interruzione del flusso di merci di fatto azzera il valore delle risorse intermedie, costrette a figurare da luoghi “vuoti”, senza significazione né ruolo proprio.

Una tale mancanza di senso delle strutture intermedie della società – resa evidente dall’immediata inutilità delle stesse in mancanza di merci – scatena, nel dettato di Mélenchon,

la volonté de reprendre “le contrôle de la situation”. […] De telles révolutions se déclenchent à la faveur d’un “évènement fortuit” et commencent par une “phase destituante” contre toute autorité considérée comme responsable de la situation. De telles révolutions sont dites citoyennes parce qu’elles ont comme méthode et comme objectif le contrôle collectif du pouvoir sans autre programme idéologique. Ce sont des révolutions “d’intérêt général” pour la défense de “bien communs”[27].

 

Quindi, in un certo senso, l’evento è evidente: «l’événement fortuit nous le connaissons et nous voyons son effet: c’est le Covid-19. Nous sommes dans la phase instituante où le peuple se sent obligé d’être acteur de la situation»[28].

Ma – evento o non evento, non è necessariamente questo “il” problema – dov’è la biforcazione tra la funzione di ricezione e interpretazione della realtà – della costruzione del mosaico teorico – e la funzione del politico (e del Politico) nella fondazione di un discorso mobilitante e comune che tenti di abbattere il recinto neoliberale?

Mais la fonction des intellectuels et la nôtre n’est pas la même. Si nous ne sommes pas capables d’entrer dans le domaine de l’action, nous ne servons à rien. Le dirigeant politique qui se limiterait à faire de la paraphrase de l’intellectuel le fera toujours mal et ne servirait à rien[29].

 

Come anticipato ma ora completamente dispiegato, la differenza passa per la riattivazione dei circuiti elettrici dello spazio politico. La politicizzazione dello spazio del sapere tecnocratico considerato neutrale.

«La première chose que nous avons voulu faire c’est de réactiver l’espace politique. Le danger suprême c’était sa disparition. Il ne resterait que le gouvernement, le président habillé en “père de la nation”, “général en chef” en conversation avec les seuls experts»[30]. Senza questa riattivazione, l’unica alternativa sarà la torsione autoritaria dell’uomo solo al comando – ovviamente Mélenchon ha in mente il sistema francese, ma i termini generali della questione possono essere applicati altrove. Ri-dare fiato alla politica significa mostrare l’impostura di un’impossibile neutralità.

È chiaro allora che, nel suo testo, in un contesto teorico sempre a orizzonte strategico – per rispondere alla domanda sul senso di una progressiva differenziazione tra ruolo intellettuale e ruolo della politica – le parole hanno un senso tutto diverso: una cosa è mobilitare, un’altra è riflettere senza dover convincere.

Il concetto che si fa parola mobilitante in un’ottica di comunicazione politica ha un senso, in definitiva, se viene impiegato e piegato verso degli obiettivi concreti:

Donc on ne va pas abandonner le mot. L’enjeu sémantique prend un lourd contenu philosophique. Ce type d’enjeux philosophiques concentrent la politique. En tant qu’acte de pensée globale sur la société par le citoyen n’est-ce pas le moment où il décide de choisir ce qu’il croit juste et bon pour tous? Quel type de hiérarchie des normes veut-on ? Et donc quelle société veut-on? Je me réclame du collectivisme[31].

 

Ecco il punto: la parola (qualsiasi) a carica politica va impiegata indicando tipologie di atti e regole che si vogliono mettere in campo, non “in se stessa”. La strategia è allora quella di riattivare “suoni politici” nelle parole abbandonate alla tecnica – magari utilizzando lemmi dalla significazione storica evocativa; o anche, parallelamente a questa riattivazione, mostrare la visione generale della società che si ha in mente – la politica non è forse lo sguardo ampio rispetto al particolare? – sempre mostrandone i precipitati tramite proposte strategiche. La differenza è qui chiara: il programma non può essere solo ideale; il programma è politico in quanto concreto[32].

Insomma, il politico “pensante” deve tenere insieme sia l’arduo compito del destituire l’ordine esistente sia quello di creare legami tra istanze disarticolate, così scuotendo le coscienze sulla possibilità di cambiare l’insopportabile presente e sulla necessità della rivoluzione cittadina (come la chiama Mélenchon, sempre pienamente nell’alveo di un parlamentarismo, per quanto radicale); alla politica così rigenerata poi spetta il Costituente[33].

«Une nouvelle fois, il ne faut compter que sur les dynamiques de la société. C’est-à-dire sur l’énergie du compte à rebours vers “qu’ils s’en aillent tous”, la phase destituante de la révolution citoyenne. C’est à ce prix qu’adviendra la phase “Constituante”, la véritable ouverture sur le vrai monde d’après[34]».

Di fatto, sommando ogni posizione e articolazione del dettato del testo in questione – che va ricordato, è concepito per servire da sintesi di agile fruizione – emerge un pensiero della strategia che cerca di farsi sistema orientato all’azione. Solo così la politica può proporsi di parlare di complessità, anche nella radicalità delle soluzioni.

Per Mélenchon, la crisi di un approccio complesso all’esistere (e al sussistere) della società ha ricadute e interpretazioni politiche, perché è dalla “fuga dal complesso” che nascono le aberrazioni dogmatiche, non solo quelle cosiddette “sovraniste-populiste” ma anche quella della governamentalità neoliberista, da cui le prime sarebbero derivate come reflusso necessario causato dell’austerità della “proposta” politica – oltre che dell’austerità propriamente detta.

La priorità – non temporale ma nel ruolo di guida – va sempre alla dinamica politica, Mélenchon ne è certo:

Quand on en sera à la crise politique, tous les autres compartiments seront dominés par elle. Evidemment ce sera aussi un moment de réorganisation géopolitique du monde globalisé, où l’on verra la hiérarchie des puissances être remise en cause. Le sujet dominant sera “comment et qui peut nous sortir de là ?”. Alors reviendra la question essentielle pour les sociétés humaines: quelles règles s’imposent à tous et qui en garantira l’exécution? Au total, il s’agit de mettre en œuvre une stratégie de révolution citoyenne adaptée aux circonstances particulières de ce moment particulier. Un moment de grande opportunité pour changer en profondeur le monde dans lequel nous vivons[35].

Un’opera a tratti immane ai tempi della post-democrazia, a caratteri oggettivamente radicali nello spazio pubblico logorato dell’oggi: mostrare come il realismo capitalista non sia la sfera sola e necessaria del vivente.

  1. Parole dis-azionate?

In tal senso, per tornare a ragionare “nei dintorni” dell’evento Covid e concludere facendo dialogare proposta filosofica contemporanea e progetto politico, si potrebbero far risuonare alcune identità tra strategia mobilitante e filosofica schiettamente immanente; una delle più “terribili” potrebbe essere che il virus non debba “insegnare” assolutamente nulla, e che sia un mero “fatto di natura” dietro al quale non si nasconda nessuna redenzione da accogliere, bensì, al massimo, una “riorganizzazione” da proporre.

Ma una volta arginate le tentazioni antropocentriche del “virus che insegna”, però, sia la filosofia sia il pensiero produttivo di strategie avrebbero davanti a loro stessi alcuni sentieri (selvaggi) da esplorare: forse proprio qui si può tentare di suggerire una chiave di lettura degli approcci complessivi di questi mesi. All’opera, nella strategia come nella riflessione, sembra essersi rivelato un tentativo di Soggettivazione per contrasto. Tramite l’umanizzazione del naturale – il virus che punisce, il virus che insegna, il virus che niente sarà come prima, il virus che andrà tutto bene – si starebbe forse cercando una stella polare che fosse in grado di offrire risposte “alte” ai singoli ma anche capace di mostrare possibilità nuove per un’organizzazione tutta ancora da fare.

In un’epoca di silenzi aberranti, l’idea che qualcosa ci coinvolga direttamente come soggetti sembra essere quasi rassicurante[36].

Tra il silenzio, lo scoramento e le visioni distopico-incendiarie alla Mad Max, nel campo della pura teoresi è forse difficile scorgere dei raggi che squarcino le nubi dell’oggi.

La filosofia si scopre insomma variegata, forte e debole insieme: è forse una novità? Eppure essa, oggi, ha ancora il suo bel da fare. Potrebbe ad esempio rendersi “utile” anche solo “pressando” il pensiero sociale e politico affinché la critica al dominio tenga insieme ambiti visti prima come indipendenti, autonomi e tanto più autoritari in quanto si suppongono come auto-sussistenti. Politica-scienza-filosofia.

Se questo compito venisse ascolto, la filosofia potrebbe e dovrebbe almeno contribuire a pensare il rapporto sbilanciato stabilito con l’ambiente “naturale”; a concepire come le proteste e le domande di senso politiche siano intimamente collegate all’impostazione data a tale rapporto, il cui peso, nelle storture nell’emergenze come nel “banale”, è gettato sulle spalle di alcuni e non di altri. Una filosofia degna pensa al complesso senza rinunciare a vedere il contingente; concilia tattica e strategia del pensiero, analisi cronachistica e speranze (negate o urlate) del poi. E, soprattutto, denuncia il falso “naturale”, il falso “logico”; il falso “non c’è alternativa”.

In questo senso, anche la diversità innegabile tra pensiero e pratica politica sarebbe assorbita da un grado di senso e complessità ben maggiore.

Se la pandemia ha mostrato un carattere apocalittico (nel senso di rivelatore), la rivelazione è stata multi-focale e ha intrecciato riflessioni e piani di senso esattamente come nella crisi da Covid-19 s’intrecciano motivi biologici e economici, urbanistici e storici: l’interdipendenza come regola del pensiero, cioè il contrario dell’amministrazione burocratica dell’esistente. La complessità come habitus cognitivo e culturale, allora, perché in fondo – i vari filosofi ci sembrano dire – solo la complessità può salvare la democrazia, se riesce a salvare dalla polarizzazione e dal minimalismo del pensiero, dalla tecnocrazia che tutto appiana così come dal dispotismo di ritorno.

Una crisi può mostrare sia un carattere regressivo – un recupero conservativo di un passato sociale o antropologico forse neanche mai esistito – sia uno propulsivo, a patto però di sciogliere l’empasse della lancinante e paralizzante morsa di in-azione e a-pensiero, e liberare dalla asfissiante scelta tra desiderio di libertà vs sicurezza (e/o securitarismo), tra voglia di società vs distanziamento sociale.

La filosofia può essere il contrario dell’azione – farsi parola dis-azionata – solo se fa male il suo lavoro: al contrario, quando è degna, può essere l’other side of the moon della radicalità pratica.

Insomma: nella filosofia degna, le questioni dell’oggi tornano tutte, con la differenza – rispetto a una proposta politica e istituzionale – che, forse, in quest’ambito non si chiede un voto, e ci si può astenere dallo scegliere tra “meno peggio”. Una forma di speranza, senza negare il dolore: ottimismo della volontà, pessimismo della ragione reloaded.


[1] Si citano qui alcune delle opere consultate: inutile specificare che tale elenco non è in minimamente esaustivo della produzione filosofica ai tempi del Covid-19. G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, 2020; D. Di Cesare, Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Torino, 2020; B.C. Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Torino, 2021; S. Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Firenze, 2020. Molto densi e interessanti i numeri di alcune riviste, tra cui: «Micromega», 8, 2020, dedicato a Biopolitica: inganno o chiave di volta?, così come il primo numero della nuova rivista «La Fionda», 1, 2021, dal titolo Nulla sarà più come prima? Gli scenari della post emergenza: Italia, Europa, Mondo.

[2] Sul tema, il dibattito, in certi punti, sembra oscillare tra due estremi, schiettamente politicizzati: semplificando, lo scontro sembra tra un’ipotetica linea Agamben e un’ipotetica schiera Badiou, per il quale la risposta politica al virus non è una volontà di consolidare alcunché in chiave autoritario/totalitaria.

[3] Si intende qui un senso molto ampio di teoria e pratica. Almeno nel contesto di questo articolo, teoria è una visione generale prospettica che non debba per forza mobilitare; pratica è il tentativo di articolare le istanze perché esse convincano ad agire, a votare o a militare.

[4] Covid-19: l’engranage è facilmente reperibile online al link https://melenchon.fr/covid-19-lengrenage-brochure-numerique/. Si citeranno le pagine dell’edizione PDF disponibile al succitato link.

[5] Sintesi: La France insoumise è fondata il 10 febbraio 2016 per sostenere la campagna di Jean-Luc Mélenchon. Alle elezioni presidenziali del 2017, al primo turno, Mélenchon ha messo insieme il 19,58 % dei voti espressi (4° tra i candidati, tutti molto vicini tra loro), un risultato molto importante numericamente ma che non è bastato per giungere al secondo turno. È ora il partito più agguerrito nell’opposizione a Emmanuel Macron, con 17 deputati presenti all’Assemblée Nationale.

[6] Ciò non toglie che la France Insoumise sia, nel racconto mediatico così come nel vissuto di molti militanti (ma è la stessa storia politica di Mélenchon a contribuire a ciò), posta all’estrema sinistra dello scacchiere politico.

[7] Per una possibile introduzione al fenomeno populista contemporaneo si veda almeno – oltre agli scritti di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe – P. Maffettone, Populismo e filosofia politica, Napoli, 2020.

[8] Covid-19: l’engranage è facilmente reperibile online al link https://melenchon.fr/covid-19-lengrenage-brochure-numerique/. Si citeranno le pagine dell’edizione PDF disponibile al succitato link.

[9] Reperibile al seguente link: https://laec.fr/.

[10] Rapporto tra base e vertice/figura carismatica assai complesso in ogni movimento politico contemporaneo e in particolare in quelli figli dell’ondata “populista”.

[11] J.-L. Mélenchon, Covid-19: l’engranage, 2020, p. 3.

[12] Ibid., p. 4.

[13] Ibid., p. 8.

[14] Parlare di sistema-mondo contribuisce a ricordare che l’Occidente è uno dei possibili luoghi da cui questa interrogazione s’infonde di significazione (in ogni caso, quello scelto nel presente articolo), ma non il luogo destinale “chiuso” delle premesse o delle conseguenze della crisi: le catene di valore del sistema-mondo non permettono di compiere serie analisi che dividano tra intra ed extra moenia occidentali.

[15] Si veda almeno J.-L. Mélenchon, L’ère du peuple, Paris, 2014.

[16] Id., Covid-19: l’engranage, cit., p. 10.

[17] Ibid., p. 13.

[18] Ibid., p. 15.

[19] Ibid.

[20] Ibid.

[21] Si vedano P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista (2009), tr. it. Roma 2013; A. Zhok, Critica della ragione liberale, Milano 2020; B.-C. Han, La società della stanchezza (2010), tr. it. nottetempo, Roma 2012.

[22] L’analisi di Mélenchon non può essere in questa sede seguita tutta e comprende riflessioni pedagogiche (a uso militante) sul sistema del dollaro post-Bretton Woods, sulle politiche petrolifere, sul telaio geopolitico del mondo.

[23] Per una discussione sul tema si rimanda a C. Galli, Sovranità, Bologna, 2019.

[24] Si veda almeno E. Stimilli, Debito e colpa, Roma, 2015.

[25] J. L. Mélenchon, Covid-19: l’engranage, cit., p. 53.

[26] Ibid.

[27] Ibid., p. 54.

[28] Ibid.

[29] Ibid., p. 60.

[30] Ibid.

[31] Ibid., p. 61.

[32] Questo il ruolo de «L’avvenir en commun».

[33] Costituente, parola chiave in Mélenchon. Il leader della FI ha sempre dichiarato che la sua prima mossa se divenisse presidente sarebbe la proclamazione di una nuova Assemblea Costituente per la riscrittura di un nuovo patto sociale e costituzionale che superi quelle che a suo dire sono le distorsioni leaderistiche della Va Repubblica francese.

[34] Ibid., p. 69.

[35] Ibid., pp. 8-9.

[36] Nel ‘700 la discussione non era poi così lontana diversa quando Voltaire e Rousseau discutevano pensando a quale forma e significato “dare” al pensiero dello sconvolgente terremoto di Lisbona.

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