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SULL’ECCEZIONALITÀ DELLA FILOSOFIA: ESISTE UNA DISCONTINUITÀ TRA FILOSOFIA E SCIENZA?

Autore


Pasquale Frascolla

Università degli Studi di Napoli Federico II

insegna Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Intro

2. Svolte linguistiche

3. La filosofia: una disciplina a priori?

  1.  

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S&F_n. 24_2020

Abstract


On the Exceptionality of Philosophy: Is There Discontinuity between Philosophy and Science?

The article is devoted to a short presentation of the controversy between the meta-philosophical conception of the nature of philosophy and its relation with natural science known as exceptionalism, and the opposite anti-exceptionalist conception. The exceptionalist view is traced back to the linguistic turn and is illustrated by focusing on the early and intermediate Wittgenstein, Waismann and Schlick. Quine’s naturalism is identified as the background of the anti-exceptionalist view, whose developments in the area of analytic metaphysics are taken as paradigmatic. Some issues concerning anti-exceptionalism are raised.


  1. Intro

Nel dibattito meta-filosofico in ambito analitico, la domanda sull’eccezionalità o meno della filosofia riguarda essenzialmente il rapporto tra filosofia e scienza, e va intesa grosso modo così: c’è continuità tra filosofia e scienza, almeno nel senso che esse perseguono, con metodi per molti aspetti simili, un comune obiettivo? Un’immediata risposta negativa alla domanda potrebbe essere giustificata con l’ovvia constatazione che si fa filosofia stando seduti in poltrona o alla scrivania, come succede anche con la matematica, mentre nelle scienze sperimentali, per quanto basate ovviamente su teorie che sono prodotti della riflessione, dell’immaginazione, o, comunque, di attività intellettuale, si richiede necessariamente che, a un certo punto, l’indagine si svolga in un laboratorio di chimica, o in un osservatorio astronomico, o in un acceleratore di particelle ecc. Come vedremo, questa risposta, che richiama subito la distinzione epistemologica tra a priori e a posteriori, pur essendo fondata, è sicuramente semplicistica. Qui mi limiterò a dare un’idea sommaria della controversia tra gli eccezionalisti, cioè i sostenitori dell’esistenza di una netta diversità di obiettivi e di metodi tra filosofia e scienza, e i sostenitori della tesi opposta, gli anti-eccezionalisti, sollevando, alla fine dell’articolo, un problema per questi ultimi. A rappresentare i primi, sceglierò un gruppo di filosofi analitici che furono strenui fautori della cosiddetta svolta linguistica, ossia il gruppo costituito dal Wittgenstein del Tractatus e degli scritti dei primi Anni Trenta, da Waismann e da Schlick. Inevitabilmente, trascurerò non solo altri eminenti membri del Circolo di Vienna, ma anche il secondo Wittgenstein e i filosofi oxoniensi del linguaggio ordinario, che sono stati protagonisti di pari rango della svolta linguistica. Se la svolta linguistica è lo sfondo meta-filosofico generale dell’eccezionalismo in ambito analitico, il naturalismo meta-filosofico di Quine lo è dell’anti-eccezionalismo. Quest’ultimo, però, è andato molto oltre gli orizzonti dello stesso Quine, per esempio quando, agli inizi degli Anni Settanta del Novecento, è stata rilegittimata una ricerca metafisica in stile pre-kantiano, con un deciso rifiuto della svolta linguistica. Esponendo per grandi linee queste vicende, resteranno fuori dal mio discorso almeno due componenti fondamentali dello sviluppo più recente della filosofia analitica, quella che riguarda la filosofia pratica (morale e politica) e quella legata all’impetuoso sviluppo delle scienze cognitive, che pure hanno avuto entrambe un forte impatto, in chiave anti-eccezionalista, sul tema trattato[1].

 

  1. Svolte linguistiche

Il contenuto della svolta linguistica può essere riassunto nello slogan: “i problemi filosofici sono problemi di linguaggio”, in cui si può dire si riconoscessero Wittgenstein (anche quello delle Ricerche filosofiche), Waismann e Schlick. Dietro lo slogan, tuttavia, ci sono vari ingredienti teorici che, ai nostri fini, è utile distinguere: a) una concezione semantica per effetto della quale le proposizioni della scienza naturale sono gli unici candidati a poter esprimere linguisticamente, quando sono vere, le conoscenze riguardanti il mondo [«La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali)» (TLP 4.11)][2]; b) una radicale critica della metafisica, le cui asserzioni su certe caratteristiche molto generali del mondo sono condannate come insensate perché sfuggono in linea di principio alla controllabilità per mezzo di procedure osservative, ossia alla possibilità di stabilirne la verità o la falsità attraverso un confronto con i fatti empirici; c) una concezione meta-filosofica eccezionalista della relazione tra filosofia e scienza, nel senso che l’indagine filosofica, quando è condotta secondo i nuovi canoni, non conduce a teorie sostantive, capaci di fornire informazioni su certi aspetti strutturali della realtà, e paragonabili, sotto il profilo cognitivo, a quelle scientifiche, da cui si distinguerebbero solo per un più alto grado di generalità. Piuttosto, essa si configura come una sorta d’indagine di second’ordine, un’indagine, cioè, non sul mondo, ma su quei meccanismi logico-semantici che rendono possibile la descrizione ordinaria e scientifica del mondo per mezzo del linguaggio, e che, per così dire, non sono trasparenti agli stessi utenti del linguaggio. Proprio quest’opacità provocherebbe quei fraintendimenti del modo in cui il nostro linguaggio funziona, da cui avrebbero origine gli pseudo-problemi della filosofia tradizionale. In questo tipo d’indagine giocano un ruolo-chiave le nozioni e le tecniche di analisi messe a punto nell’ambito degli studi logici d’ispirazione freghiana e russelliana. Infine, poiché i pensieri, nel senso non-psicologico di contenuti degli atteggiamenti proposizionali (stati mentali quali il credere, il sapere, lo sperare ecc.), sono accessibili solo attraverso le proposizioni che li esprimono, l’analisi logico-semantica diventa l’unica via per chiarire la struttura dei pensieri.

Le tesi a) e b) poggiano entrambe su una particolare concezione del significato delle proposizioni. Qui non proverò nemmeno a raccontare per grandi linee le “disavventure” di queste due tesi (farlo equivarrebbe a raccontare una parte cospicua della storia della filosofia analitica), e mi soffermerò esclusivamente sulla tesi c) e sul suo rapporto con quella concezione del significato. Wittgenstein, Waismann e Schlick hanno presentato con estrema radicalità l’idea dell’eccezionalità della filosofia rispetto alle scienze naturali, divenuta il bersaglio meta-filosofico preferito dell’attuale mainstream analitico. Per questa ragione, ho scelto di trattare le concezioni di quei tre autori, che difendono l’eccezionalismo “in purezza”, per così dire.

Nelle riflessioni di Schlick sul rapporto tra filosofia e scienza della natura, la netta distinzione tra le due è tracciata nei termini dell’opposizione tra significato e verità: mentre le scienze della natura hanno per obiettivo la verità, cioè mirano a stabilire, salvo smentite sempre possibili, la verità di proposizioni che vertono su determinati aspetti del mondo, la filosofia si muove nel dominio del significato, cioè mira a chiarire che cosa vogliono dire certe proposizioni, che cosa s’intende effettivamente con esse[3]. Ovviamente, una proposizione ha un determinato valore di verità (è vera o è falsa) solo in quanto è dotata di un certo significato, e la domanda sul valore di verità di una proposizione presuppone che se ne conosca il significato. La natura della relazione tra significato e verità, così come era stata concepita per la prima volta da Wittgenstein nel Tractatus, è la base su cui poggia la completa diversificazione di compiti e di statuto tra filosofia e scienza. Molto brevemente, l’idea è questa: il significato di una proposizione coincide con le possibili circostanze che, se si realizzano, la rendono vera, cioè con le sue condizioni di verità; una proposizione è vera se le sue condizioni di verità sono soddisfatte, cioè se esse sussistono di fatto nel mondo, falsa altrimenti. Se si assume che la sussistenza o meno delle circostanze che rendono vera una proposizione, cioè il soddisfacimento o meno delle sue condizioni di verità, non debba trascendere la capacità di riconoscimento del parlante, se s’impone, cioè, questo vincolo epistemico, ne segue che chi comprende una proposizione non solo sa in quali circostanze possibili essa è vera, ma sa anche come accertare se queste circostanze sussistono e, quindi, come stabilire se essa è vera. Con l’ulteriore assunzione che il riconoscimento della sussistenza delle condizioni di verità di una proposizione informativa sul mondo, ossia di una proposizione non analiticamente vera, debba passare necessariamente per l’esperienza, si ottiene il verificazionismo come teoria semantica.

Nel quadro sopra delineato, sostenere che il filosofo si occupa del significato e lo scienziato della verità delle proposizioni equivale a sostenere che il primo analizza e chiarisce le loro condizioni di verità, mentre il secondo si pone il compito di stabilire se esse siano o meno soddisfatte. Due casi paradigmatici dei risultati che si possono ottenere con l’attività di chiarificazione del significato, cioè con l’attività propriamente filosofica, sono spesso menzionati dagli autori di cui ci stiamo occupando. Il primo è costituito dalla celebre analisi di Russell della semantica delle descrizioni definite (espressioni del tipo “il così e così”, per esempio: “l’attuale Presidente della Repubblica Italiana”). Russell, infatti, ha fornito una rappresentazione delle condizioni di verità delle proposizioni in cui una descrizione definita figura come soggetto grammaticale, cioè delle proposizioni della forma “il così e così è P”, mostrando che le descrizioni definite, in generale, non hanno una genuina funzione referenziale e possono essere eliminate in favore del quantificatore esistenziale e del quantificatore universale: una proposizione del tipo “il così e così è P” è vera se, e solo se, esiste esattamente un oggetto così e così, e quest’oggetto ha la proprietà P. L’analisi russelliana permette di sbarazzarsi delle implicazioni ontologiche derivanti da un’interpretazione della struttura logico-semantica di quelle proposizioni basata proprio sull’attribuzione di un ruolo referenziale alle descrizioni definite (di sbarazzarsi, cioè, di oggetti possibili non esistenti come, per esempio, l’attuale re di Francia, e di oggetti impossibili come, per esempio, il quadrato rotondo, nel ruolo di presunti riferimenti delle corrispondenti descrizioni definite che figurano, tra l’altro, in esistenziali negativi veri come “l’attuale re di Francia non esiste” e “il quadrato rotondo non esiste”).

Il secondo caso, ancora più famoso, è costituito dall’esame critico a cui Einstein ha sottoposto il concetto di simultaneità di due eventi che accadono in luoghi diversi dello spazio. Einstein, nella veste di filosofo-scienziato – una veste che gli scienziati spesso indossano nelle fasi rivoluzionarie, non normali, nel senso kuhniano, delle loro discipline - ha fornito un’analisi del significato delle proposizioni del tipo “L’evento E e l’evento F accadono simultaneamente in due luoghi diversi”, descrivendone le condizioni di verità e le procedure operative con cui un osservatore può accertare la sussistenza di quelle condizioni. L’effetto rivoluzionario di quest’indagine semantico-concettuale è il riconoscimento del fatto che due eventi, che sono simultanei per un certo osservatore, possono non esserlo per un altro osservatore collocato in un sistema di riferimento in moto rettilineo uniforme rispetto al primo, con il conseguente abbandono dell’idea newtoniana e di senso comune che esista un ordine temporale assoluto degli eventi. Come l’analisi di Russell permette di evitare la proliferazione di “strane” entità come l’attuale re di Francia o il quadrato rotondo nell’ontologia del nostro discorso ordinario, così l’analisi di Einstein rivela il carattere metafisico della nozione di tempo assoluto, che non regge alla prova dei criteri osservativi che governano l’applicazione del concetto di simultaneità di eventi distanti nello spazio.

C’è un ultimo aspetto per cui la filosofia è contrapposta, per la sua specifica natura, alla scienza: la filosofia, se praticata correttamente, è un’attività di chiarificazione, che non produce conoscenza esprimibile in sistemi di proposizioni filosofiche logicamente interconnesse. Al solito, è nel Tractatus di Wittgenstein che si trova formulata nella forma più drastica questa concezione, che accentua al massimo grado la separazione tra filosofia e scienza, l’eccezionalità della prima rispetto alla seconda:

La filosofia non è una delle scienze naturali … Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri. La filosofia non è una dottrina ma un’attività. Un’opera filosofica consta essenzialmente di chiarificazioni. Il risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarificarsi di proposizioni” (TLP 4.111-4.112).

 

Poiché nella definizione dei termini primitivi del linguaggio (termini non suscettibili di definizione verbale) si ricorre ad atti di ostensione, è con queste azioni, che istituiscono i punti di contatto tra il linguaggio e il mondo, e non con la formulazione di proposizioni, che si conclude l’attività di chiarificazione semantica in cui è impegnata la filosofia.

 

  1. La filosofia: una disciplina a priori?

Uno degli ingredienti principali dell’immagine eccezionalista sopra delineata è la convinzione che la filosofia sia una disciplina a priori, che si può praticare alla scrivania, o stando seduti in poltrona, proprio perché non si propone di fornire informazioni sull’effettiva configurazione del mondo. Per questo aspetto, il contrasto con le scienze della natura non potrebbe essere più grande, e ciò indipendentemente dal fatto che si ritenga o meno che i risultati dell’indagine filosofica possano trovare un’adeguata espressione proposizionale[4]. La centralità di questa convinzione è testimoniata da quanto scrive Michael Dummett, l’ultimo grande sostenitore della svolta linguistica, negli Anni Novanta, ossia molti decenni dopo le vicende filosofiche che abbiamo raccontato:

… anche se non consideriamo più i problemi tradizionali della filosofia pseudo-problemi a cui non si può dare una risposta sensata, non siamo però ritornati al convincimento che il ragionamento a priori possa fornire una conoscenza sostanziale di caratteristiche fondamentali del mondo. La filosofia non può fare altro che renderci capaci di conseguire una visione chiara dei concetti mediante i quali pensiamo il mondo …[5].

 

Poiché ai pensieri in senso non-psicologico abbiamo accesso solo per il tramite delle proposizioni che li esprimono, questa penetrazione filosofica nella struttura dei pensieri può ottenersi solo attraverso l’analisi semantica del linguaggio.

Il modo in cui abbiamo descritto finora le caratteristiche della riflessione logico-semantica sembra giustificare l’idea che la filosofia sia una disciplina a priori. Infatti, nel quadro di una concezione che identifica il significato di una proposizione con le sue condizioni di verità, a prescindere dall’ulteriore requisito epistemico di riconoscibilità in linea di principio della loro sussistenza, un’indagine sul significato si configura come un’indagine che riguarda il dominio delle circostanze possibili che, se si realizzano, rendono vere le proposizioni di un certo tipo. Chiedersi se una riflessione sul significato di quelle proposizioni possa essere condotta a priori equivale a chiedersi se possa esserlo una riflessione sul pertinente dominio di possibilità. Una domanda che, tipicamente, si porrebbe il filosofo nella sua riflessione a tavolino sarebbe, infatti: data una proposizione E dotata di una certa struttura sintattica, la si considererebbe vera se le tali e tali circostanze possibili si realizzassero? Insomma, se la competenza semantica del parlante consiste fondamentalmente nella conoscenza delle condizioni di verità delle proposizioni, allora la filosofia come riflessione sui significati ruota interamente attorno a quella conoscenza, e sarà a priori se quella conoscenza lo è. Anche gli esperimenti mentali, cui spesso gli scienziati ricorrono (Mach ed Einstein, per esempio), sono, secondo il Wittgenstein dei primi Anni Trenta, «riflessioni grammaticali», dove la grammatica «stabilisce soltanto le possibilità»[6]. Naturalmente, i nostri difensori della tesi dell’eccezionalità della filosofia sostengono che la conoscenza del dominio delle possibilità, come parte della nostra competenza semantica, sia del tutto a priori, e che proprio questo consenta di spiegare il fatto che si possa fare filosofia stando comodamente seduti in poltrona (anche se metterebbero la parola “conoscenza” tra virgolette).

Nella concezione eccezionalista che abbiamo presentato, la nozione di proposizione analitica, intesa o come una proposizione vera in virtù dei significati dei suoi costituenti (analiticità metafisica) o, alternativamente, come una proposizione che, necessariamente, è riconosciuta come vera da chiunque la comprenda (analiticità epistemologica), non svolge nessun ruolo-chiave. Inoltre, anche ammesso che una di queste due nozioni intervenga nella spiegazione della natura delle verità logiche e matematiche, non c’è nessuna evidenza a favore del fatto che essa entri nella spiegazione della natura dei risultati della riflessione filosofica, o del modo in cui essi sono raggiunti. Eppure, la critica mossa da Quine nei primi Anni Cinquanta alla nozione di verità analitica, riguardante la circolarità viziosa di ogni tentativo di definirla per mezzo di nozioni come quelle di sinonimia, di necessità ecc., ha aperto in qualche misura la strada all’attacco alla concezione eccezionalista della filosofia. In realtà, l’impatto devastante delle riflessioni di Quine sull’eccezionalismo ha due ragioni molto diverse dalla sua specifica critica all’analiticità (che era indirizzata soprattutto contro certe concezioni semantiche di Carnap)[7]. Detto brevemente: in primo luogo, l’abbandono della distinzione analitico/sintetico porta con sé la tesi dell’impossibilità di tracciare una netta linea di demarcazione tra la competenza semantica e la conoscenza empirico-fattuale, e, conseguentemente, mina alla radice l’idea che il dominio del significato costituisca il campo esclusivo e ben delimitato in cui si esercita la riflessione filosofica. Se quella demarcazione è un mito, non si vede perché la riflessione filosofica, di cui si assume che si realizzi nella costruzione di argomenti a sostegno di tesi, non possa essere condotta tenendo conto dei risultati provvisori raggiunti dalla ricerca scientifica nel suo complesso, anche nei suoi settori più avanzati e sofisticati. In secondo luogo, la filosofia non si colloca in una presunta posizione privilegiata rispetto a tutto il resto delle nostre pretese conoscenze, dalla quale poter in qualche modo vagliare i titoli di legittimità di queste ultime. Infatti, nel costruire i propri argomenti, il filosofo è sempre immerso in uno schema concettuale di cui quelle conoscenze fanno parte, e che viene sottoposto nel suo complesso ai verdetti del tribunale dell’esperienza. Ma se i singoli asserti non vengono controllati uno per uno separatamente, e se, invece, la conferma empirica ha un carattere olistico, la conferma o la smentita di un qualunque asserto può avere conseguenze sull’accettazione o il rifiuto di un qualsiasi altro, anche di un asserto filosofico. Insomma, nel nuovo quadro quineano, ogni tentativo di separare la filosofia dalla scienza risulta irragionevole perché fondato su concezioni sbagliate sia della relazione tra competenza semantica e conoscenza fattuale, sia del modo in cui le nostre credenze vengono messe alla prova dell’esperienza.

Non è un caso, allora, che un passo decisivo sulla strada dell’anti-eccezionalismo sia stato fatto negli Anni Settanta del Novecento da David Lewis, un allievo di Quine, appunto, anche se è alquanto ironico il fatto che, applicando precetti della metodologia filosofica ispirati alle idee del suo maestro, Lewis abbia legittimato quei discorsi metafisici nell’ambito dello studio della modalità, che Quine aveva sempre osteggiato. Secondo Lewis, non solo l’indagine filosofica mira a darci conoscenze sui tratti strutturali più generali della realtà, ma, nel farlo, adotta la stessa metodologia che è impiegata con successo nelle scienze. Ci sono dei dati da spiegare, per esempio l’abituale e non problematico uso che i parlanti fanno delle costruzioni linguistiche che coinvolgono la possibilità e la necessità: l’obiettivo del filosofo è di costruire la migliore teoria, in termini di semplicità, economia e altri meriti epistemici tipici delle teorie scientifiche, che di quei dati sappia dar conto, in un delicato gioco d’equilibrio con “l’ancoraggio mooriano” di alcune credenze, cioè con la robustezza con cui si presentano certe convinzioni del senso comune, e con i risultati delle teorie scientifiche più accreditate. L’abduzione, ossia l’inferenza alla spiegazione migliore, con la connessa valutazione olistica delle teorie in termini di costi e benefici complessivi, è un metodo che dal campo della costruzione delle teorie scientifiche può essere pacificamente trasferito a quello della costruzione delle teorie matematiche e delle teorie filosofiche. Come è abduttiva la giustificazione dell’accettazione della teoria degli insiemi e dei suoi impegni ontologici (si tratta di una teoria capace di unificare i vari ambiti della matematica, basata su assiomi semplici e su un numero minimo di nozioni primitive), così è abduttiva la giustificazione del realismo modale, della tesi metafisica, cioè, secondo cui il mondo in cui ci troviamo è solo uno in una pluralità di mondi spazio-temporalmente separati, nei quali accadono cose diverse da quelle che accadono nel nostro, ma che esistono proprio nello stesso senso in cui esiste il nostro mondo.

Come si vede da questi brevi cenni, innanzitutto è caduta l’idea che era stata al centro della svolta linguistica, cioè che la filosofia non produce teorie sostantive sulla realtà, ma è confinata allo studio dell’apparato linguistico-concettuale che usiamo per parlarne, per esprimere le nostre credenze e conoscenze attorno ad essa. Conseguentemente, è venuto del tutto meno l’eccezionalismo, in nome di una sostanziale continuità tra filosofia e scienza, che non riguarda solo il comune obiettivo (organizzare sistematicamente la nostra conoscenza della realtà, dei suoi aspetti più specifici, studiati dalle singole scienze, come dei suoi aspetti strutturali generali, studiati dalla metafisica), ma anche i metodi con cui questa impresa è condotta in entrambi i campi. In questo quadro, anche la contrapposizione tra ciò che si può conoscere a priori e ciò che si può conoscere a posteriori traballa, e il filosofo è pienamente legittimato a tener conto, nel corso delle sue ricerche a tavolino, dei risultati raggiunti in qualunque branca della scienza. Uno dei più agguerriti difensori del nuovo corso in filosofia analitica è sicuramente Timothy Williamson[8]. Gli argomenti addotti da Williamson a favore dell’anti-eccezionalismo sono numerosi e raffinati. Qui vorrei discuterne solo uno, in conclusione.

Un modo diretto per presentare la tesi anti-eccezionalista secondo cui la filosofia sarebbe un’indagine sistematica sulla realtà al pari delle altre scienze e, al contempo, per prendere decisamente le distanze dalla concezione della filosofia come indagine linguistico-concettuale, è il seguente: è falso affermare che la filosofia si occupa, non delle cose, ma dei concetti delle cose, o del linguaggio che verte sulle cose; infatti, la filosofia si occupa della vaghezza, delle proprietà naturali, delle essenze, della necessità e possibilità metafisica, della conoscenza, del bene, della giustizia ecc., non dei corrispondenti concetti, o delle caratteristiche semantiche del discorso che verte su di esse. Ciò non equivale a dire, secondo Williamson, che l’indagine linguistico-concettuale non svolga alcun ruolo nell’indagine sulle cose di cui la filosofia si occupa, tutt’altro: quel tipo d’indagine, in cui, però, la filosofia non si esaurisce affatto, è resa necessaria dalla non trasparenza delle proprietà semantiche e pragmatiche del discorso che verte sulle cose di cui la filosofia si occupa, e dal carattere spesso logicamente intricato degli argomenti costruiti a sostegno di tesi sostantive su quelle cose[9].

Ora, a me pare che, nella stragrande maggioranza dei casi, la distinzione tra un discorso che verte su certe cose, da una parte, e un discorso che verte sul concetto di quelle cose, o sul significato del termine che a quelle cose si riferisce, dall’altra, possa essere tracciata con chiarezza e plausibilità intuitiva. Consideriamo, per esempio, il caso dei pianeti. Non c’è dubbio che un astronomo, quando dice che le orbite dei pianeti del sistema solare sono ellissi con il Sole in uno dei due fuochi, faccia un’affermazione sulle cose che studia, i pianeti, appunto. E a me pare altrettanto chiaro che quando, com’è effettivamente avvenuto, viene proposta una ridefinizione del concetto di pianeta che modifica uno dei principali criteri di classificazione dei corpi celesti, ci si stia occupando del concetto stesso, o delle regole d’uso del termine “pianeta”, e non direttamente degli oggetti a cui il concetto o il termine si applica[10]. Questa distinzione resta valida, naturalmente, anche se si riconosce che la ridefinizione del concetto di pianeta ad opera degli astronomi rispondeva all’esigenza di migliorare la teoria empirica dei pianeti (così come la ridefinizione einsteiniana del concetto di simultaneità di eventi distanti nello spazio aveva profonde radici nell’esigenza di costruire una teoria empirica che sciogliesse in un colpo solo tutti i nodi creati nella fisica classica dall’esperimento di Michelson-Morley).

Supponiamo ora che un filosofo anti-eccezionalista, convinto del fatto che in filosofia ci si occupi delle cose, non dei concetti delle cose o del significato delle espressioni linguistiche che usiamo per parlarne, proponga una rudimentale teoria della verità, che riguarda, secondo lui, quest’entità piuttosto elusiva, sulla cui natura i filosofi s’interrogano da millenni. Assumiamo, inoltre, che il nucleo di questa teoria sia la venerabile tesi che la verità di una proposizione (di un pensiero) consista nella sua corrispondenza ai fatti. Ora supponiamo che un filosofo eccezionalista, per il quale la filosofia si occupa di concetti o del significato di certe parole, e non di oggetti sui generis, proponga una definizione del concetto di verità o, equivalentemente, una regola di applicazione del predicato “vero”, per cui una proposizione (un pensiero) è vera/o se, e solo se, corrisponde ai fatti. A questo punto, sorge spontanea la domanda: sulla base di quali elementi si può tracciare una distinzione tra la teoria sostantiva del primo filosofo e l’indagine linguistico-concettuale del secondo filosofo? A me sembra che una risposta convincente a domande come questa i filosofi dell’attuale mainstream analitico debbano ancora darla.


[1] Per approfondire, il lettore può consultare: H.-J. Glock, What is Analytic Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2008; P. Tripodi, Storia della filosofia analitica, Carocci editore, Roma 2015; T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2007; Id., How did We get Here from There? The Transformation of Analytic Philosophy, in «Belgrade Philosophical Annual», 27, 2014; Id., Philosophical Method. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2020.

[2] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1922), tr. it. Einaudi, Torino 1989. Uso qui e di seguito il termine “proposizione” nel senso di “enunciato dichiarativo”, seguendo l’uso invalso nelle traduzioni italiane di Wittgenstein, di Waismann e di Schlick.

[3] Vedi M. Schlick, La svolta della filosofia (1930), in M. Schlick, Tra realismo e neo-positivismo, tr. it. Il Mulino, Bologna 1974; Id., The Future of Philosophy, The Pacific Philosophy Forum 1932, poi in The Linguistic Turn, a cura di R. Rorty, The University of Chicago Press, Chicago, 1979; Id., Significato e verificazione (1936), in M. Schlick, Tra realismo e neo-positivismo, cit.

[4] Questa differenza, invece, è rilevante se si confronta la metodologia filosofica con quella che appare (o forse appariva, prima dell’uso del computer come ausilio nelle dimostrazioni) la disciplina a priori per eccellenza, la matematica, in cui sono le dimostrazioni, non gli esperimenti, a fornire la giustificazione conclusiva delle asserzioni. Ma qui non abbiamo spazio per approfondire questo punto molto complesso.

[5] M. Dummett, La base logica della metafisica (1991), tr. it. Il Mulino, Bologna 1996, pp. 13-14.

[6] Cfr. L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1999, § 1.

[7] Nel presentare l’anti-eccezionalismo di Quine, seguo in sostanza D. Marconi, Quine and Wittgenstein on the Science/Philosophy Divide, in «Humana.Mente. Journal of Philosophical Studies», 21, 2012. Per alcuni aspetti dell’anti-eccezionalismo di Williamson, vedi D. Marconi, Tre immagini della filosofia, in «Rivista di Filosofia», CIII, 3, 2012.

[8] Gli scritti di Williamson cui fare riferimento sono, almeno, i tre citati nella nota 1.

[9] Vedi T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, cit., Capitolo 2; e Id., How did We get Here from There? The Transformation of Analytic Philosophy, cit. Qui, indipendentemente dalle idee di Williamson, non intendo i concetti come entità mentali: infatti, se lo fossero, la tesi che i filosofi non si occupano quasi mai di concetti sarebbe ovvia.

[10] Nel 2006, la International Astronomy Union ha proposto una ridefinizione del concetto di pianeta per effetto della quale Plutone non è più classificabile come un pianeta.

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