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Dark Meshwork. Per una teoria della complessità ontologica dell’era dell’Antropocene

Autore


Tommaso Guariento

Università degli Studi di Palermo

ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Studi Culturali Europei presso l’Università degli Studi di Palermo

Indice


1. Impensabilità dell’Antropocene

2. Mitologemi

3. Dark Meshwork

4. Cooperare nella complessità

5. Mitologia fluida

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Dark Meshwork. For a Theory of ontological Complexity in the Age of Anthropocene


This article will provide a taxonomy of the ontological, anthropological and political positions that describe the need for radical epistemological change in the understanding of phenomena related to climate change and digital revolution (Tanatologism, Accelerationism, Decelerationist Cosmopolitics, Xenofeminism). Then, through the analysis of the works of Timothy Morton, Tim Ingold, Emanuele Coccia, Donna Haraway, Eugene Thacker and James Bride, the concept of “dark meshwork” will be outlined, as an ambivalent figure of darkness and hyper-complexity that emerges from the observation of physical phenomena, biological (symbiogenesis and cooperation), ontological (metaphysics of mixture), ethnographic (anthropology of lines) and iconological (the Pathosformel of the Ninfa fluida).

A proprement parler, il n’existe jamais de texte original: tout mythe est par nature une traduction, il a son origine dans un autre mythe provenant d’une population voisine mais étrangère, ou dans un mythe antérieur de la même population, ou bien contemporain mais appartenant à une autre subdivision sociale — clan, sous-clan, lignée, famille, confrérie — qu’un auditeur cherche à démarquer en le traduisant à sa façon dans son langage personnel ou tribal, tantôt pour se l’approprier et tantôt pour le démentir, donc toujours en le déformant[1].

 

  1. Impensabilità dell’Antropocene

L’oscurità (cognitiva, emotiva, ambientale, tecnologica, politica) sembra essere un tratto caratteristico della nostra esperienza della contemporaneità. Bisogna però chiarire che “nostra” e “contemporaneità” devono essere intese nel senso di una conoscenza situata[2], e non di un punto di vista disincarnato o divino. L’apporto delle human sciences alla concettualizzazione dell’Antropocene, per quanto rigoglioso ed estremamente variegato[3] si scontra con una sostanziale impotenza del pensiero. Dalla sua formulazione originaria nei due articoli seminali dello storico postcoloniale Dipesh Chakrabarty[4], la questione della pensabilità dell’Antropocene è stata posta in termini problematici. In particolare: che cosa significa il divenire-specie dei vari collettivi (moderni e non-moderni, umani e non-umani)? Sappiamo che, dal punto di vista della geologia e della climatologia, l’Antropocene designa una definizione provvisoria dell’epoca nella quale la specie umana, presa nella sua interezza, è in grado di modificare radicalmente e catastroficamente la struttura climatica ed ecologica dell’intero pianeta[5]. La questione che mescola inevitabilmente le traiettorie delle “due culture” è connessa alle ipotesi di datazione per questa nuova epoca, ovvero: la rivoluzione neolitica, la conquista dell’America, la rivoluzione industriale inglese e lo scancio delle bombe atomiche alla fine della Seconda guerra mondiale. Parlando di oscurità in termini di piano trascendentale, episteme, e forma simbolica, mi riferisco in particolare ad autori come Eugene Thacker[6], Timothy Morton[7] e James Bridle[8], i quali hanno individuato, ciascuno da una prospettiva diversa (teologica, fenomenologica, giornalistica), una sorta di Pathosformel o mitogramma che aggiunge un layer fondamentale alla consueta diade concettuale catastrofe/palingenesi ben delineata da Eduardo Viveiros de Castro e Déborah Danowski:

[…] l’Antropocene, annunciandoci la prospettiva di una “fine del mondo” nel senso più empirico possibile o di un cambiamento catastrofico delle condizioni materiali d’esistenza della specie, suscit[a] una vera angoscia metafisica. Quest’angoscia, spesso tendente al panico, si è espressa attraverso la sfiducia verso tutte le figure dell’antropocentrismo – sia come ideologia prometeica del progresso umano in direzione di un Millennio sociotecnico, sia come pessimismo postmodernista che celebra ironicamente il potere costituente del Soggetto denunciandolo in quanto inesauribile matrice di illusioni […] In un’epoca in cui l’esuberanza maniacale e la depressione melanconica sembrano contendersi la guida della psiche collettiva, ogni discorso sulla fine del mondo suscita un discorso inverso che enfatizza l’eternità umana, la sua capacità di superamento e sublimazione, e che tende a considerare tutte le idee di declino o fine come irrealistiche, fantasiose e persino superstiziose[9].

 

Altrove[10] ho cercato di spiegare come questa figura dicotomica potesse essere integrata con lo studio di Ernesto de Martino sulle apocalissi culturali[11], e in particolare con la sua idea di crisi della presenza. In quel caso si trattava di contrapporre due opposizioni semantiche (senso vs insensatezza e apertura utopica vs chiusura identitaria). Avevo chiamato le quattro tendenze: insensatezza (difetto di senso), disorientamento (eccesso di senso), Utopie e sfere immunitarie. Con questa quadripartizione volevo rendere conto degli atteggiamenti psico-sociali in rapporto all’information overload, ovvero una crescente erosione dei sistemi simbolici[12] propri delle società premoderne e una impossibilità cognitiva di comprendere l’iper-complessità informativa (quella che Franco Berardi chiama «sussunzione mentale»[13]). A questa oscillazione fra scarsità eccesso corrispondevano due modalità di risposta: la chiusura identitaria (nell’emergenza delle “nuove destre”, nella riproposizione dell’ideologia della famiglia naturale e nella proliferazione delle linee di confine di race, gender e class) o l’apertura verso l’incondizionata imprevedibilità del futuro.

Di fronte a una catastrofe climatica già in atto, ovvero di fronte alla prospettiva di una fine de mondo non mitologica ma preannunciata dallo stesso discorso scientifico, il pensiero individuale e collettivo perde il suo esame di realtà. Bridle, in un’efficace analogia, connette l’immagine dell’effetto erosivo del climate change sul permafrost siberiano con la visualizzazione di un cervello colpito da una malattia neurologica degenerativa[14]. In entrambe i casi vediamo una struttura spugnosa scavata da solchi, zone oscure, incavature: questa forma è un’immagine-sintomo - la segnatura della rottura dei tessuti neurologici, ecosistemici e politici. Nello stesso paragrafo Bridle ci fornisce una spiegazione più materialistica: sopra una certa soglia di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera la mente umana cessa di funzionare correttamente[15]. La figura dell’oscurità che sto tentando di delineare è quindi posta al crocevia fra l’esaltazione prometeica e la melanconia catastrofica.

Our vision is increasingly universal, but our agency is ever more reduced. We know more and more about the world, while being less and less able to do anything about it. The resulting sense of helplessness, rather than giving us pause to reconsider our assumptions, seems to be driving us deeper into paranoia and social disintegration: more surveillance, more distrust, an ever-greater insistence on the power of images and computation to rectify a situation that is produced by our unquestioning belief in their authority[16].

 

 

  1. Mitologemi

Di fronte all’imminente collasso climatico-politico, possiamo delineare, sulla scia dell’operazione di prefigurazione iperstizionale di Peter Frase[17], cinque mitologemi/attitudini possibili[18]:

  1. Tanatologismo inumano: propria di autori neo-nichilisti come Thomas Ligotti[19], ma in fondo esemplificata in molte opere narrative e cinematografiche post-2008[20], come Melancholia (von Trier 2011) o Il cavallo di Torino (Tarr 2011). Eugene Thacker chiama l’oggetto di questa riflessione «mondo senza di noi»[21]. Si tratta di uno scenario che cerca di afferrare la futura inessenzialità della nostra specie (o della vita stessa, nelle sue mutevoli ramificazioni evolutive). Un pensiero astratto, litico, cosmologico: più un esercizio di speculazione immaginativa che una reale prospettiva politica che però ha il pregio di catturare realisticamente l’inevitabile imminenza di una catastrofe a venire. Dal punto di vista della comprensione emotiva, il tanatologismo si vuole neutrale, abulico, anaffettivo. Nella prospettiva della storia delle idee, potremmo definire il tanatologismo come erezione della melanconia a stile generale del pensiero, poiché il suo oggetto è l’estinzione di tutte le cose. Dal punto di vista estetico, la fascinazione per l’estinzione è legata a un culto per le rovine – luoghi essenzialmente hauntologici[22] – nei quali la componente antropica ha assunto l’aspetto di una segnatura monumentale (estetica post-apocalittica).
  2. Prometeismo accelerazionista: L’atteggiamento che si oppone a questa versione depressiva del futuro è quello che abbraccia completamente le possibilità manipolatorie della specie umana, e in particolare delle potenzialità di governare il cambiamento climatico attraverso l’alterazione ingegneristica (e dell’ecosistema e della stessa struttura biologica di homo sapiens sapiens)[23]. Il prometeismo ha due facce: quella “esterminista” e tecno-capitalista[24], che ritroviamo nel programma politico neo-reazionario di autori di Nick Land[25] e Curtis Yarvin[26], i quali immaginano un futuro in cui la forma-stato viene sostituita dalla creazione di una rete di piccoli regni autosufficienti (patchwork) nella quale vige un rigido sistema di strutturazione castale delle comunità retto da principi eugenetici, razzisti e maschilisti; e quella left-oriented di Nick Srnicek e Alex Williams[27], che ripropone un modello di pianificazione economica (à la Lenin) e di costruzione dell’egemonia (à la Laclau) la cui funzione è quella di riconvertire in senso socialista le acquisizioni tecnopolitiche del Neoliberalismo. Il nucleo ideologico dal quale si biforcano queste traiettorie politicamente opposte è la nozione di singolarità tecnologica[28], ovvero l’apparizione di un macrorganismo collettivo (sia questo un’intelligenza artificiale, o una totale fusione con la rete). Un dettaglio interessante, rispetto alla comune matrice escatologica della prospettiva tanatologica e di quella prometeica, è l’imminenza dell’Evento Finale: in sostanza la degradazione politica ed ecologica del pianeta coinciderebbe incidentalmente con la genesi di una super-intelligenza (situata all’incirca a metà di questo secolo).
  3. Cosmopolitica decelerazionista: È l’ipotesi avanzata da De Castro e Danowski[29] sulla scorta dei recenti lavori di Isabelle Stengers[30]: si tratta di considerare come un bene comune da difendere la ricchezza delle diversità delle modalità ontologiche di worlding[31]. Dal punto di vista dell’ontological turn[32], prestare attenzione all’ecologia delle relazioni fra i vari collettivi delinea non solo una prospettiva di ricerca accademica, ma anche una strategia di adattamento alle devastazioni della crisi in corso. Philippe Descola[33] e De Castro parlano della necessità di concepire una modalità di pensare che integri l’ampio spettro delle tecniche non-moderne di costruire legami (making kin):

Ora, se gli Amerindi, come moltissimi altri popoli non moderni, condividono un qualsivoglia obiettivo culturale fondamentale, è proprio quello di avere dei figli, di costruire delle famiglie, di allearsi con altre famiglie attraverso il matrimonio, di distribuire e diffondere la prole, perché per persone vivono in altre persone, con altre persone, attraverso altre persone. Inoltre, gli indios preferiscono mantenere una popolazione relativamente stabile invece di aumentare la “produttività” e di “perfezionare” la tecnologia[34].

 

Questa strategia decelerazionista, vedremo in seguito, è uno degli elementi centrali del pensiero ecologista anarchico da Kropotkin[35] a Bookchin[36], laddove il primo prende a spunto il modello delle città europee nel Medioevo, e il secondo i collettivi non-moderni, da lui definiti “società organiche”:

Il tratto più importante della tecnica in una società preindustriale [organica] è il fatto che essa è in genere assai più adattiva che innovativa. Laddove una cultura è socio-strutturalmente ricca, ricca di relazioni umane, di responsabilità comunitarie, di un comune impegno solidale, essa tende a elaborare un nuovo sistema tecnico, anziché a “svilupparlo”. Tenute sotto controllo dai vincoli dell’usufrutto, della complementarietà, del minimo irriducibile, della disaccumulazione, le società primitive tendevano a elaborare la tecnica con grande prudenza e con un’acuta sensibilità per la sua integrabilità nelle istituzioni sociali esistenti[37].

 

  1. Xenofemminismo anti-naturalista: Questa prospettiva condivide in parte alcuni assunti del modello prometeico, ma lo epura dai suoi elementi reazionari ed eteronormativi. In particolare, nella versione esposta da Helen Hester la natura non è un oggetto neutro al quale rivolgersi in cerca di nuovi modelli per riorganizzare le società umane, ma un campo di battaglia e riscrittura[38]. La potenza manipolatoria della nostra specie viene declinata all’alterazione delle dotazioni biopsichiche in vista non tanto di un potenziamento militarizzato delle nostre facoltà, ma all’estensione e razionalizzazione della sfera della cura[39].

Perhaps what we need in order to activate ethical and political agency is an understanding not so much of the human as of the agential political subject – a subject who does not precede her constitution or formulation, but who is created by it. This is a subject who is not inert, but live – constantly being contested for, shaped and reshaped in response to collective struggle and contemporary conditions. It is not inconceivable that such a subject might eventually exceed what we now understand to be the human, or that the qualities we now associate with the human might be more equitably distributed across a wider set of actors[40].

 

 

  1. Dark Meshwork

Quanto più alziamo lo sguardo verso l’alto, tanto più i discorsi vengono contratti dalla contemplazione delle realtà intellegibili; così pure anche ora, nel momento in cui penetriamo nella tenebra superiore all’intelligenza, noi troviamo non più discorsi brevi, ma la totale assenza di parole e di pensieri. In quel caso il discorso, scendendo dall’alto verso il basso, si allargava in proporzione alla discesa; ora invece, elevandosi dal basso verso la sfera superiore, si contrae in proporzione all’ascesa, e dopo averla compiuta diventa completamente muto, per unirsi direttamente all’ineffabile[41].

 

L’ultima immagine-modello che vorremo proporre non ha una consistenza propria, né sarà espressa in maniera esaustiva: si tratta di un aggregato di posizioni ontologiche, fisiche, biologiche, etnografiche e politiche che preleva elementi dalle quattro modellizzazioni precedentemente esposte e da altre, e che cerca di afferrare la natura oscura e complessa della dicotomia Antropocene/Singolarità Tecnologica. James Bridle[42] ed Eugene Thacker[43] rimandano al testo di un anonimo mistico inglese del XIV secolo, La nube della non conoscenza[44], il quale riprende la cosiddetta teologia negativa dello Pseudo-Dionigi (IV secolo), ovvero una modalità di avvicinamento al divino non razionale e non linguistica, fondato sulla contemplazione delle immagini e sulla fusione dell’ente con l’oggetto della sua contemplazione (l’assoluto). Bridle parla della necessaria emergenza di un pensiero nebuloso o cloud thinking (sia nel senso di cloud archivistico che nell’attenzione alle mutazioni climatiche); Thacker asserisce che l’ordine del discorso del misticismo sia utile a esporre lo stato di crisi, incomprensione ed esaltazione originate dall’iper-complessità tecnologica e dall’escatologia climatica. Allo stesso modo, Federico Campagna individua nel centro del “mondo magico” la figura dell’ineffabile Deus Absconditus[45]. Queste metafore operative ci permettono di avvicinarci, in via preliminare, al contenuto del nostro modello.

Con l’espressione “dark meshwork” vogliamo indicare una figura emergente nell’ambito dell’antropologia e della filosofia contemporanea, ovvero la complessa tessitura o rete di interrelazioni fra umani e non-umani, organismi e protesi tecnologiche, locale e universale, fra paure apocalittiche e speranze tecnologiche. Bridle chiama questo oggetto semplicemente “Network”, ovvero:

us and our technologies in one vast system – to include human and nonhuman agency and understanding, knowing and unknowing, within the same agential soup[46].

 

Per parlare dello stesso concetto Morton utilizza il termine “mesh[47], facendo riferimento alla nozione di interconnessione fra gli oggetti tecnici descritta da Heidegger (la catena degli utilizzabili) e Bruno Latour (l’inter-oggettività). L’antropologo britannico Tim Ingold parla ugualmente di “mesh” o “meshwork[48], una nozione geografica che ricava da Herni Lefebvre (l’intreccio delle tracce prodotte dai percorsi di animali e umani intorno ai loro rispettivi Umwelten). Nell’approfondimento dell’antropologia delle linee avanzato da Ingold la nozione di “mesh” subisce un processo di estensione, deformazione ed esplosione[49]: da modello elaborato per spiegare la connessione degli oggetti tecnici, a figura centrale di espressione di ogni forma vivente sino a diventare schema di espressione delle mutazioni atmosferiche. In questo senso, è utile ricordare che per Ingold il mesh non rappresenta un macrorganismo, né una sussunzione delle parti in una superiore totalità, ma una inter-penetrazione delle entità, una zona di indistinzione e trasformazione[50]. La percezione della realtà in termini di tracce, trame, intrecci – dalla proiezione di luminose catene immaginarie fra una stella e l’altra, alla costruzione di sigilli magici, alla chiroscopia, o ad altre forme di mantica – è l’operazione più diffusa della razionalità analogica dei collettivi non-moderni[51]. Il potere moderno, coloniale, naturalista, invece, tende a contrarre il mesh in un sistema ordinato (una struttura, una scacchiera, una cartografia), distruggendo l’originario intreccio di organismi, mitologie, e relazioni ecologiche visualizzato dalla “scienza del concreto” premoderna[52]. L’universo che emerge dalla prospettiva del mesh dell’antropologo britannico implica un’importante riconsiderazione della teoria dell’evoluzione darwiniana: in luogo di considerare classi separate come individui, regni, specie, biomi, bisogna considerare le singole entità come vortici in un flusso[53]. Inoltre, queste entità, di fatto non esistono in quanto oggetti stabili, ma si mescolano continuamente in una confluenza di flussi inarrestabile[54]. Di fatto la figura del mesh descrive una posizione di traduzione, mediazione e relazione che diventa il perno di un modello morfologico e ontogenetico[55]:

[…] a movement of generation and dissolution in a world of becoming where things are not yet given – such that they might then be joined up- but on the way to being given. It is an interstitial differentiation, a fission/fusion reaction, a winding and unwinding, inhalation and exhalation, flowing one way in a direction orthogonal to the double arrow of between but with no final destination[56].

 

La stessa figura di un universo fluido, intrecciato e in movimento, la ritroviamo nella nozione di mélange metafisico di Emanuele Coccia:

Tout y est fluide, tout y existe en mouvement, avec, contre ou dans le sujet. Il se définit comme élément ou flux s’approchant, s’éloignant ou accompagnant le vivant, lui-même flux ou partie d’un flux. C’est un univers à proprement parler sans choses, un énorme champ d’événements à intensité variable[57].

 

E nuovamente, con una portata ontologica che si sposta dal mondo delle relazioni intra ed extra-specifiche delle specie biologiche a quello della fisica quantistica, in Timothy Morton:

The symbiotic real is a weird “implosive whole” in which entities are related in a non-total, ragged way. (I’ll be defining “implosive holism” throughout.) In symbiosis, it’s unclear which is the top symbiont, and the relationship between the beings is jagged, incomplete. Am I simply a vehicle for the numerous bacteria that inhabit my microbiome? Or are they hosting me?[58]

 

  1. Cooperare nella complessità

Come abbiamo visto, è possibile far emergere l’immagine del dark mesh a partire dalla confluenza di una riflessione sui limiti della conoscenza umana (l’oscurità dei fenomeni climatici e tecnologici), e di un tentativo di “entrare nel flusso” di questa complessità (il nuovo materialismo naturalista di Ingold, Morton e Coccia). Evidentemente, da un punto di vista storico-concettuale, il rizoma[59] di Deleuze e Guattari concentrava molte delle caratteristiche della metafisica della mescolanza che abbiano brevemente ricostruito nel paragrafo precedente. Ciò che l’Ontological turn, l’Objet-oriented-ontology e il New materialism apportano all’originaria intuizione dei due filosofi francesi è una torsione oscura, ovvero l’attestazione dell’impossibilità dei modelli, per quanto estesi, eterogenei e transdisciplinari, di cogliere un tratto unitario e permanente nella dispersione delle entità fluide. Questa oscurità è duplice: in parte prodotto dei Big Data e della nostra impossibilità di modellizzazione (Bridle) e in parte perché questa impasse si trasforma in vero e proprio orrore (Thacker). Volendo provare a delineare una nuova cartografia dei mille plateaux della contemporaneità non potremmo che generare un modello impreciso, affrettato e incompleto, un colpo d’occhio su un frammento di realtà molto più vasta e inconoscibile.

a. Da un punto di vista fisico, la non-località quantistica ci espone a uno scenario inquietante nel quale a condizioni estreme le entità si fondono fra loro[60], e la stessa nozione di spazio scompare per creare delle interconnessioni (entanglement) simultanee, senza passaggio di tempo[61].

b. Da un punto di vista biologico, le distinzioni fra individuo, specie e popolazioni possono scomparire[62] e lasciare spazio a relazioni di simbiogenesi, contrapposte alla cosiddetta “sintesi moderna” che descrive l’universo vivente come una «lotta spietata fra individui assetati di sangue»[63]. Sarebbe facile descrivere questo tipo di relazioni in termini di collaborazione altruistica[64], e mutuo appoggio[65], ma si tratta di un’operazione più complicata. Già Kropotkin individuava una tendenza ambigua nella cooperazione biologica[66]: alcuni animali sembrano collaborare per un fine più alto (quello della sopravvivenza della specie), così come alcune società umane (quelle premoderne) esibiscono più facilmente principi egualitari e partecipativi. La questione, come già evidenziato da Morton[67], è come ripensare in termini inumani la relazione di inter-passività degli organismi. La biologia e la psicologia evoluzionistica contemporanee[68], quando non appiattite al modello iper-individualista del gene egoista, rivelano una complessità inaspettata, espressa sinteticamente in una frase di Donna Haraway:

[…] everything is connected to something, which is connected to something else. While we may all ultimately be connected to one another, the specificity and proximity of connections matters— who we are bound up with and in what ways[69].

 

Non si può erigere a principio fondamentale della biologia, della politica e dell’ontologia un’attitudine universalmente altruistica o predatrice, bisogna osservare nel dettaglio i singoli attanti, la qualità e la quantità delle loro relazioni, senza far intervenire presupposizioni ideologiche o modelli precostituiti. Nell’osservare il rapporto simbiotico fra api e orchidee si può parlare di reciproco inganno, oppure tentare di immaginare nuovi modelli di respose-ability[70]. Allo stesso tempo, nel giudicare l’erogazione del mutuo aiuto nelle relazioni interspecifiche e intraspecifiche, bisogna considerare l’ambiente, il numero degli individui di un gruppo, quantità e qualità delle interazioni[71]. Ad esempio, è noto che i corvi emettano dei segnali acustici appena trovano delle carcasse (risorsa di cibo scarsa nel loro ambiente): in luogo di voler appiattire tutto all’auto-riproduzione di un’identità (individuale, di specie, o di gruppo), bisognerebbe considerare, da un punto di vista ecologico e femminista, che le motivazioni di questo gesto apparentemente contro-intuitivo e gratuito possono essere complesse, molteplici, contraddittorie e infine parzialmente insondabili: un desiderio di condivisione, una forma di cura, un bisogno di contribuire al bene comune o di ripagare i debiti passati.

  1. Da un punto di vista teologico e metafisico, bisogna sostituire la trascendenza con la “subscendence[72], ovvero l’idea all’interno di un rapporto mereologico le parti possano rivelarsi più grandi del tutto. Per questo è necessario decostruire la concezione angelica della fusione collettiva dell’intelligenza della specie umana[73]. Questa modalità teologica di pensare e la Singolarità Tecnologica e il General Intellect (la fusione delle mente in un unico macrorganismo senziente nell’angelologia di Averroè[74]) come un mélange di organismi[75] nei termini della pericoresi delle figure trinitarie, rischia di rendere indistinta e anonima ogni individualità. Il pensiero tentacolare e nebuloso, invece, nega quest’essenza singolare-plurale, nega quindi che ogni ente, indifferentemente, partecipi della stessa co-essenzialità[76]. Piuttosto: ogni flusso si altera a piacimento, si cristallizza, può diventare muta o essere alienato, agire in modo sacrificale o predatorio, perire o rinascere, restando sempre in relazione con qualcosa, nei modi locali ed eterogenei che gli sono concessi.

 

  1. Mitologia fluida

Nella descrizione del modo di produzione capitalista, Marx utilizza l’esempio del direttore d’orchestra all’altezza del capitolo dedicato alla cooperazione[77]: costui governa l’apparente brulichio melodico degli orchestranti imponendo loro un ordine e una struttura. In Mille Plateaux, Deleuze e Guattari menzionano la «valutazione anticipante»[78] dell’apparato di cattura, in riferimento al processo di omologazione delle differenze ed estrazione del surplus di produzione/desiderio. In questo articolo si è tentato di proporre non tanto uno stile di pensiero o una teoria, quanto un insieme caleidoscopico di prospettive (ontologiche, biologiche, antropologiche, fisiche) con l’intenzione di affrontare l’apparente oscurità del mesh tecno-biologico, per opporre un’epistemologia alternativa all’egemonia del Realismo Capitalista[79]. In conclusione, vorremo provare a evocare un’ultima figura che idealmente si combina con la citazione di Lévi-Strauss posta in esergo.

Ciò di cui il capitale vuole appropriarsi è, in ultima analisi, quella confusione caotica di suoni e quella molteplicità di differenze descritte da Marx, Deleuze e Guattari. Questa “sostanza dai molti nomi” è desiderio, tempo, lavoro, attenzione, relazione, produzione, natura, vita, materia. Dentro l’Antropocene le distinzioni sembrano dissolversi, cosicché gli attributi gotici e mostruosi coi quali Marx dipingeva il Capitale potrebbero essere estesi allo stesso climate change o, in generale, a tutto ciò che esiste. Le storie, come la vita degli organismi, osserva Ingold, si rassomigliano[80]. Le intricate operazioni di trasformazione dei miti, delle immagini oniriche e delle specie biologiche sembrano esibire una certa «somiglianza di famiglia»[81]. Un mito, un’immagine, un simbolo, una forma biologica non hanno origine: la loro apparente essenza si perde nelle ramificazioni che li hanno preceduti e che li seguiranno. Questa potenza trasformativa è l’essenza della ninfa fluida di cui parla lo storico dell’arte francese Didi-Huberman: una potenza sempre alienabile, estraibile, catturabile, che vive in uno stato di perenne precarietà ontologica. La ninfa/baccante che migra dai bassorilievi greci alle tele di Botticelli è identificata dagli iconografi per via della «brezza immaginaria» che muove le sue vesti. La ninfa, ovvero la Pathosformel originaria ricercata da Aby Warburg, non si può catturare perché non descrive un simbolo o un’allegoria, ma l’intreccio di un evento atmosferico (una brezza improvvisa) e una passione ambivalente (l’amore e la vendetta). La ninfa conserva un carattere oscuro[82], che lega la sua natura femminea alle inquetanti divinità ctonie invocate da Donna Haraway[83] come icone femministe dell’Antropocene. Artemide, Medusa, la Signora delle Bestie, Potnia Theron: il mostro a cui Perseo mozza la testa per farne uno scudo con l’aiuto di Atena. Ma i simboli, le immagini e i miti, così come ogni entità nell’epoca dell’Antropocene sopravvivono sempre in una forma spettrale[84], ovvero condivisa fra vita e non vita e sparpagliata oltre i confini delle specie, delle classi, dei generi, degli individui e delle nazioni.


[1] C. Lévi-Strauss, Mythologiques 4. L’homme nu, Plon, Paris 1971, p. 576.

[2] D. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: the Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, pp. 183–203.

[3] É. Hache (a cura di), De l’univers clos au monde infini, Ed. Dehors, Paris 2014; M. Wark, Molecular Red: Theory for the Anthropocene, Verso, London, 2015; B. Latour, Face à Gaïa: huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris 2015; J.W. Moore, Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital, Verso, London-New York 2015; D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham 2016; R. Beau, C. Larrère (a cura di), Penser l’Anthropocène, Les Presses de Sciences Po, Paris 2018.

[4] D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, in «Critical Inquiry», XXXV, 2, 2009, pp. 197–222; Id., Climate and Capital: On Conjoined Histories, in «Critical Inquiry», XLI, 1, 2014, pp. 1–23.

[5] S. Lewis, M. Maslin, Defining the Anthropocene, in «Nature», DXIX, 2015, pp. 171–180; T. Guariento, La disarmonia del mondo. L’Antropocene e l’immagine premoderna della natura, in «Lo Sguardo», XXII, 3, 2016, pp. 13–32.

[6] E. Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta (2011), tr. it. Nero, Roma 2019.

[7] T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World, Univ Of Minnesota Press, Minneapolis 2013.

[8] J. Bridle, New Dark Age: Technology and the End of the Future, Verso, London - New York 2018.

[9] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (2014), tr. it. Nottetempo, Milano 2017, pp. 75-76.

[10] T. Guariento, Le rovine del tempo. Catastrofi, previsione, singolarità e realismo speculativo: dalla crisi dell’immaginario all’immaginario della crisi, in «Lo Sguardo», XXI, 2, 2016, pp. 174–175.

[11] E. de Martino, La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977. Per una versione più aggiornata dell’argomentazione dell’antropologo napoletano, si veda D. Balicco, Nietzsche a Wall Street: letteratura, teoria e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2018.

[12] Su questo punto si può vedere la contrapposizione fra “mondo magico” e “mondo tecnico” delineata da Federico Campagna, e in particolare la sua analisi del simbolo in Jung, Cassirer, Eliade e Lévi-Strauss: F. Campagna, Technic and Magic: the Reconstruction of Reality, Bloomsbury Academic, London 2018, pp. 147–156.

[13] F. Berardi, Futurability: the Age of Impotence and the Horizon of Possibility, Verso, London-New York 2017, pp. 76-77.

[14] J. Bridle, op. cit., pp. 49-51.

[15] Ibid., p. 74.

[16] Ibid., p. 186.

[17] P. Frase, Four Futures: Life After Capitalism, Verso, London-New York 2016.

[18] Per un precedente tentativo di categorizzazione dell’immaginario scientifico-politico legato al cambiamento climatico, rimandiamo a T. Guariento, Voir le refuge. Culture visuelle de l’Anthropocène entre catastrophe et construction des niches in R. Beau, C. Larrère (a cura di), Penser l’Anthropocène, cit., pp. 173–197.

[19] T. Ligotti, The Conspiracy against the human Race: a Contrivance of Horror, Hippocampus Press, New York 2011.

[20] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, op. cit., pp. 76-93.

[21] E. Thacker, op. cit., pp. 13-17.

[22] M. Fisher, The Weird and the Eerie, Watkins Media Ltd, London 2016.

[23] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, op. cit., pp. 104-125.

[24] P. Frase, Four Futures, op. cit.

[25] http://www.thedarkenlightenment.com/the-dark-enlightenment-by-nick-land/

[26] https://www.unqualified-reservations.org/2008/11/patchwork-positive-vision-part-1/

[27] N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro: per un mondo senza lavoro (2015), tr. it. Nero, Roma 2018.

[28] T. Guariento, Le rovine del tempo, cit., pp. 175-180; Id., Introduzione al pensiero di Nick Land, in «Lo Sguardo», XXIV, 2, 2018, pp. 249–268.

[29] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, op. cit., pp. 233-250.

[30] I. Stengers, Au temps des catastrophes résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2009; Id., Une autre science est possible!: manifeste pour un ralentissement des sciences, La Découverte, Paris 2017.

[31] P. Descola, Cognition, Perception and Worlding, in «Interdisciplinary Science Reviews», XXXV, 3–4, 2010, pp. 334–340.

[32] M. Holbraad, M. A. Pedersen, The ontological Turn: an anthropological Exposition, Cambridge University Press, Cambridge 2017; P. Charbonnier, S. Gildas, P. Skafish (a cura di), Comparative Metaphysics: Ontology after Anthropology, Rowman & Littlefield International, London 2017.

[33] P. Descola, Humain, trop humain, in R. Beau, C. Larrère (a cura di), Penser l’Anthropocène, cit., p. 27.

[34] D. Danowski, E. Viveiros de Castro, op. cit., p. 216.

[35] P. Kropotkin, Scienza e anarchia (1901), tr. it. Elèuthera, Milano 2011, pp. 141-143.

[36] M. Bookchin, L’ecologia della libertà: emergenza e dissoluzione della gerarchia (1982), tr. it. Elèuthera, Milano 2010, pp. 81-108.

[37] Ibid., p. 363.

[38] H. Hester, Xenofeminism, Polity Press, Cambridge 2018, p. 12.

[39] Id., SAPIENCE + CARE, in «Angelaki», XXIV, 1, 2019, pp. 67–80.

[40] Ibid., p. 72.

[41] Pseudo-Dionigi Aeropagita, Gerarchia celeste; Teologia mistica; Lettere, L. Salvatore (a cura di), Città Nuova, Roma 1986, p. 110.

[42] J. Bridle, op. cit., p. 9.

[43] E. Thacker, op. cit., p. 176 e 177.

[44] P. Boitani (a cura di), La nube della non conoscenza, Adelphi, Milano 1998.

[45] F. Campagna, op. cit., pp. 181-186.

[46] J. Bridle, op. cit., p. 5.

[47] T. Morton, Hyperobjects, cit., p. 83.  

[48] T. Ingold, Lines: a brief History, Routledge, New York 2007, p. 80.

[49] Id., The life of lines, Routledge, New York 2015, p. 87.

[50] Ibid., p. 10.

[51] Id., Lines, cit., p. 50.

[52] Ibid., p. 81.

[53] Ibid., p. 117.

[54] Id., The Life of Lines, cit., p. 14.

[55] P. Descola, T. Ingold, Être au monde, quelle expérience commune? Débat, Presses universitaires de Lyon, Lyon, 2014, p. 20.

[56] T. Ingold, The life of lines, cit., p. 147.

[57] E. Coccia, La vie des plantes: une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris, 2016, p. 47.

[58] T. Morton, Humankind: Solidarity with non-human People, Verso, London 2017, p. 1.

[59] G. Deleuze, F. Guattari, Capitalisme et Schizophrénie, tome 2: Mille Plateaux, Editions de Minuit, Paris 1980, pp. 9–38.

[60] T. Morton, Hyperobjects, cit., p. 42.

[61] Ibid., p. 45.

[62] A. Tsing, The Mushroom at the End of the World: on the Possibility of Life in capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2017, pp. 138–144.

[63] Ibid., p. 28.

[64] P. Kropotkin, op. cit., p. 80.

[65] Ibid., p. 81.

[66] Ibid., p. 119.

[67] T. Morton, Humankind, cit., pp. 175-176.

[68] R. Trivers, The Evolution of Reciprocal Altruism, in «The Quarterly Review of Biology», 46, 1, 1971, pp. 35–57; M. A. Nowak, Five Rules for the Evolution of Cooperation, in «Science», 314, 2006, pp. 1560–1563.

[69] D. Haraway, op. cit., p. 173.

[70] Ibid., p. 68.

[71] T. van Dooren, V. Despret, Evolution: Lessons from Some Cooperative Ravens https://www.academia.edu/19702356/Evolution_Lessons_from_Some_Cooperative_Ravens

[72] T. Morton, Humankind, cit., pp. 102-114.

[73] P. Virno, Gli angeli e il general intellect, in «Forme di vita», V, 2006, pp. 171–180.

[74] G. Agamben, Mezzi senza fine: note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 18-19.

[75] E. Coccia, op. cit., pp. 176-177.

[76] J.-L. Nancy, Essere singolare plurale (1996), tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 7.

[77] K. Marx, Il capitale: critica dell’economia politica, tr. it. Newton Compton, Roma 2015, p. 249.

[78] G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 546.

[79] M. Fisher, Realismo Capitalista (2009), tr. it. Nero, Roma 2018.

[80] T. Ingold, Lines, cit., p. 90.

[81] G. Didi-Huberman, Ninfa fluida: essai sur le drapé-désir, Gallimard, Paris 2015.

[82] R. Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005.

[83] D. Haraway, op. cit., pp. 53-54.

[84] T. Ingold, Humankind, cit., pp. 81-93.

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