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I progenitori di Adamo. Paleoantropologia e spiritualismo nel primo Novecento

Autore


Giacomo Scarpelli

Università di Modena e Reggio Emilia

sceneggiatore cinematografico e storico della filosofia e delle idee, insegna all’Università di Modena e Reggio Emilia. È Fellow della Linnean Society of London e della Royal Geographical Society

Indice


  1. Il negletto bambino di Taung
  2.  L’evoluzione esaurita
  3. Timor simiae
  4. Un antefatto a mo’ di conclusione

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Adam’s Ancestors. Paleoanthropology and Spiritualism in the beginning of 20th century


The present article focuses on the scholars who in the first decades of 20th century investigated the origin of Mankind, but they did not admit the value of Darwinian theory and cultivated spiritualistic views. Among them, the central personality was Robert Broom, who discovered in Africa the remains of a large number of Australopithecinae. Broom was convinced of the existence of a Superior Plan in history of nature and that Man was the goal of Evolution. His conception was not far from Bergson’s Évolution créatrice and it was inspired by Alfred R. Wallace’s spiritualistic opinions. Paradoxically, the paleoanthropological results reached by Broom were denied by many colleagues, who had an undeclared timor simiae – that means they dislike and loathed the possibility that Man and Apes had a connected evolution. This attitude convinced many scholars, such as Keith, Osborn, Sollas, Leakey, to believe in the authenticity of the finding of Piltdown Man (1912). About the Piltdown Man, both Wallace and Broom did not join the general enthusiasm. They were right, because in the Fifties the Piltdown Man was demonstrated a gigantic forgery. Today, we know – as Darwin hypothesized – that a few million years ago the African savannah was populated by some species of hominids, and we evolved from one of them.

  1. Il negletto bambino di Taung

Natale del 1924. Un giovane professore di anatomia della Witwaterstrand University di Johannesburg, nel corso degli scavi paleontologici di Taung, in Botswana, rinviene le ossa facciali e il calco endocranico di un ominide di piccole dimensioni, ma dalla stazione eretta, il cervello e la dentatura evolutivamente sviluppati. Il giovane professore, che si chiama Raymond Dart, ritiene di aver riportato alla luce i resti di un bambino di un milione di anni fa e li colloca all’interno di una nuova specie, che battezza Australopithecus africanus[1]. Quei reperti differiscono da qualsiasi altro precedente, risultano i più antichi in assoluto, nonché i primi rinvenuti in terra d’Africa. Fino a questo momento ci si è imbattuti in ritrovamenti di «uomini con fattezze scimmiesche», adesso ci si trova di fronte a «una scimmia con fattezze umane»[2]. Si tratta forse del sospirato «anello mancante»? Sorprendentemente, l’interpretazione data da Dart alla propria scoperta viene rigettata dal mondo accademico. La commissione della Royal Society respinge la comunicazione di Dart e i principi dell’anatomia inglese, Grafton Elliot Smith, Arthur Keith e Arthur Smith Woodward si associano nel proclamare che «il bambino di Taung» è null’altro che una scimmia fossile, affine a gorilla e scimpanzéé[3]. Soltanto una voce di plauso, quella di Robert Broom, medico scozzese in pensione. Broom accorre nel laboratorio di Dart a Johannesburg e, fattosi largo tra ricercatori in camice bianco, raccolte di fossili e apparecchiature antropometriche, letteralmente si prostra in adorazione dei resti del «nostro antenato» di Taung[4].

Il viso brunito e segnato, e l’espressione costante di umana simpatia tipico del medico di campagna quale era stato, Broom, nonostante l’età, darà inizio a una campagna di scavi che gli permetterà di portare alla luce a Sterkfontein, nel 1936, il primo Australopithecus africanus adulto. Più tardi, presso Kroomdrai, rinverrà altri frammenti ossei, documentazione dell’avvenuta ominazione in Africa, nell’alto Pleistocene, di una specie nuova e massiccia, che verrà battezzata dapprima Paranthropus e poi Australopithecus robustus[5]. Dopo lunghe controversie, in cui sarà decisivo il sostegno di un autorevole anatomista di Oxford, Wilfrid Le Gros Clark, Broom riuscirà a imporre sia le proprie scoperte, sia quelle di Dart. La datazione dei reperti risaliva a due milioni di anni, il doppio di quanto inizialmente si credesse. L’intera area degli scavi sarà denominata «culla dell’umanità» e, nel 1999, eletta Patrimonio mondiale dall’UNESCO.

Tuttavia Broom non poteva considerarsi un darwinista. Il suo pensiero era rivolto a una sorta di spiritualismo antropogenetico. Nato nei pressi di Glasgow e trapiantato dal 1896 in Sudafrica, Broom aveva accompagnato la pratica della medicina con l’insegnamento di zoologia all’università di Stellenbosch e lo studio dei rettili fossili progenitori dei mammiferi[6]. Le prime riflessioni di stampo antidarwiniano di Broom risalivano al 1932, quando aveva rigettato l’ipotesi di una selezione naturale legata ai capricci del caso e individuato quale fonte delle variazioni favorevoli un altro principio, agente in una direzione predeterminata.

Osservando la configurazione secondo cui si disponeva la documentazione fossile, Broom ipotizzò che i progressi dello sviluppo biologico provenissero da tipi strutturalmente poco specializzati, che cioè avevano percorso una «linea centrale» dell’evoluzione. Tale linea era caratterizzata da indifferenziazione e aveva avuto la funzione di «laboratorio» per la generazione di variazioni nuove. Gli esseri specializzati che componevano i raggruppamenti tassonomici radianti non andavano considerati superiori evolutivamente, ma solo più adattati: questa diversificazione segnava per essi l’impossibilità di qualsiasi ulteriore modificazione. Viceversa, la linea mediana della massima indifferenziazione, per la sua dote di continuare a produrre i mutamenti favorevoli, aveva garantito future prospettive. Broom applicò l’assioma di minore specializzazione maggiore possibilità di nuovi adattamenti, all’ipotesi che il genere umano si sarebbe sviluppato biologicamente proprio lungo la linea centrale dell’eroico progredire delle specie viventi[7].

La visione accarezzata da Broom era indubitabilmente finalistica e si allontanava da quella del compagno d’investigazione, Raymond Dart, il quale, baderà invece a non rinnegare la dottrina darwiniana e rimarrà convinto che le differenze tra gli uomini e i mammiferi superiori non sono di ordine qualitativo bensì di grado.

 

  1. L’evoluzione esaurita

In riconoscimento dei meriti scientifici, nel 1934 Broom venne nominato curatore della sezione fossili e vertebrati del Museo del Transvaal. All’anno precedente risaliva la pubblicazione di un suo nuovo volume[8], in cui argomentava che nessun mammifero attualmente esistente pareva in grado di ulteriori trasformazioni: la balena non avrebbe potuto diventare una creatura terrestre, né il cavallo riacquistare le cinque dita per zampa dei suoi progenitori. Quanto a pachidermi, felini, cammelli e giraffe avrebbero potuto sopravvivere ancora a lungo come specie, ma i loro rispettivi percorsi evolutivi dovevano considerarsi esauriti.

Simili constatazioni, se erano da ritenere vere per la categoria più elevata dei vertebrati, a fortiori valevano per gli altri organismi. Sulla base della propria esperienza sul campo, Broom arrivava a stabilire che nessuna grande modificazione strutturale si è più verificata nel mondo animale da lunghissimo tempo. In sostanza, «l’orologio evolutivo è ormai così scarico che sussistono forti dubbi circa la possibilità che negli ultimi due milioni di anni sia apparso sulla faccia della Terra anche un solo genere nuovo»[9]. E l’uomo? Fu a questo riguardo che Broom avanzò la sua teoria più azzardosa.

Convinto che la nostra apparizione sia avvenuta in un’epoca relativamente recente – nel Pleistocene – Broom individua l’antenato in un primate ancestrale già di per sé separato dal ramo delle scimmie antropomorfe. In altri termini, noi rappresenteremmo un’eccezione nell’intero regno vivente. Avverso al principio darwiniano delle variazioni casuali, Broom chiama in causa forze che avrebbero diretto l’evoluzione sino alla comparsa della nostra specie. Più esattamente, «l’uomo è stato lo scopo principale dell’intera evoluzione della Terra, forse per quindici milioni di anni, ed egli ha così acquisito una stazione più eretta di quella che sarebbe toccata a un’antropoide dal grande cervello»[10].

Non era una forma di spiritualismo personale quello adombrato da Broom, bensì caratteristico della temperie filosofica del periodo, che si era sedimentato sulle sue esperienze di paleontologo. Aispirarlo, quindi, non dichiaratamente il pensiero del Bergson dell’Evoluzione creatrice – il quale era anch’egli certo che il progresso biologico avesse dato i frutti migliori lungo la linea mediana di maggiore indifferenziazione[11] – quanto soprattutto l’Alfred R. Wallace che aveva concepito parallelamente a Darwin la teoria della selezione naturale e poi aveva abbracciato una visione dell’evoluzione umana come guidata da un’«Intelligenza superiore», verso una precisa direzione e per speciali scopi[12]. Le idee di Wallace, d’altra parte, avevano già esercitato la loro suggestione su naturalisti e biologi della seconda metà dell’Ottocento, e non erano distanti da quelle di Charles Lyell, che pure era stato maestro di Darwin. A ben vedere, l’autore dell’Origine delle specie, insieme al suo «mastino» Thomas H. Huxley, aveva costituito di fatto un’anomalia di rigoroso agnosticismo all’interno della cerchia degli evoluzionisti anglosassoni[13].

In linea con quanto affermato a suo tempo da Wallace, Broom sosteneva dunque che lo scopo del Piano evolutivo non era stato solamente di generare una creatura differente da ogni altra scimmia, dotata di stazione eretta, ma anche di creare una personalità provvista di natura spirituale, suscettibile di perfezionamento e che, era da credere, sopravviveva alla morte[14].

L’orologio dell’evoluzione in definitiva continuerebbe a camminare esclusivamente per la nostra specie[15]. In precedenza Broom ha accennato a strade senza uscita e tentativi mancati della progressione biologica; alla luce di ciò, nei suoi ultimi anni è deciso a rivedere l’albero genealogico disegnato da lui e da Dart. Giunge così a ventilare che l’Australopithecus robustus non sia il progenitore diretto dell’Homo sapiens e che vada semmai considerato come un primate il cui incremento cerebrale, evidentemente eccessivo, fu causa del suo proprio fallimento: «Wallace era forse nel giusto quando affermava che il grande cervello non si è evoluto per selezione naturale»[16].

Le australopitecine apparivano evidentemente a Broom una sorta di esperimenti che, scaturiti dalla linea centrale dell’evoluzione, avevano finito per spegnersi in una diramazione secondaria. Colui che si era rifiutato di ammettere l’elemento di novità rappresentato bambino di Taung, Elliot Smith, aveva anche sostenuto che il genere Homo era stato l’unico affermatosi tra i vari antenati della famiglia umana che avevano provato a camminare sulla faccia della Terra[17]. Suona allora un’ironia del destino come Broom, che tanto si era battuto per dare riconoscimento alla scoperta di Dart, finisse col suffragare involontariamente le tesi dell’antagonista.

 

  1. Timor simiae

Un salto evolutivo tra scimmia e uomo era quanto certo pensiero scientifico andava affermando, e più che di anello mancante sarebbe stato lecito parlare di anello inesistente. In tal senso, allora il titolo dell’ultimo testo di Broom, Finding the Missing Link, risultava decisamente paradossale. Il filo spiritualistico che legava Wallace a Broom passava per numerosi altri naturalisti e pensatori di cui merita ricordarne alcuni. Il britannico St. George J. Mivart, sottile critico della dottrina darwinania, rivaleggiando con Huxley aveva cercato di negare la consanguineità del genere Homo con le antropomorfe[18]. L’americano Edward D. Cope, convinto che la storia naturale fosse sottesa da un piano imperscrutabile, riteneva che la struttura fisica del nostro arcaico progenitore non fosse scimmiesca ma andasse individuata in un primate affine al lemure del Madagascar[19]. Frederic Wood Jones, inglese trapiantato in Australia, ritenendo lo scimpanzé e il gorilla il risultato di una decadenza evolutiva, aveva proposto come alternativa antropogenetica al lemure di Cope il tarsio, un altro piccolo primate delle foreste malesi[20]. Il siciliano Giuseppe Sergi (padre del Sergio Sergi che scoprirà i resti del Paleantropo di Saccopastore, nel 1929), ispirandosi anche a Giovanni Canestrini – traduttore di Darwin ma persuaso che esistesse un abisso tra la nostra specie, bimane e mansueta, e le scimmie, quadrumani e ferine – contrappose al principio di un divenire unitario e graduale degli organismi e del gruppo umano quello di un’evoluzione dipanatasi per «vie varie, molteplici e parallele, epoche differenti e tra loro distanti in regioni disparate»[21]. Tutti questi autori, in quanto relegavano nella notte dei tempi l’eventualità di un antenato comune, erano mossi dall’intento di scansare la durezza delle tesi darwiniane e avevano come fine di rendere l’uomo un Adamo ascendente verso la divina perfezione, piuttosto che discendente dalla belluina ombra di sé medesimo.

Nel 1927, tre anni dopo la scoperta del bambino di Taung, l’esperto americano di morfologia comparata William King Gregory, affermò a un convegno di medicina che sentiva il dovere di continuare a difendere le opinioni di Darwin, per quanto «impopolari», da quel sentimento diffuso definibile «pitecofobia», vale a dire il timore delle scimmie imparentate con l’uomo e i suoi progenitori[22]. Una dichiarazione illuminante dell’atmosfera avversa al darwinismo serpeggiante negli ambienti scientifici. Il timor simiae sembrava accomunare i sostenitori delle teorie lemuroidi e tarsioidi con tanti biologi e antropologi per altro divisi da antagonismi professionali.

 

  1. Un antefatto a mo’ di conclusione

Nel 1912, a Piltdown, nel Sussex, l’archeologo dilettante Charles Dawson aveva dissepolto in una cava di ghiaia alcuni frammenti fossili di tipo umano che, ricomposti, avevano presentato il teschio di una creatura dal cervello assai sviluppato e dalla mandibola alquanto primitiva. L’Uomo di Piltdown era stato battezzato Eoanthropus dawsoni[23]. Quattro decenni più tardi si scoprirà che si era trattato di una sensazionale frode, ma sul momento la sua autenticità non fu posta seriamente in discussione. I resti suggerivano che l’ingrandimento della scatola cranica, ritenuta stadio cruciale dell’evoluzione umana, si fosse verificata come trasformazione rapida da una forma primeva, anticipando la postura eretta. Per quanto in contraddizione con precedenti ritrovamenti, ciò appagava l’aspettativa che l’uomo fosse il risultato di quel salto evolutivo, avesse cioè imboccato la propria diramazione in un tempo remoto, quando le specialità morfologiche tra scimmia indifferenziata e primate primitivo erano solamente abbozzate.

L’autenticità dell’Eoantropo era stata asseverata dai luminari del tempo, primo fra tutti da Arthur Keith[24], e poi da Henry F. Osborn, allievo di Cope, da William J. Sollas, accademico britannico, e persino da Louis S.B. Leakey, che diverrà il capostipite di una celebre famiglia di paleoantropologi.

E Wallace? E Broom? Il loro credo spiritualistico non aveva impedito una saggia diffidenza. Il vecchio Wallace, per quanto ritenesse che un’Intelligenza ineffabile avesse indirizzato lo sviluppo della nostra specie, era rimasto convinto che il bipedismo avesse preceduto l’accrescimento cerebrale. Nell’agosto del 1913 aveva scritto: «Il cranio di Piltdown non prova molto, ammesso che provi qualcosa!»[25]. Erano state le sue ultime parole sull’origine dell’uomo. Si era spento pochi mesi dopo. Quanto a Broom, era rimasto sconcertato dall’impossibilità di trovare confronti tra i dettagli anatomici degli Australopitechi e dell’Uomo di Piltdown.

La sorprendente capacità cranica di quest’ultimo lo spingeva a reputarla una «prematura specializzazione»; di conseguenza gli appariva improbabile che qualsiasi tipo umano avesse potuto discendere dall’Eoantropo[26].

Si deve all’oxoniense Le Gros Clark – che dopo un soggiorno di ricerca in Africa da «pitecofobo» era divenuto «pitecofilo» – non soltanto di aver accordato agli Australopitechi lo status di ominidi e di aver condotto Keith a riconoscere tardivamente le scoperte di Dart e di Broom[27], ma anche di aver smascherato la frode di Piltdown. Tra il 1949 e il 1953, Le Gros Clark, insieme a Kenneth Oakley e Joseph Weiner, sottopose al procedimento di datazione della fluorina i resti dell’Eoantropo: si rivelarono un cranio di uomo moderno e una mandibola di orangutan, invecchiati con bicromato di potassio; i denti, di uno scimpanzé, erano stati usurati a bella posta.

Da allora, gli storici della scienza si lambiccano su chi sia stato l’autore della beffa: forse il sedicente scopritore Dawson, ma con la complicità di qualche personalità, che volta a volta è stata individuata nel filosofo Teilhard de Chardin, nel romanziere Arthur Conan Doyle, e persino in Arthur Keith[28].

Se la verità sulla frode di Piltdown non verrà mai completamente a galla, quella sull’antropogenesi si è definitivamente affermata, sostanzialmente la stessa che Darwin aveva indicato fin dal 1871. L’Africa era anticamente popolata da scimmie estinte affini al gorilla e allo scimpanzé, ragionava il naturalista, le quali sono le specie viventi più vicine all’uomo; per tale motivo era altamente «probabile che i nostri primi progenitori abitassero nel continente africano e non altrove»[29]. Le australopitecine erano state infatti rinvenute in Africa da Dart e da Broom, nella propaggine meridionale della Rift Valley, dove una decina di milioni di anni fa una frattura della crosta terrestre aveva aperto longitudinalmente il continente, dal Mar Rosso agli altopiani etiopici e kenyoti fino al Transvaal, creando due diversi ambienti: a ovest la foresta, a est la savana[30]. Qui, tra Pliocene e Pleistocene, alcune specie di ominidi spartirono una precaria vita terricola. Una sola specie, dotata di stazione eretta ancor prima che di grande cervello, riuscì a sopravvivere, e da lei discendiamo.


[1] R. Dart, Australopithecus africanus: the Man-Ape of South-Africa, in «Nature», CXV, 1925, pp. 195-199.

[2] R. Dart, Adventures with the Missing Link, The Better Baby Press, Philadelphia 1982, p. 17 (1a ediz. Harper & Row, New York 1959).

[3] R. Lewin, Le ossa della discordia (1987), tr. it. Bompiani, Milano 1989, pp. 40-57.

[4] Cfr. R. Dart, Adventures with the Missing Link cit., p. 35, e R. Broom, Some Notes on the Taungs Skull, in «Nature», 115, 1925, pp. 569-571.

[5] R. Broom, The Origin of the Human Skeleton, Witherby, London 1930.

[6] Cfr. R. Broom, On the Origin of Mammals, in «Philosophical Transactions of the Royal Society of London» (B Series), CCVI, 1914, pp. 1-48. Vedi inoltre G.H. Findlay, Dr Robert Broom, Palaeontologist and physician, 1866-1951, Balkema, Cape Town 1972; G. Štrkalj, Robert Broom’s Theory of Evolution, in «Transactions of the Royal Society of South Africa», LVIII, 1, 2003, pp. 35-39.

[7] R. Broom, The Mammal-like Reptiles of South Africa and the Origin of Mammals, Witherby, London 1932.

[8] Id., The Coming of Man: Was It Accident or Design? Witherby, London 1933.

[9] Ibid., p. 218.

[10] Ibid., p. 12.

[11] H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002.

[12] R. Broom, The Coming of Man, cit., pp. 224-225; A.R. Wallace, The Limits of Natural Selection as Applied to Man, in Contributions to the Theory of Natural Selection, Macmillan, London 1870, pp. 332-371.

[13] Vedi G. Scarpelli, Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; e C. Darwin, L’origine delle specie (1859), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2011.

[14] R. Broom, The Coming of Man, cit., pp. 220-221.

[15] Ibid., p. 218

[16] R. Broom, Finding the Missing Link, Watts, London 1950, p. 84 (anche pp. 98-108).

[17] Cfr. G.E. Smith, The Evolution of Man, Humphrey Milford, London 1924.

[18] St. G.J. Mivart, On the Genesis of Species, Appleton, New York 1871; Man and Apes Hardwicke, London 1873.

[19] E.D. Cope, The Genealogy of Man, in «American Naturalist», XVIII, 1893, pp. 321-335.

[20] F.W. Jones, The Origin of Man, in A. Dendy (a cura di), Animal Life and Human progress, Constable, London 1919, pp. 99-131.

[21] G. Sergi, Le origini umane, Bocca, Torino 1913, p. VIII.

[22] W.K. Gregory, Two Views on the Origin of Man, in «Science», LXVI, 1927, p. 602.

[23] Cfr. C. Dawson e A. Smith Woodward, On the Discovery of Paleolithic Human Skull and Mandible, in «Quarterly Journal of the Geological Society of London», LXIX, 1912, pp. 117-144.

[24] A. Keith, The Antiquity of Man, Williams & Norgate, London 1915.

[25] Alfred Russel Wallace: Letters and Reminiscences, a cura di J. Marchant, Harper, New York 1916, p. 347.

[26] R. Broom, The Coming of Man, cit., p. 156.

[27] A. Keith, Australopithecinae or Dartians, in «Nature», CLIX, 1947, p. 377.

[28] J.S. Weiner, The Piltdown Forgery, Oxford University Press, Oxford 1955; F. Spencer, Piltdown: A Scientific Forgery, ibid., 1990.

[29] C. Darwin, L’origine dell’uomo (1871), tr. it. Newton Compton, Roma 1983, p. 181.

[30] Chi scrive queste pagine ha percorso nel 1991 un buon tratto della Rift Valley, in territorio etiopico.

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