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«È una vergogna vincere la guerra». Le insidie della liberazione in tempo di pandemia

Autore


Valeria Gammella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottore di Ricerca in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. La pelle
  2. Quale salvezza?

 

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S&F_n. 25_2021

Abstract


“It is a shame to win the war”. The pitfalls of liberation in times of pandemic

In The skin by Malaparte the allied army, which came to free Italy from the Nazi-fascists, brings the plague in spite of itself: a strange disease that does not affect the body but the soul, corrupting the very people that Americans had come to save. The plague, according to Malaparte, resides in the same desire to help the vanquished people fraternally, to save them from their miseries. In this way, the author describes the phase that followed liberation in a problematic way, breaking the narrative that promised an era of redemption after the war. In this article, The skin wants to suggest a reflection on the expectations of salvation in the fight against covid that today are placed in medical-scientific progress. In this regard, some of Michel Foucault's reflections on biopolitics are retraced to focus on the origin and implications associated with the mechanisms of safety and care in contemporary societies.

  1. La pelle

«È una vergogna vincere la guerra»[1]. Con questa chiosa paradossale e straniante, Malaparte terminava il suo racconto (metà reportage e metà romanzo) sugli anni della liberazione in Italia. La pelle esce nel 1949, quando la guerra è ormai alle spalle e il Paese rielabora la sua storia recente alla luce della Resistenza, vista come “Secondo Risorgimento” e chiave del suo riscatto morale. La narrazione prevalente tende all’epoca a marginalizzare l’esperienza del regime, presentandola ora come una parentesi, secondo lo schema crociano, ora come una reazione al progressivo e inarrestabile affermarsi del comunismo. Nell’un caso come nell’altro, i traumi del passato vengono retoricamente sanati, i suoi conflitti pacificati, in una dialettica ideologica di espiazione e redenzione dalla colpa del fascismo, secondo una traiettoria storica di progresso e rigenerazione[2]. Malaparte rifiuta risolutamente la pretesa di riordinare il passato recente sotto il segno di una razionalità illuminista[3], affinando per contro una poetica della crudeltà che vuol essere il contraltare polemico di ogni retorica edificante, di quella postbellica come di quella fascista[4]. E se non rinnegherà mai la sua prima adesione al fascismo, di cui aveva condiviso l’ideale dell’“uomo nuovo”, gli scritti degli anni Quaranta segnano la sconfessione del mito rivoluzionario, da qualunque parte sia concepito[5].

Così, mentre la maggior parte dei suoi contemporanei ritrova la fiducia nella storia e nell’Uomo, Malaparte pubblica La pelle. L’opera consegna al lettore il resoconto di una storia senza riscatto, in cui ogni eroismo mostra il suo rovescio derisorio e crudele. Sotto la lente tragica dell’autore, la rigenerazione non passa per la guerra come suprema igiene dei popoli ma per il sacrificio senza redenzione degli innocenti, dei mille Cristi che subiscono la storia. E Cristo, molte volte, assomiglia più a un animale che a un uomo, come suggeriscono le molte scene malapartiane di animali crocefissi, vittime sacrificali del progresso e della sua disumanità rimossa. Così il cane Febo, in cui lo scrittore rivede la parte più intima di se stesso, è ritrovato nella Clinica Veterinaria dell’Università di Pisa, venduto a pochi soldi dai ladri di cani per le esperienze cliniche. Col ventre aperto e nello sguardo «una meravigliosa dolcezza»[6], il cane non emette un gemito: prima d’essere operati, agli animali vengono tagliate le corde vocali. E al pranzo del generale Corck, nello sgomento generale, è offerto un pesce raro dell’Acquario di Napoli, la sirena, che però nessuno ha il coraggio di mangiare perché mostruosamente simile a una bambina, bollita e servita alla tavola dei vincitori[7].

Il rapporto tra vincitori e vinti, tra liberazione e libertà è in effetti uno dei temi conduttori dell’opera. La pelle d’altra parte nasceva, come è noto, col titolo La peste, che l’autore dovette modificare dopo l’uscita del romanzo omonimo di Camus. La peste, nel libro di Malaparte, è lo strano morbo che si diffonde nella città di Napoli all’ingresso dei liberatori. Loro malgrado, gli Alleati portano in Italia un male da cui sono paradossalmente immuni. Così, nonostante non si fossero mai visti in Europa «soldati così disinfettati, senza il più piccolo microbo né fra le pieghe della pelle, né fra le pieghe della coscienza»[8], «tutto ciò che quei magnifici soldati toccavano, subito si corrompeva. Gli infelici abitanti dei paesi liberati, non appena stringevano la mano ai loro liberatori, cominciavano a marcire, a puzzare»[9].

Una forza che li trascende, trasforma i liberatori in untori e in fonte di depravazione. È perché ci sono gli Alleati, infatti, che i mariti vendono le proprie mogli e le donne i bambini. È davanti agli eroi della libertà che gli uomini si fanno carne e le bambine costano meno di un chilo d’agnello sul mercato nero. Così, «mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio, della farina, della carne, del pane, erano saliti, e continuavano ad aumentare, il prezzo della carne umana calava di giorno in giorno»[10], probabilmente perché «i grossisti avevano buttato sul mercato una forte partita di donne siciliane»[11]. Ma in questa distorsione biopolitica delle analisi engelsiane sulla povertà[12], in cui non è la miseria che degrada ma la libertà, in cui gli uomini non sono macchine ma carne e la merce non è il lavoro ma il corpo stesso, anche gli americani vengono inconsapevolmente venduti nel «mercato volante» dei napoletani. Per questo «la carne di un americano nero costa più di quella di un americano bianco»[13], perché se ne compra l’ingenuità, e lui non s’accorge d’essere comprato e rivenduto ogni quarto d’ora dai ragazzi che lo portano di bar in osteria e di osteria in bordello, fino a spogliarlo di tutto. D’altra parte, «il popolo napoletano sarebbe morto di fame già da molti secoli, se ogni tanto non gli capitasse la fortuna di poter comprare e rivendere tutti coloro, italiani o stranieri, che pretendono di sbarcare a Napoli da vincitori e da padroni»[14]. Ed è forse per questo che Malaparte ama, come dice, i napoletani: perché in fondo non credono veramente a nulla – né alla sconfitta, né alla vittoria, né alla libertà. I napoletani sanno che dietro le maschere non c’è niente o, come direbbe Foucault, che il segreto essenziale delle cose è di essere senza essenza[15].

Napoli appare allora come una sorta di relitto del mondo antico, precristiano, su cui la ragione cartesiana non ha presa.

Non potevate scegliere un luogo più pericoloso di Napoli, per sbarcare in Europa. […] Se foste sbarcati in Belgio, in Olanda, in Danimarca, o nella stessa Francia, il vostro spirito scientifico, la vostra tecnica, la vostra immensa ricchezza di mezzi materiali, vi avrebbero forse dato la vittoria non solo sull’esercito tedesco, ma sullo stesso spirito europeo, su quell’altra Europa segreta di cui Napoli è la misteriosa immagine, il nudo spettro. Ma qui, a Napoli, i vostri carri armati, i vostri cannoni, le vostre macchine, fanno sorridere. […] La vostra particolare umanità americana, qui, si rivela scoperta, senza difesa, pericolosamente vulnerabile. Non siete che dei grandi ragazzi, Jack. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli[16].

Per offensivo che possa apparire (come di fatto apparve), il ritratto di una Napoli impermeabile alla razionalità moderna conferisce in realtà una segreta saggezza alla città. D’altronde, il dominio della ragione, agli occhi di Malaparte, non è che un mito, che ha mostrato, negli anni feroci della guerra, la sua inconsistenza[17]. Di qui l’esigenza di infrangere le narrazioni che individuano nel progresso umano la chiave di una salvezza a venire, insistendo sul lato oscuro della pace.

Forse era scritto che la libertà dell’Europa dovesse nascere non dalla liberazione, ma dalla peste. Forse era scritto che, come la liberazione era nata dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, la libertà dovesse nascere dalle sofferenze, nuove e terribili, della peste portata dalla liberazione. La libertà costa caro. […] E non si paga né con l’oro, né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano[18].

La libertà mostra così il suo fondo osceno, che dev’essere coperto dal buon gusto della morale e della retorica. Malaparte sembra qui riallacciarsi a quel filone della cultura contemporanea che, da Sorel a un certo “nietzscheanesimo di sinistra”, riconosce nel conflitto una dimensione strutturale della storia, da cui fa discendere non il valore della sopraffazione ma della resistenza e dell’insurrezione. Così, secondo un tema che ricorre nel Foucault dei primi anni Settanta, la pace si svela come la maschera della conquista, mentre la lotta è pensata anzitutto come lotta di liberazione, capovolgimento dell’oppressione. E la sollevazione è tanto più nobile quanto più è disarmata, come mostra l’apprezzamento foucaultiano per la rivoluzione iraniana[19] e quello di Malaparte per la Napoli che, senz’armi, affronta e mette in fuga i tedeschi, per poi piombare in un abisso di degrado all’arrivo degli Alleati[20]. La rivolta è portatrice di un valore intrinseco, che prescinde dal fatto che, in Foucault come in Malaparte, non esiste liberazione che non sia transitoria, che non rischi poi d’esser catturata in nuove forme di assoggettamento. Così le lusinghe della pace e della libertà sono per Malaparte il cavallo di Troia di nuove specie di corruzione e di asservimento. Finché lottano per non morire, infatti, gli uomini si aggrappano con la forza della disperazione a tutto ciò che costituisce la parte viva, eterna, della vita umana […]: la dignità, la fierezza, la libertà della propria coscienza. Lottano per salvare la propria anima. Ma dopo la liberazione gli uomini avevano dovuto lottare per vivere. È una cosa umiliante, orribile, è una necessità vergognosa, lottare per vivere. Soltanto per vivere. Soltanto per salvare la propria pelle[21].

Di qui l’amaro distacco con cui lo scrittore guarda alla presenza dei liberatori in Italia e all’umanitarismo di cui sono portatori: «La peste era nella loro pietà, nel loro stesso desiderio di aiutare quello sventurato popolo, di alleviare le sue miserie, di soccorrerlo in quella tremenda sciagura. Il morbo era nella loro stessa mano tesa fraternamente a quel popolo vinto»[22].

2. Quale salvezza?

Le cautele di Malaparte rispetto ai benefici della libertà seguita alla liberazione vogliono qui suggerire alcune riflessioni sul tema della salvezza verso cui, comprensibilmente, si indirizzano oggi aspettative crescenti. In un contesto in cui più volte si è impiegata la metafora della guerra per descrivere la lotta contro l’attuale pandemia, e attorno ai progressi della medicina si concentrano attese messianiche, La pelle proietta un’ombra su ciò che seguirà la fine dell’emergenza e sul prezzo della ritrovata libertà. In questo senso, l’opera incrocia alcune riflessioni di Michel Foucault volte a problematizzare i concetti di salvezza, libertà e cura.

Si tratta di temi che, nelle analisi foucaultiane, trovano un’articolazione coerente all’interno del liberalismo, visto come pratica di governo che per la prima volta fa apparire la naturalità della società, prendendo ad oggetto la popolazione non come insieme di soggetti di diritto ma come complesso di individui biologicamente legati alla materialità in cui esistono[23]. In questo senso, il liberalismo rappresenta per Foucault il «quadro generale della biopolitica»[24], ovvero di quell’insieme di meccanismi tramite cui i caratteri biologici della specie umana diventano oggetto di una strategia generale di potere[25]. Se dunque è nell’ambito del liberalismo che il governo della popolazione prende forma, gli Stati moderni non ne inventano ex novo gli schemi, che invece vengono desunti dalla sfera religiosa, e in particolare da quello che Foucault chiama “potere pastorale”. Il riferimento è a quell’insieme di temi e meccanismi che la Chiesa avrebbe tratto dall’Oriente mediterraneo, codificandoli e iscrivendoli in istituzioni definite. Tra questi, è decisiva l’assimilazione del sovrano o della divinità al pastore, la quale porta con sé l’idea di un potere che fa del bene, che non si esercita su un territorio ma su un gregge che deve guidare alla salvezza. Si tratta dunque di un potere che fa del bene e che cura, avendo in compenso la peculiarità di non far discendere la salvezza dalla mera osservanza della legge ma dal rapporto soggettivo col pastore, che si gioca su un affidamento integrale e permanente. Su questa base si innesta una sottile economia dei meriti e dei demeriti[26], misurata su un’obbedienza che è tanto più perfetta quanto più è incondizionata.

Nel discorso foucaultiano, la biopolitica avrebbe dunque ereditato in forma secolarizzata «la preoccupazione della chiesa cattolica per la salvezza dell’anima dei suoi fedeli, trasferendola sulla salute del corpo e sul benessere economico»[27]. L’attuale scenario sembra confermare le intuizioni foucaultiane spingendo il paradigma biopolitico su nuove frontiere. La gestione dell’emergenza sanitaria passa infatti per una regolazione dei comportamenti individuali che consenta di preservare la salute della popolazione nel suo complesso. In questo quadro, ai tradizionali strumenti disciplinari del confinamento e della quarantena[28], si aggiungono le campagne mediche di prevenzione, di screening sanitario e vaccinazione di massa con cui lo Stato gestisce la vita individuale e collettiva. Su tali politiche, che sembrano assumere come unico valore la vita nella sua nudità biologica, Giorgio Agamben ha espresso un amaro dissenso, costatando come la medicina sia assurta a nuova religione, facendo propria l’istanza escatologica che il cristianesimo ha lasciato cadere[29].

Proprio l’intersecarsi del piano politico con la sfera etico-religiosa pare svolgere un ruolo non secondario nel governo dell’attuale crisi. Ne è un esempio il forte investimento discorsivo che si è fatto sulla morale pubblica, insistendo sulla responsabilità individuale, sull’importanza del rispetto delle regole, sulla fede nella scienza, polarizzando l’opinione pubblica tra credenti e non credenti, scientisti e negazionisti, tra onesti e furbi cittadini. Meglio sarebbe stato, probabilmente, se si fosse intensificato il numero dei controlli o, ad esempio, se si fosse indicato da subito l’ordine di priorità nella campagna vaccinale, il che avrebbe plausibilmente responsabilizzato in altro senso cittadini e istituzioni, chiamati ad assumersi il rischio diretto e concreto di una sanzione come forma di risarcimento per il potenziale danno inferto alla collettività.

Si capisce, certo, la delicatezza del compito in una situazione di grave tensione sociale. Nelle analisi foucaultiane, d’altra parte, la messa a punto delle discipline prima e dei sistemi di sicurezza poi ha proprio la funzione di ottenere una presa sugli individui che consenta di rendere sempre meno riconoscibile l’operazione di potere in atto, scongiurando il rischio della rivolta. Da questo punto di vista, lo stesso concetto di cura si svela come parte di un dispositivo volto ad ottenere obbedienza in cambio di una libertà a venire. La promessa di una certa felicità permette infatti di elaborare una scienza della liberazione da cui far discendere una morale prescrittiva[30]. Di qui la diffidenza foucaultiana rispetto alla possibilità di una liberazione, che si tratti della redenzione cristiana, della disalienazione per il tramite della rivoluzione o della liberazione della sessualità dalle catene della morale borghese. D’altra parte, le stesse libertà di cui la società civile si fregia, e che è ansiosa di accrescere e preservare, non sono per Foucault qualcosa di originario ma un prodotto della governamentalità liberale, che produce libertà solo a patto di poterle organizzare, facendole apparire come un bene costitutivamente fragile e minacciato, che può essere tutelato solo a prezzo di un sovrappiù di controllo[31].

Ne La pelle, quando finalmente l’esercito dei liberatori entra trionfalmente a Roma, un uomo gli si getta incontro gridando «Viva l’America!», ma ne è travolto e schiacciato. La scena pietosa e grottesca di quella «pelle ritagliata in forma d’uomo»[32], che sollevata ciondola proprio come una bandiera, si offre agli occhi di Malaparte come una sorta di rivelazione: la pelle è la bandiera di tutti gli uomini, «la nostra vera patria è la nostra pelle»[33]. La pelle, ovvero l’animalità, si mostra allora come la dimensione più autentica e più viva dell’uomo, corrotta dalla sua tracotanza e riconoscibile solo nel momento della sconfitta.

Così, se per Malaparte non è che lo scacco a ricondurre l’uomo alla parte migliore e più vera di sé, per Foucault si tratta invece di star dentro la libertà, ritagliandosi al suo interno un’attenzione critica, coltivando percorsi consapevoli di costruzione del sé. In quest’ottica, l’obbedienza non va di per sé negata ma richiede d’essere assunta in modo critico. Richiamandosi al Kant interprete dell’Illuminismo, Foucault mette in guardia dalla tentazione di lasciarsi guidare passivamente, suggerendo non la disobbedienza tout court ma il discernimento ragionato dei valori a monte di ogni condotta.


[1] C. Malaparte, La pelle (1949), Adelphi, Milano 2010, p. 342.

[2] Cfr. F. Baldasso, Curzio Malaparte, la letteratura crudele, Carocci, Roma 2019, pp. 65-68.

[3] Cfr. C. Guagni, Storia di un libro che “appesterà tutti”, in C. Malaparte, op. cit., p. 345.

[4] A. Orsucci, Trasformare in immagini idee e convinzioni. La “visionarietà concettuale” di Malaparte, in «Chroniques italiennes web», XXXV, 1, 2018, pp. 186 sgg.

[5] Cfr. F. Baldasso, op. cit., pp. 47-52.

[6] C. Malaparte, op. cit., p. 173.

[7] Ibid., pp. 221-230.

[8] Ibid., p. 39.

[9] Ibid.

[10] Ibid., p. 20.

[11] Ibid.

[12] Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), tr. it. Feltrinelli, Milano 2021.

[13] C. Malaparte, op. cit., p. 21.

[14] Ibid., p. 29.

[15] Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971) in Id., Microfisica del potere, tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 32.

[16] C. Malaparte, op. cit., pp. 44-45.

[17] Cfr. F. Baldasso, op. cit., pp. 68-71.

[18] C. Malaparte, op. cit., p. 40.

[19] Cfr. M. Foucault, Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste (1978-1985) (1994), tr. it. Feltrinelli, Milano 1996, e Id., Taccuino persiano (1994), tr. it. Guerini e associati, Milano 1998.

[20] C. Malaparte, op. cit., p. 50.

[21] Ibid., p. 48.

[22] Ibid., p. 40.

[23] Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), tr. it. Feltrinelli, Milano 2010, pp. 61 sgg.

[24] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 -1979) (2004), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009, p. 33.

[25] M. Foucault, Sicurezza..., cit., p. 13.

[26] Cfr. ibid., p. 131.

[27] L. Bernini, Le pecore e il pastore, Liguori, Napoli 2008, p. 147.

[28] Sulla quarantena come paradigma dell’approccio disciplinare alla salute si vedano M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (1999), trad. it. Feltrinelli, Milano 2009, pp. 48-51; Id., Sorvegliare e punire (1975), tr. it. Einaudi, Torino 2005, pp. 213-216; Id., Sicurezza..., cit., p. 20.

[29] G. Agamben, La medicina come religione, su https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-medicina-come-religione [ultima consultazione 26.05.2021].

[30] M. Foucault, La volontà di sapere (1976), tr. it. Feltrinelli, Milano 2011, pp. 12 sgg.

[31] Cfr. Id., Nascita..., cit., pp. 65 sgg.; L. Bernini, op. cit., p. 163.

[32] C. Malaparte, op. cit., p. 305.

[33] Ibid., p. 300.

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