S&F_scienzaefilosofia.it

Vita storpia

Autore


Cristian Fuschetto

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. Corpi d’autore
  2. Crip theory
  3. Transabili
  4. Universalizzazione dell’handicap
  5. Corpi vs. vita

↓ download pdf

S&F_n. 08_2012

Abstract



Transability is a body project aimed at acquiring a disability. By regarding disability as an object of desire, the transabled community reverses the dominant characterization of disability. Apart from medical and psychological considerations, transability is an interesting phenomenon also from a philosophical point of view, because it shows the post-modern conflict between body and life. The author first mentions body art, in order to show how this artistic movement makes it clear that the body has been engaging a sort of struggle against life in the last decades. Life seems to be a redundant energy that could be used to create new hybrid forms. Based on the concept of “Antropotechnology” by Peter Sloterdijk and “de-somatics” by the Barbara Duden, transability is considered as the phenomenon where the fight between life and body becomes even more extreme.


  1. Corpi d’autore

A testimoniare la progressiva trasformazione del corpo da dato a condizione di possibilità ci pensa, negli ultimi decenni del Novecento, la body art. Anche a voler mettere tra parentesi le cruenti performance di un Hermann Nitsch, basta dare un’occhiata alle creazioni di Orlan o di Sterlac per registrare la distanza che separa la pur avanguardistica visione di un Yves Klein, che nelle Antropometrie è tra i primi a evocare la dimensione strumentale del soma nel linguaggio artistico, dalle autentiche installazioni sul e nel corpo che negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere. Modificazioni seriali del viso, uncini infilzati nella pelle, azioni e trasfigurazioni tese a rimescolare ogni residuo tratto identitario di un dato che l’intervento artistico trasforma per ciò stesso in prodotto, la body art tende sempre più a utilizzare il corpo non più come sede di liberazione ma come atto di liberazione. Che tutto questo sia il sintomo di qualcosa che trascende i confini per definizione estremi del gesto artistico, che tutto questo restituisce piuttosto la cifra di un’epoca nella quale affondiamo radici e proiettiamo lo sguardo lo spiega con parole semplici semplici Tomás Maldonado secondo cui il «modo di essere consapevoli del corpo appare intimamente legato alla conoscenza che in ogni epoca abbiamo avuto della nostra realtà corporale»[1]. Detto in altri termini, la rappresentazione del corpo è figlia della sua conoscenza (Maldonado ricorda, per esempio, che per gli anatomisti del Quattrocento conoscere equivale a raffigurare in tavole ciò che si osserva e che, da questo punto di vista, le Tavole del Vesalio sono «il miglior esempio di questo nuovo modo di osservare: per Vesalio il processo raffigurativo è inseparabile da quello conoscitivo»[2]). Se il corpo diventa un prodotto, se ogni singola realtà somatica diventa la «fermata temporanea di un continuo dinamismo, il quale va definito a sua volta come “vita”»[3], ne consegue allora che il corpo rappresentato non potrà più essere come quello intangibile della Venere di Botticelli ma dovrà essere – a voler essere onesti –quello violato di uno Sterlac, di uno Jorda e perché no, di un McCarthy. Il corpo diventa qui il perimetro di una forza eccedente, la vita, con cui provare a creare forme ibride, a volte chimeriche, in ogni caso nuove.

 

  1. Crip theory

Specchio fedele di fenomeni più ampi, i corpi deformati degli artisti riflettono una plasticità ormai metabolizzata anche dal senso comune. È ormai scontato concepire il corpo, o magari il suo genere, come una sorta di materiale soggetto a una sorta di estetica dell’esistenza. Ciò che è meno scontato è invece riuscire a immaginare anche l’“abilità” di un corpo come una variabile da chiamare in questione. Porre una condizione di disabilità come obiettivo di un progetto che il lessico foucaultiano suggerirebbe di indicare come anatomopolitico, ovvero di un progetto che mira alla trasformazione di un corpo, è per molti versi irrappresentabile. Eppure, soprattutto negli Stati Uniti, c’è una parte della comunità disabile che rivendica il proprio stato per sottolinearne una precisa funzione nell’ambito della stabilizzazione della normalità[4]. In analogia alle minoranze gay, lesbiche, bisessuali e transgender, orgogliosamente identificatesi sotto l’appellativo originariamente spregiativo di queer, una parte della comunità disabile ha cominciato infatti a rivendicare il termine crip (storpio) nell’ambito di un progetto, culturale e al tempo stesso politico, di decostruzione dei processi identitari che stanno a fondamento dei soggetti (e dei corpi) “normali”, vale a dire: abili, etero e chiaramente rispettosi di dicotomie di genere. Questo movimento si richiama alla cosiddetta “crip theory” (Teoria storpia), secondo cui la costruzione culturale della disabilità sarebbe funzionale al rafforzamento dei processi di soggettivizzazione dei normodotati[5]. Per la crip theory l’abilità è uno standard normativo utile alla costruzione di un soggetto umano “corretto”, allo stesso modo in cui la sessualità deviante è, per la queer theory, la faccia complementare della corretta identità di genere. A proposito di identità, quel che emerge da queste prospettive, è una concezione dell’identità radicalmente fluida, sistematicamente in trasformazione e pertanto eccentrica ai normali perimetri di un corpo. Per i sostenitori della crip theory non esisterebbe, in realtà, alcuna abilità normalizzatrice rispetto alla quale ricostruire un’anormalità destabilizzante. Ne consegue uno dei più interessanti postulati di questa visione, quello per cui «così come ci sono degli eterosessuali che si identificano come queer, possono esserci anche normodotati che vorranno identificarsi come crip, storpi»[6]. E infatti ce ne sono.

  1. Transabili

«Per la comunità transabile – scrive Elisa Arfini in uno dei più approfonditi contributi sul tema – identificarsi come “storpi” è un enunciato performativo che aspira a creare la realtà che racconta, sostenendo un coraggioso tentativo di framing e di progetto sul corpo»[7]. Ma chi sono i transabili? Si tratta di normodotati che desiderano acquisire delle disabilità, in genere attraverso l’amputazione di un arto o anche attraverso forme di paralisi o disabilità sensoriali. Anche se ci sono dei casi citati in letteratura medica già tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, la transabilità è un concetto recente. Il termine risale al 1996, introdotto da un membro di una comunità on-line di persone accomunate dal desiderio di acquisire una disabilità. La ribalta mondiale avviene, tuttavia, il settembre dell’anno successivo quando Kevin Wright si fa amputare la parte inferiore della gamba sinistra da un chirurgo, Roberth Smith, del Falkirk District Royal Infirmary di Falkirk, in Scozia. Alcuni mesi dopo il dottor Smith esegue un intervento simile anche su un paziente tedesco. Il caso, com’è ovvio che sia, dà immediatamente vita a un acceso dibattito sia in Parlamento che sui media inglesi: al centro della questione la liceità o meno di assecondare esigenze “sanitarie” avanzate da persone affette da quel che in maniera non unanime il gergo medico definisce “Disturbo da Dismorfismo Corporeo” (Body Integrity Identity Disorder). Fino ad allora il termine adoperato in letteratura per definire casi di questo tipo – in verità piuttosto rari – era “wannabe”, traduzione culturale di “apotempofilia”, ovvero il desiderio di auto-amputazione. Il termine transabile sostituisce presto quello di wannabe sostanzialmente per due ragioni. Prima: mentre i wannabe desiderano soprattutto l’amputazione, i transabili aspirano a qualunque tipo di disabilità; Seconda: si rimanda in modo più diretto all’analogia con i transessuali.

La cornice a cui la comunità transabile fa più esplicito riferimento – fin dalla scelta del nome – è quella transessuale. Per rendere intellegibile il proprio desiderio i transabili hanno preso in prestito la narrazione transessuale che si basa sulla metafora del corpo sbagliato. Così come un transessuale sarebbe un uomo intrappolato nel corpo di una donna, il transabile sarebbe un disabile intrappolato nel corpo di un abile[8].

L’obiettivo della comunità transabile è anche politico. Essi tentano di far rientrare la traduzione medica della propria condizione, il Diim, nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders della American Psychiatric Association, il celebre Dsm, il manuale che guida la maggioranza dei medici, psichiatri, periti e psicologi di tutto l’Occidente nel formulare le diagnosi. Per la comunità transabile ciò significherebbe accesso alla chirurgia, lo sviluppo di protocolli diagnostici, inclusione nelle politiche di assistenza e assicurative, e probabilmente l’accettazione sociale.

  1. Universalizzazione dell’handicap

Ci sono dunque normodotati che desiderano diventare disabili. Per riprendere l’affermazione di Samuel: «ci sono normodotati che vorranno identificarsi come storpi». Sebbene incommensurabili alle riflessioni che da un paio di decenni Peter Sloterdijk sta facendo sul carattere artefattuale dell’uomo, è utile quantomeno accennare a una curiosa analogia tra questa prospettiva e l’ipotetica estensione dello stato di “storpi” come condizione universale di tutti gli uomini formulata da Sloterdijk nel poderoso Devi cambiare la tua vita. In questo testo, significativamente sottotitolato Sull’antropotecnica, Sloterdijk supera la distinzione (da lui precedentemente elaborata[9]) tra antropotecniche primarie e secondarie in direzione di un’antropotecnologia generale basata sull’esercizio. Le antropotecniche secondarie, ovvero quelle fondate sulle moderne conquiste dell’ingegneria genetica, vengono ricondotte nell’alveo di quelle primarie, vale a dire tutte quelle strategie (come educazione, allevamento, disciplinamento, formazione) che mirano al modellamento diretto dell’uomo «attraverso una messa in forma civilizzante»[10]. Incessante frutto dell’autoproduzione di sé, l’uomo è secondo il filosofo tedesco l’essere della ripetizione e dell’esercizio.

È tempo di disvelare l’essere umano come quell’essere vivente che nasce dalla ripetizione. Così come, dal punto di vista cognitivo, l’Ottocento si trovava sotto il segno della produzione, mentre il Novecento sotto il segno della riflessività, l’avvenire si presenterà sotto il segno dell’exercitium[11].

Nel volume Sloterdijk dedica molta attenzione a figure considerate come «storpi», mettendo in luce come queste persone, pur di superare i propri limiti e di adeguarsi alla norma, abbiano messo in pratica esercizi spesso incredibili, tanto da riuscire addirittura a superare, da una condizione di disabilità, la normale prestazione di questa o quella performance. A proposito dei nani, per esempio, egli ricorda come dapprima «gli individui affetti da nanismo vennero classificati come storpi in relazione alla crescita», in seguito «handicappati in relazione alla crescita dimensionale», poi definiti «diversamente abili in relazione alle dimensioni» e infine, negli anni Ottanta, «persone alle prese con la verticalità»[12]. Ecco, Sloterdijk ritiene che questa definizione sia perfetta per esprimere non solo la condizione dei nani ma di tutti gli uomini, e dice: «Bisognava parlare dei disabili, di chi ha una complessione diversa, per arrivare a una formulazione che esprimesse la costituzione universale degli esseri soggetti a una tensione verticale»[13].
Ora, anche mettendo da parte il cortocircuito tra normodotati che «potranno identificarsi con gli storpi» e storpi che esprimono la condizione essenziale dei normodotati, è fuori di dubbio che i transabili rappresentano un eccezionale caso di antropotecnologia.

  1. Corpi vs. vita

Sebbene illogica, l’azione compiuta dai transabili ha il carattere di un’antropotecnica. Ma a questo punto occorre fare attenzione, perché a differenza di quel che potrebbe apparire essi agiscono non solo sui propri corpi. Occorre cioè chiedersi, su quale forza esercitano la loro volontà?

Negli ultimi anni, sulla scia dei lavori di Barbara Duden[14], sono diversi gli autori che invitano a considerare il fatto della decorporeizzazione della vita, ovvero il fenomeno per cui quest’ultima diventa una forza sempre più autonoma dalle forme nelle quali essa di volta in volta si incarna. Nel caso dei transabili, per esempio, si assiste a un «fenomeno di disgiunzione tra corpo e scelta autonoma di soggetti che si pronunciano per una parziale decorporeizzazione del proprio essere in nome di un’ideale nuova vita autonoma»[15]. La forza che pervade il corpo si smarca dai suoi confini per ridefinirne altri. Nei transabili essa sfugge ai confini dati per ridefinire dei confini innaturalmente più fragili di quelli originari. Insomma, i singoli corpi diventano condizione di possibilità di qualcosa che inevitabilmente li eccede, delle condizioni che per quanto essenziali perdono di sostanzialità perché in continua trasformazione, mai identiche a se stesse. Le forme organiche, per il solo fatto di esserci, sono cioè aperte al gioco della deformazione evolutrice. In questa visione gli organismi passano in secondo piano, quel che conta è la vita, soggetto e al tempo stesso oggetto dell’evoluzione. Pur continuando a esistere, i corpi diventano ontologicamente sempre più evanescenti. Il tutto a vantaggio della vita.

La scoperta della vita, in fondo così recente, il venir fuori nell’immaginario comune di una nuova variabile nella griglia d’interpretazione del mondo finisce col produrre effetti anche sui processi identitari. La transabilità non è forse il luogo del conflitto tra corpo, volontà e vita? Nel caso di un soggetto transabile abbiamo infatti a che fare con l’instaurarsi di una dialettica tra un soggetto e un corpo, tra una volontà e un dato con in mezzo un terzo, la vita, scivolata da una forma in cui coincidere a un informe bisognoso di continua ridefinizione, anche quando tutto sembrerebbe “a posto”. Certo, quello dei transabili è un caso limite, ma serve a toccare con mano l’emergere della zoé sul bíos, della nuda vita sulla forma di vita, della cieca forza dell’evoluzione sui suoi prodotti.


[1] T. Maldonado, Corpo tecnologico e scienza, in P. L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994, p. 78.

[2] Ibid., p. 81.

[3] H. Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 60.

[4] Cfr. E. Clare, Exile and Pride: Disability, Queerness, and Liberation, South End Press, Cambridge 1999.

[5] Cfr. R. McRuer, Crip Theory: Cultural Signs of Queerness and Disability, New York University Press, New York 2006.

[6] E. Samuels, Desiring Disability. Queer Theory Meets Disability Studies, Duke University Press, Durham 2003, p. 75. Ma si vedano anche le pp. 110-136.

[7] E.A.G. Arfini, Istruzioni per diventare disabile. Un'analisi narrativa del progetto sul corpo transabile, in «Studi Culturali», 3, 2010, p. 363.

[8] Ibid., p. 357.

[9] Cfr. P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung; e Regole per il parco umano. Risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184 e pp. 239-266.

[10] Ibid., p. 159.

[11] Id., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 7.

[12] Ibid., pp. 74.

[13] Ibid.

[14] Si veda per esempio B. Duden, I geni in testa e il feto nel grembo, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006.

[15] S. Forti e D. Tarizzo, La vita autonoma all’Epoca della Grande Salute, in M. Adinolfi (a cura di), Filosofia al presente, Edizioni Solaris, Roma 2009, p. 152.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *