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Vedere l’Antropocene, immaginare futuri. Note per un pensiero critico della crisi ecologica

Autore


Alice Dal Gobbo - Emanuele Leonardi

Università di Trento - Universidade de Coimbra, Portugal

ALICE DAL GOBBO svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento EMANUELE LEONARDI svolge attività di ricerca presso il Centro de Estudos Sociais - Universidade de Coimbra, Portugal

Indice


  1. Introduzione
  2. Il sintomo-Antropocene e un suo paradosso
  3. Capitalismo cognitivo e governamentalità neoliberale: quando si può vedere l’Antropocene?
  4. Conclusioni. Ri-pensare la Terra

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Seeing the Anthropocene, imagining Futures. Notes towards a critical Thinking of the ecologic Crisis


The Anthropocene discourse has rapidly become popular and common to very diverse kinds of knowledge. It is nonetheless a very contested category. Starting from the critique that political ecology has moved to it, we reflect upon its narrative’s blindspots and find that they can be seen as a symptom of a more general impasse of the neoliberal governance of nature and of the ecologic crisis. On the one hand, the narrative of the Anthropocene brings about a poshumanist vision that potentially decentres anthropocentrism. On the other, this same possibility becomes vehicle for increasingly profound and less reflexive intervetions by human beings on the biosphere, in particular via technoscientific develpments. This paradox seems to respond to a specifically capitalist necessity of valorising “Nature”, while not being conducive to concrete solutions to the ecologic crisis. But if we are first able to see the Anthropocene in the present historical phase, and thanks to specific kinds of knowledge that emerge now – then the very issue of knowledge is central to inventing new and more ecological ways of (re)embedding ourselves in the world. What ways of knowing can comprehend the emancipatory characters of the posthumanist implications of the Anthropocene and at the same time avoid tendencies towards the domination of the biosphere?

  1. Introduzione

Antropocene. Il termine ha ormai inondato il discorso accademico ma anche la quotidianità comunicativa oltre di esso. Nasce nelle hard science da una volontà di dare un nome alla nuova era geologica, definita dall’impatto delle attività umane. Il concetto conquista però velocemente spazio nel dibattito politico, sociologico ed ecologico perché presenta criticità che interrogano i nostri modi di chiamare il presente, la crisi ecologica sempre più dirompente, i nostri saperi su di essa e infine le pratiche costruttive, ri-costruttive, adattive e trasformative che necessariamente dovranno essere messe in atto nei decenni a venire[1]. Il fatto che l’Antropocene si faccia studiare da più prospettive contemporaneamente, che le domande (e risposte) di ricerca provenienti da discipline tra le più disparate si intreccino in modo finora inusitato – questi fatti già indicano un carattere peculiare di una “scoperta” letteralmente epocale. È una questione al contempo chimica, geologica, politica, letteraria, sociologica, artistica: ciò di per sé suggerisce l’impossibilità di pensare l’evoluzione della biosfera come un ambito separato e separabile dalla società e dalla storia umane che con essa co-emergono. Tale spazio di ridefinizione dell’umano rispetto al non-umano spinge il dibattito intellettuale verso prospettive postumaniste che suggeriscono un decentramento della visione essenzialista di “umanità”: si mettono invece in luce la relazionalità dell’esistenza biologica, le ibridazioni costanti tra corpi umani e tecnologia, l’inscindibilità di organizzazione sociale ed ecologica[2].

D’altro canto, proprio tale fioritura di interrogazioni pare suggerire la necessità di un costante lavoro di scioglimento: trovare i nodi dell’Antropocene, i suoi lati oscuri, i non detti. E ciò per altro non in quanto speculazione fine a sé stessa, ma con un’urgenza pratica, una necessità, anch’esse poche volte riscontrata nella storia umana: la posta in gioco è molto concreta ed è la sopravvivenza di buona parte vita sul pianeta. In questa proliferazione discorsiva la questione del sapere, della conoscenza, ci appare centrale[3], ci suggerisce che sia più utile pensare l’Antropocene non tanto come una realtà fattuale ma piuttosto come una costruzione discorsiva che in quanto tale ha degli effetti materiali e politici. La riflessione a seguire parte da una disamina del discorso-Antropocene, si sposta poi alla considerazione del suo emergere: quali problematizzazioni, “regimi di visibilità”, dispositivi di sapere/potere gli corrispondono[4]? Su questa base, proponiamo qualche iniziale considerazione circa modi di conoscenza più adatti a rispondere alla crisi (del) presente.

 

  1. Il sintomo-Antropocene e un suo paradosso

Nella disamina della costruzione discorsiva, scientifica e politica, dell’Antropocene notiamo un singolare paradosso. Vi si definisce la nuova era geologica come quella in cui l’essere umano diventa “visibile” in modo preponderante nella configurazione del suo ambiente biofisico. In questo senso, esso diventa un agente geologico tra altri, seppur più determinante[5]. Ora, tale riconoscimento è potenzialmente di grande portata poiché dicendo l’essere umano agente geologico, le scienze naturali “scoprono” una posizionalità che l’essere umano si è per secoli negata: essere una forza naturale tra le tante[6]. Cade quella narrazione di eccezionalismo umano che, soprattutto a partire dalla modernità, vede l’Uomo (bianco, maschio, eterosessuale) separarsi nettamente da quella che egli stesso definisce Natura, e sulla base di questa separazione esercitarvi il proprio domini[7]. Emerge una visione di esseri umani immersi, interrelati, dinamicamente co-emergenti con la biosfera: il loro incontro si materializza in forma di singolare concrezione, strato di roccia, concentrazione di CO2. Tale discorso quindi tende ad antropodecentrizzare e mette addirittura in discussione le capacità di controllo, riflessività, intenzionalità e deliberazione che hanno segnato la narrazione del progresso e dello sviluppo negli ultimi secoli[8]. Ciò accade non a caso proprio nel momento in cui l’Uomo, immaginandosi all’apice del suo controllo del Mondo-Natura, scopre di averne messo a repentaglio la sopravvivenza.

Tuttavia, il discorso dell’Antropocene mette in campo simultaneamente delle proposte che poco hanno a che vedere con un decentramento dell’essere umano. Infatti, la sua narrazione passa subito a evidenziare che gli effetti pur catastrofici dell’azione tecnoscientifica recente sono a ben vedere l’espressione del potere dell’Uomo – persino in grado di alterare gli equilibri della Terra. La soluzione è quindi più tecnica, più scienza: più dispiegamento di questo formidabile potere. Si re-instaurano agency, potere e controllo dell’Uomo proprio alla soglia della loro destituzione[9]. Questa è l’aporia dell’Antropocene, questo il motivo per cui esso non può esserci d’aiuto nell’affrontare il lavoro di cura e riparazione che dobbiamo iniziare con (non su) la nostra terra né nel tracciare nuove forme di organizzazione socio-ecologica. Ma questa è anche l’aporia che ci suggerisce di individuare nell’Antropocene un sintomo di un’epoca storica da criticare e superare[10].

 

  1. Capitalismo cognitivo e governamentalità neoliberale: quando si può vedere l’Antropocene?

Il quadro sintomatologico appena delineato mostra con chiarezza che la scelta del punto d’origine dell’Antropocene non riguarda soltanto la riflessione geologica in senso stretto, ma anche (e forse soprattutto) il dibattito politico. In ogni definizione, in ogni datazione convivono infatti l’esigenza scientifica di classificazione (attraverso una serie di criteri di selezione coerenti) e l’irriducibile dinamica politica che innerva i diversi stili di governance. Come sottolineato da Mariaenrica Giannuzzi[11], ogni mito di fondazione esprime un’interpretazione situata e non-neutrale dell’interazione tra specie umana, ambiente globale e modo di produzione capitalistico. Per esempio, a periodizzazione braudeliana di Jason W. Moore[12], corroborata dalla brillante intuizione di Simon Lewis e Mark Maslin[13] – l’Antropocene comincia nel lungo XVI secolo – concentra la propria critica sul dualismo cartesiano che ha contrapposto natura e società. Quella “industrialista” suggerita dai marxisti Andreas Malm e Alf Hornborg[14], non immune tuttavia da tentazioni tecnocratiche quali quelle espresse da Paul Crutzen[15] – l’Antropocene comincia nel 1874, con la macchina a vapore – individua nella Rivoluzione (energetico-)Industriale il proprio principale oggetto polemico. Infine, quella globalista avanzata tra gli altri da Will Steffen, John McNeill e colleghi[16] – l’Antropocene comincia nel secondo dopoguerra con la Grande Accelerazione – indica nella tendenza economica, sia fordista sia neoliberale, all’espansione di scala il principale problema ecologico del nostro presente.

Ognuna di queste tre posizioni presenta vantaggi e svantaggi, che abbiamo analizzato altrove e che attraggono buona parte degli sforzi interpretativi profusi nel dibattito[17]. Qui vorremmo porre, però, un quesito diverso: non quando la nuova era sarebbe cominciata, bensì quando ha cominciato a vedersi. Infatti, a prescindere dall’opzione prescelta, c’è accordo unanime sul fatto che la problematica convogliata dalla nozione di Antropocene sia emersa sul finire degli anni Ottanta del Novecento[18], per poi farsi via via più pressante col passaggio di secolo. Poniamo tale questione avendo in mente, come riferimenti metodologici, sia la centralità posta da Foucault sul rapporto tra potere e visibilità[19], sia l’indicazione marxiana secondo cui è l’anatomia dell’uomo a spiegare quella della scimmia, non viceversa[20] – il che nel nostro ragionamento significa che è la governance neoliberale a spiegare l’Antropocene, non viceversa.

Per comprendere il regime di visibilità che costruisce l’Antropocene come fenomeno geologico-politico rilevante occorre in primo luogo segnalarne le differenze rispetto al regime precedente. E, se si parla di crisi ecologica, a una prospettiva materialista conviene partire dal nesso valore-natura, cioè dal rapporto che l’economia politica istituisce tra ambiente/biosfera e accumulazione di capitale (e poi ovviamente dal suo sviluppo storico). Secondo gli economisti classici la relazione tra natura e valore vede la prima fungere da risorsa non contabilizzata – “infinita e gratuita”, nelle parole di Ricardo – sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia alla fine (smaltimento dei rifiuti della produzione). In questo modello la natura è, per dirla con Moore[21], natura sociale astratta e in quanto tale condizione del valore. Fonte del valore è invece il lavoro sociale astratto, cioè capacità lavorativa umana organizzata dal capitale attraverso la forma-salario. Vale la pena di sottolineare la necessità, per questo regime di visibilità ecologico, che l’ambiente/biosfera sia trasformata attraverso l’astrazione in risorsa infinita e gratuita: è su questa base, infatti, che il paradigma della produzione per la produzione ha potuto affermarsi come obiettivo politico ragionevole, e che successivamente la crescita economica ha potuto imporsi come panacea di tutti i mali, a prescindere dalla sua destinazione sociale (welfare keynesiano fino agli anni Settanta o assolutismo dell’impresa negli ultimi decenni). Non dovrebbe inoltre essere difficile scorgere il nesso di filiazione diretta tra l’espansionismo della sfera produttiva e l’esplosione della crisi ecologica tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del Novecento[22].

È evidente che questo quadro di riferimento sia oggi profondamente mutato. E non è un caso che, benché noto fin dal XIX secolo, il cambiamento climatico sia diventato un problema pubblico, una questione politicamente visibile solo a partire dagli anni Ottanta, cioè nel momento in cui la razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo per il capitale dentro a una “crisi di riproduzione” (cioè: ecologica)[23] creata dal capitale stesso. Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e altre forme di mercificazione della natura) – l’Antropocene ha potuto finalmente diventare l’orizzonte dell’accumulazione “sostenibile”.

Si tratta di una mutazione politico-epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule sviluppo sostenibile e green economy – che pensiamo possa essere spiegata sulla base della trasformazione del nesso valore-natura descritto sopra. Esso infatti non si presenta più nella forma classica della subordinazione della sfera riproduttiva a quella produttiva (infinita e gratuita la prima, finita e pagata la seconda), ma anche nelle nuove sembianze del capitalismo cognitivo[24]. In questo contesto alcuni elementi della riproduzione sociale, mischiandosi per l’appunto a lavoro cognitivo e sottoposti dunque allo sfruttamento, finiscono per diventare elementi diretti della valorizzazione capitalistica. Ciò del resto non può stupire se si considera il ruolo fondamentale svolto dalla computazione digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale. Come ha mostrato lo storico Paul Edwards[25], nessuno vive un’esperienza atmosferico-planetaria senza il supporto della scienza climatica. Affinché si possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una mobilitazione su larga scala del general intellect nelle sue diverse forme (cioè le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks, contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). Come è ovvio, una tale dipendenza dal sapere non riduce in nulla la concreta materialità dei mutamenti climatici, né per quanto riguarda l’individuazione delle loro multiple cause, né in riferimento al portato distruttivo dei loro eterogenei effetti. Rimane tuttavia il fatto che, con le parole di Matteo Pasquinelli, «la percezione politica dell’Antropocene è possibile solo grazie a una rete globale (apparentemente neutra) di sensori, data center, super-computer e istituzioni scientifiche»[26].

Ma se l’Antropocene è una performatività che non esisterebbe senza il lavoro cognitivo che lo (ri)produce, la disamina del suo essere sintomo ci spinge ancora oltre nell’analisi storico-sociale e politica del suo emergere. Infatti, con Foucault possiamo sostenere che il sapere è strettamente connesso al potere[27]. Occorre quindi interrogarsi su che tipo di potere sottenda all’emergere e al proliferare della narrazione antropocenica. Cui prodest? Il nostro suggerimento è che non solo l’esistenza ma anche il “successo” dell’Antropocene siano legati alla governamentalità neoliberale e ai processi di neoliberalizzazione cui sono state sottoposte la biosfera e le comunità umane che la abitano a partire dagli anni ’70[28]. Uno dei dogmi che struttura la logica di azione neoliberale è quello secondo cui il cosiddetto “libero mercato”, subordinando a sé l’intera produzione, autoregolandosi produce effetti ottimali per tutti gli attori in campo[29]. Tale dogma ha una ricaduta diretta sulla crisi ecologica e sul suo governo dal momento che promuove l’eliminazione di barriere non economiche alla valorizzazione, tra le altre cose della Natura: la convinzione è che l’inclusione delle cosiddette “risorse naturali” e delle attività riproduttive della biosfera all’interno dell’economia, attribuendo loro un giusto prezzo, le salvi dallo sfruttamento eccessivo a cui sono state precedentemente sottoposte. Nei fatti, tale cambiamento del nesso lavoro-natura-valore è funzionale al rilancio dei processi di valorizzazione necessari dopo le crisi degli anni ’70: da un lato de-regolamenta lo spazio di azione economica sulla “natura” slegandola da vincoli sociali e politici di deliberazione collettiva; dall’altro apre a nuove frontiere di sussunzione della biosfera al capitale[30].

Si verifica a questo punto un mutamento delle categorie ontologiche ed epistemologiche che guidano l'interpretazione e la costruzione del mondo. In questo contesto, la narrazione dell’Antropocene e il suo sintomatico paradosso possono essere visti come abilitatori e intensificatori della fase attuale di governance della natura. La rimozione della rigida distinzione prima posta tra Uomo e Natura costituisce un’apertura degli orizzonti di valorizzazione capitalistica: essa inaugura un certo postumanismo neoliberale in cui la “natura”, non più esistente indipendentemente dagli esseri umani, si apre fluidamente ai processi tecnoscientifici che la plasmano[31]. Dire allora che l’essere umano è un agente geologico capace di cambiare la storia evolutiva del pianeta diventa funzionale a questa (con)fusione tra natura e società che giustifica sperimentazioni e manipolazioni sempre più ardite di impasti umani, più-che-umani, trans-umani in vista di qualcosa di “troppo umano”: la valorizzazione. A questo punto, mentre la costruzione onto-epistemologica postumanista potenzialmente implica un decentramento e una ritrovata umiltà dell’umano di fronte al resto della natura[32], riemergono surrettiziamente elementi che denegano questa potenzialità. Uno di questi è un concetto chiave della governamentalità neoliberale, che emerge in sordina ma tuttavia in modo pervasivo: quello di responsabilità[33]. Si invoca l’(auto)controllo dell’individuo, dell’Umanità, della tecnoscienza rispetto alle proprie azioni; si rimette alle loro scelte il destino del pianeta. In altre parole, si re-istituisce in extremis l’autonomia sovrana appena infirmata dal riconoscersi implicati in processi terrestri.

A sua volta, questa mossa è funzionale alla perpetuazione e promozione di politiche dei corpi-natura volte a manipolazione e dominio in funzione di particolari progetti e al mantenimento dello stato di cose attuali, naturalizzandole e oscurandone il carattere politico. Gli esseri umani si muovono all’interno di un ambiente in larga parte costruito, dentro assemblaggi semiotico-materiali in larga parte dati, sulla base di co-implicazioni e inter-dipendenze da cui la scienza e la tecnica non possono prescindere[34]. Responsabilizzare il singolo significa non mettere in questione la strutturazione del suo mondo, l’architettura del suo spazio di scelta, la costruzione sociale della sua soggettività e dei suoi desideri[35]. Attribuire la responsabilità della crisi ecologica a una generica Umanità ha l’effetto di nascondere come il capitalismo abbia piegato l’intero globo agli interessi di una minoranza di uomini bianchi attraverso diverse forme di imperialismo (anche ecologico)[36]. Ciò fa apparire l’espansione di modelli industriali e consumistici occidentali, a cui viene imputato il degrado ecosistemico a cui assistiamo, come un processo neutrale e semplicemente accettato, desiderato, da tutto il pianeta. Non si discute invece di come si tratti di un processo violento che annichilisce resistenze talvolta molto forti. Allo stesso modo, parlare di innovazione tecnoscientifica “responsabile” illude che sia possibile un’autoregolazione di questa sfera al di fuori di un dibattito collettivo politico circa i suoi fini più ampi e le sue implicazioni socio-ecologiche.

Si potrebbe infine dire che il paradosso dell’Antropocene risponde (almeno in parte) al paradosso neoliberale. Abbiamo da una parte la tensione verso una totale deregolamentazione della sfera economica, che può infiltrarsi in qualsiasi ambito e processo vitale, quindi tensione verso lo “scioglimento” della rigida dicotomia tra società e natura, operare umano e processi biologici – un certo postumanismo. D’altra parte, e simultaneamente, assistiamo a una spasmodica necessità di mantenere una posizione soggettiva di supremazia e controllo correlata a un nodo imprescindibile del capitalismo: il dominio per il profitto. Si tratta, volendo usare un lessico deleuziano-guattariano[37], di un processo di deterritorializzazione-riterritorializzazione che “salva” i processi che stanno alla base dell’accumulazione capitalista.

A questo punto si pone sempre più pressante la domanda: è l’Antropocene una narrazione adatta ad affrontare la crisi che stiamo vivendo? Deve piuttosto essere abbandonato in favore di differenti discorsi, maggiormente emancipatori?

 

  1. Ri-pensare la Terra

Siamo partiti dalla constatazione di un certo carattere paradossale dell’Antropocene: completa immanentizzazione dell’essere umano nei processi evolutivi della biosfera, decentramento dell’umano nella rete della vita, nelle sue co-dipendenze e insieme narrazione dominante che re-instaura la centralità dell’umano, il suo potere di controllo e trasformazione della biosfera. Abbiamo suggerito che l’Antropocene, più che una realtà data, è risultato di un discorso performativo: esiste in quanto discorso di verità la cui esistenza dipende da particolari dispositivi, quali il lavoro cognitivo. In quanto discorso di verità, esso fa capo a degli apparati di sapere/potere che rispondono a delle problematizzazioni storiche, nello specifico quelle riguardanti la neoliberalizzazione della natura. Da un lato questa narrazione risponde alle tendenze deterritorializzanti del neoliberalismo per cui le barriere ai processi di valorizzazione economica devono essere quanto più rimosse: per esempio, la netta dicotomia natura-civiltà decade e/o si fluidifica in corrispondenza di una inclusione della prima nell’economia in quanto fattore produttivo. Dall’altro lato, il postumanismo neoliberale che così si inaugura non può destituire completamente l’essere umano (maschio bianco proprietario) dei cui interessi è portatore. Di qui il riemergere della razza umana, responsabile delle sorti del pianeta e armata di quegli stessi strumenti tecnoscientifici che l’hanno portata al confine dell’autodistruzione, proprio nel momento in cui si illudeva di aver “conquistato il mondo”. Che di Umanità o razza umana si parli ha dal canto suo la funzione di depoliticizzare la crisi e le vie per affrontarla, in particolare di perpetuare l’ordine neoliberale come naturale e imprescindibile.

Dato il carattere profondamente aporetico del discorso sull’Antropocene si è proposto di rimpiazzare il suo nome: con termini quali Capitalocene, Plantatiocene, Chtulucene, era di Gaia e così via[38]. Tuttavia, forse il punto non è tanto destituire questo nome, quanto politicizzare la sua narrazione. Il superamento della dicotomia cartesiana tra Civiltà/Umanità e Natura (e correlate: umano e non-umano, mente e corpo, pensiero e materia, ecc.) può essere concepito come positivo momento di emancipazione dai dispositivi di sapere/potere che hanno costituito le basi del dominio sulla Terra nella modernità. D’altra parte, quello che abbiamo chiamato postumanismo neoliberale, pur (quanto meno in apparenza) superando questa dicotomia, non pare avere effetti emancipativi: al contrario, intensifica il raggio di azione dell’essere umano sul resto della biosfera, lo sgancia sempre più da qualsiasi tipo di limite. L’argomentazione proposta in questo articolo mette in luce un nodo cruciale dell'ontologia post-cartesiana che caratterizza il neoliberalismo: essa necessita di reintrodurre surrettiziamente un soggetto dominante che si faccia veicolo dei processi di accumulazione capitalistici.

Se dobbiamo quindi essere sospettosi di approcci epistemologici e ontologici che abbracciano il postumano senza problematizzarne la materializzazione storica contingente; ciò non significa che si debbano rigettare le ontologie postumaniste tout court.

È invece necessario, partendo da una genealogia critica delle categorie del presente, individuarne i nodi ove si innestano dinamiche di dominio, assoggettamento, sfruttamento. Un’onto-epistemologia che faccia i conti con l’inevitabile co-emergenza e co-costitutività di umano e non umano deve perciò, se non vuole cadere nella trappola neoliberale della valorizzazione senza limiti, interrogarsi contemporaneamente sull’emergenza di assemblaggi più-che-umani, concreti e contestuali, e insieme chiamare in causa la critica dell’economia/-ecologia politica del capitalismo contemporaneo. Far incontrare umano e non-umano sul comune terreno di una vita, e di un suo sapere, sottratti alla valorizzazione capitalista.


[1] B. Latour, I. Stengers, A. Tsing, e N. Bubandt, Anthropologists Are Talking – About Capitalism, Ecology, and Apocalypse, in «Ethnos. Journal of Anthropology», 83, 3, 2018, pp. 1-20.

[2] Cfr. D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham 2016; R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo: la prospettiva post-umanista, Edizioni Dedalo, Bari 2009; R. Braidotti, The Ethics of Becoming Imperceptible, in Deleuze and Philosophy, a cura di C. Boundas, Edinburgh University Press, Edinburgh 2006, pp. 133-159.

[3] Si veda anche P. N. Edwards, Knowledge infrastructures for the Anthropocene, in «The Anthropocene Review», 4, 1, 2017, pp. 34-43.

[4] M. Foucault, Power/Knowledge: selected interviews and other writings 1972-1977, a cura di Colin Gordon, Pearson Education Limited, Harlow 1980.

[5] O. Gaffney e W. Steffen, The Anthropocene equation, in «The Anthropocene Review», 4, 1, 2017, pp. 53-67.

[6] Nonostante questo non sia necessariamente e sempre avvenuto, come nel caso del dibattito geografico della fine dell’800 negli USA. Si veda S. Torre, Carl Ortwin Sauer, Un Segmento Ingenuo Di Realtà, Scritti di metodologia della ricerca geografica, Bonanno, Acireale-Roma 2007.

[7] Si veda S. Barca, L’Antropocene: una narrazione politica, in «Riflessioni Sistemiche», 17, 2017, pp. 56-67.

[8] Si veda anche P. Vignola, Figli di un Antropocene minore. Il “popolo a venire” come individuazione ecologica collettiva, in Ecologia. Teoria, natura, politica, a cura di I. Pelgreffi, Kaiak Edizioni, Tricase 2018, pp. 87-101.

[9] Cfr. L. Pellizzoni, Intensifying embroilments: Technosciences, imaginaries and publics, in «Public Understanding of Science», 26, 2, 2017, pp. 212-219.

[10] Cfr. E. Leonardi e A. Barbero. Introduzione. Il sintomo-Antropocene, in J.W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (2014), tr. it. ombre corte, Verona 2017.

[11]M. Giannuzzi, Antropop: filosofie non tristi per pensare il cambiamento climatico, in «Effimera», 2015 (http://effimera.org/anthropop-filosofie-non-tristi-per-pensare-il-cambiamento-climatico-di-mariaenrica-giannuzzi/) [ultimo accesso 5 Giugno, 2019]

[12] J.W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit.

[13] S. Lewis e M. Maslin, Defining the Anthropocene, in «Nature», 519, 2015, pp. 171-180. Secondo Lewis e Maslin la data d’inizio dell’Antropocene dovrebbe coincidere con l’Orbis spike [dal termine latino per “mondo”], cioè con la drastica riduzione della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera (con minimo storico registrato nell’anno 1610) dovuta al cosiddetto “scambio colombiano” [Columbian Exchange]. Con questo termine s’intende lo scambio e il miscuglio profondo di organismi vegetali e animali – ma anche di oggetti e idee – tra l’emisfero orientale e quello occidentale. Si tratta senza dubbio di un fenomeno ecologico di fondamentale importanza che prende il nome da Cristoforo Colombo, il cui primo viaggio verso le Americhe nel 1492 inaugurò l’era dei contatti su vasta scala tra Vecchio e Nuovo mondo. Dal punto di vista biologico, l’esito più rilevante di questo scambio è stata la globalizzazione del cibo: mais e patate si diffusero dalle America a Europa, Asia e Africa, grano e canna da zucchero fecero invece il percorso inverso. Stessa cosa per quanto riguarda l’importazione da parte del Nuovo mondo di animali domestici – cavalli, vacche, capre e maiali. Il risultato finale fu una radicale riorganizzazione della vita sulla Terra, senza precedenti da un punto di vista geologico. Il risvolto tragico di questo processo fu la decimazione della popolazione nativa delle Americhe: Lewis e Maslin stimano che sia passata, a causa di malattie, guerre, riduzioni in schiavitù e carestie – tutte portate dagli Europei – da circa 60 milioni nel 1492 a circa 6 milioni nel 1650. Le conseguenze immediate di questo genocidio – quasi scomparsa dell’agricoltura e semi-cessazione nell’uso del fuoco – comportarono la rigenerazione di circa 50 milioni di ettari di foreste, savane boscose e praterie, che a loro volte produssero un enorme assorbimento di anidride carbonica attraverso piante e suoli, quindi un impressionante abbassamento delle emissioni in atmosfera.

[14] A. Malm, e A. Hornborg, A Geology of Mankind? A Critique of the Anthropocene Narrative, in «The Anthropocene Review», 1, 1, 2014, pp. 62-69.

[15] P. Crutzen, Albed Enhancement by Stratospheric Sulfur Injections: a Contribution to Resolve a Policy Dilemma?, in «Climate Change», 77, 2006, pp. 211-220.

[16] W. Steffen, J. Grinevald, P. Crutzen e J. McNeill, The Anthropocene: Conceptual and historical perspectives, in «Philosophical Transactions of the Royal Society», 369, 2011, pp. 842-867.

[17] E. Leonardi e A. Barbero, op. cit.

[18] D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, «Critical Inquiry», 35, 2009, 197-222.

[19] S. Catucci, Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2019.

[20] K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[21] J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo (2010-2015), tr. it. ombre corte, Verona 2015.

[22] E. Leonardi, Lavoro Natura Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.

[23] A. Gorz, Ecologia e libertà (1977), tr. it. Orthotes, Napoli-Salerno 2015.

[24] Utilizziamo l’espressione capitalismo cognitivo per indicare una fase dell’accumulazione maggiormente dipendente che in passato dall’esproprio di conoscenza generale socialmente prodotta. Dato l’ampio dibattito emerso a questa problematica, avanziamo due precisazioni: in primo luogo, non v’è alcuna necessità che tale maggiore dipendenza si traduca nello sviluppo dei settori ad alto contenuto di conoscenza a scapito del lavoro manuale (abbiamo piuttosto assistito a un allargamento del bacino di lavoratori industriali); in secondo luogo, tale maggiore dipendenza non implica che la conoscenza sociale espropriata esprima automaticamente un grado più elevato di autonomia sociale rispetto al passato.

[25] P. Edward, A Vast Machine, Cambridge MA, MIT Press, 2010.

[26] M. Pasquinelli, The Eye of the Algorithm: Cognitive Anthropocene and the Making of the of the World Brain, 2014 https://www.academia.edu/8751480/The_Eye_of_the_Algorithm_Anthropocene_and_the_Making_of_the_World_Brain [ultimo accesso 31 maggio 2019].

[27] M. Foucault, op. cit.

[28] Facciamo riferimento a una specifica politica/processo di neoliberalizzazione pur consapevoli della molteplicità delle sue sfaccettature e del suo concretizzarsi in modi differenti dal momento che riteniamo che una simile logica sottenda a tutti questi processi, come si vedrà nel seguito. Si veda A. Blok - C. Bruun-Jensen, The Anthropocene event in social theory: On ways of problematizing nonhuman materiality differently, in «The Sociological Review», 2019 (https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0038026119845551). N. Heynen, J. McCarthy, S. Prudham e P. Robbins, Neoliberal Environments: False promises and unnatural consequences, Routledge, Oxon, 2007.

[29] E. Leonardi, op. cit.

[30] N. Castree, Neoliberalism and the Biophysical Environment 1: What ‘Neoliberalism’ is, and What Difference Nature Makes to it, in «Geography Compass», 4, 12, 2010, pp. 1725-1733.

[31] L. Pellizzoni, Ontological Politics in a Disposable World. The new Mastery of nature, Ashgate, Farnham 2015.

[32] Come invece si propone in particolare nel dibattito ascrivibile ai Feminist New Materialisms, si veda per esempio: D. Coole e S. Frost (a cura di), New Materialisms: Ontology, Agency, and Politics, Duke University Press, Durham 2010.

[33] La retorica della responsabilizzazione si manifesta su più livelli. Per esempio, al singolo cittadino si domanda il “consumo responsabile”, così moralizzando le sue pratiche all’interno di un ordine dato che invece non deve essere messo in questione (si veda per esempio G. Spaargen e P. Oosterveer, Citizen-consumers as agents of change in globalizing modernity: The case of sustainable consumption, in «Sustainability», 2, 2010, pp. 1887-1908). All’Umanità nel suo complesso si chiede di prendere responsabilità della crisi ecologica che essa stessa ha creato, di “salvare il pianeta” cambiando il modello consumistico che pare avere abbracciato acriticamente e in toto. Alla tecnoscienza si chiede un tipo di innovazione e ricerca “responsabili”, che tengano conto delle condizioni di e degli effetti su il mondo con il quale interagisce; questo è il caso della Responsible Research and Innovation (RRI) (si veda G. Di Giulio, C. Groves, M. Monteiro e R. Taddei, Communicating through vulnerability: knowledge politics, inclusion and responsiveness in responsible research and innovation, in «Journal of Responsible Innovation», 3, 2, 2016, pp. 92-109). Si veda inoltre, per prospettive critiche: T. W. Luke, Ecocritique: Contesting the Politics of Nature, Economy, and Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999; A. Oels. Rendering climate change governable: From biopower to advanced liberal government?, in «Journal of Environmental Policy & Planning», 7, 3, 2006, pp. 185-207; J. Bennett, The agency of assemblages and the North American blackout, in: «Public Culture», 17, 3, 2005, pp. 445-465.

[34] D. Haraway, op. cit.

[35] E. Shove - G. Walker, Governing transitions in the sustainability of everyday life, in: «Research Policy», 39, 2010, pp. 471-476. A. Dal Gobbo, Un desiderio moralizzato, una vita contabilizzata: sull’ecologia vista dal punto di vista del Voluntary Human Extinction Movement, in: Effimera.org, http://effimera.org/un-desiderio-moralizzato-vita-contabilizzata-sullecologia-vista-dal-punto-vista-del-voluntary-human-extinction-movement/ [ultimo accesso 11/01/2019].

[36] S. Barca, op. cit.

[37] G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia, tr. it. Einaudi, Torino, 2002; Id., Millepiani. Capitalismo e Schizofrenia, tr. it. Castelvecchi, Roma, 2014.

[38] I. Stengers, Autonomy and the Intrusion of Gaia, in «The South Atlantic Quarterly», 116, 2, 2017, pp. 381-400; D. Haraway, op. cit.

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