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Filosofia della medicina: spunti di riflessione e modelli teorici

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



  1. Intro
  2. La fallacia diagnostica e l’errore clinico
  3. Il concetto di causa in medicina e nel dibattito epidemiologico
  4. Probabilità e credenza in medicina
  5. Contributi filosofici nell’elaborazione delle metodologie mediche

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This article tries to develop the assumption that medicine and philosophy can strictly collaborate to assure a correct comprehension of the huge phenomenon of illness and disease. We can imagine a direct application of philosophical theories and models to ameliorate the theoretical instruments of medicine itself. Philosophy can furnish elaborated means to elucidate the problem of medical mistakes and fallacies. Moreover it can contribute to clarify the precise distinction between the various typologies of causality which can be found in medical practice and theorization. It can still focus the question of probability and credence in medicine and give precise theoretical suggestions for a more articulated arrangement of some defined medical concepts.

 


  1. Intro

La questione che mi tormentava a quel tempo, non era né quando una teoria è vera, né quando è accettabile ma riuscire a distinguere la scienza dalla pseudoscienza[1].

Il modello popperiano di carattere demarcazionista è stato utilizzato proficuamente come strumento interpretativo per le scienze fisiche e diversi studiosi come Buck e Lanes[2] hanno provato ad imporlo e inserirlo anche nel quadro più ampio delle discipline biologiche e mediche; ma la domanda che sorge è se tale teoria, tale modello epistemologico sia in grado di cogliere la specificità del sapere medico o non si attagli piuttosto, e non senza problemi e difficoltà per altro, soltanto al sapere fisico e alle scienze esatte. La nostra posizione a tale proposito è che il sistema popperiano, con le dovute cautele, riserve e differenziazioni si possa utilizzare[3] per la comprensione ed elucidazione di vaste aree del sapere biomedico, come ad esempio nell’articolazione del problema dell’errore in ambito clinico o nella elaborazione delle metodologie diagnostiche, ma che parimenti non lo si possa trasporre aproblematicamente in altre aree e settori come quello epidemiologico – come vedremo successivamente – chirurgico o della medicina sociale[4].

 

  1. La fallacia diagnostica e l’errore clinico

Per quanto concerne il problema dell’errore va subito precisato che «il progresso stesso della scienza risiede in gran parte nella scoperta degli errori che esistono nelle nostre teorie e nel passaggio da queste teorie a nuove teorie che non contengono quegli errori»[5] e benché «nella scienza noi facciamo del nostro meglio per trovare la verità, siamo consapevoli del fatto che non possiamo mai essere sicuri di averla trovata»[6]. Possiamo però precisare delle regole, di carattere formale, per cui una teoria T1 sia maggiormente rispondente a criteri di verità consensualmente determinati, rispetto ad un’altra teoria T2[7]. Abbiamo introdotto in via generale il problema dell’errore in ambito scientifico, poiché nel contesto clinico-diagnostico ciò che appare problematica è proprio l’individuazione di errori nel senso testé descritto[8]. Come è stato ampiamente chiarito (in particolare in alcuni scritti di Scandellari e Federspil) la clinica diversamente dal settore fisiologico e della patologia generale e speciale non si occupa dell’elaborazione di leggi universali bensì di chiarire eventi o serie di eventi individuali inquadrabili come specificità morbose o patocliniche. Scriveva A. Murri che «conoscere è ben diverso dal ri-conoscere e qui (in Clinica) si deve soprattutto ri-conoscere»[9]. Ovviamente il riconoscimento passa attraverso la previa conoscenza di complessi teorici e leggi biologiche, chimiche, fisiche che «presiedono al mutevole configurarsi di condizioni singole che conducono a stadi patologici»[10]. L’attività diagnostico-terapeutica è contrassegnata da tappe precise:

  • Inserimento del paziente all’interno di un quadro nosografico consolidato
  • Ricerca delle cause scatenanti del morbo e spiegazione attraverso modelli biologici
  • Formulazione della prognosi
  • Formulazione di una strategia terapeutica più o meno complessa

Fare una diagnosi pertanto, volendo tradurre la cosa nell’ambito di una concreta interazione tra medico e paziente significa stabilire una proposizione assertiva, su un certo complesso eventuale (il morbo) che si intreccia alle dinamiche fisioanatomiche di un soggetto, che si dà in quanto paziente come soggetto alterato.

Va però precisato che le proposizioni medico-diagnostiche sono un particolare tipo di proposizioni assertive in quanto esse sono precisamente proposizioni assertive su realtà mediate.

Volendo spiegare con un esempio, se diciamo “il signor P sta guidando da Napoli a Roma” e facendo ciò stiamo effettivamente descrivendo l’azione del signor P allora la nostra asserzione sarà fenomenologicamente in tensione diretta con la realtà osservata e descritta.

Se invece diciamo “il signor P è affetto da tubercolosi poiché ha contratto il mycrobacterium tuberculosis” stiamo descrivendo una realtà indiretta, al limite neppure osservata empiricamente, ma mediata da differenti strati teoretici e linguistici, da un determinato modello nosografico di carattere batteriologico e da quella che è stata un’osservazione d’altri dei tubercoli polmonari, da cui il nome della patologia. Si potrebbe obiettare che anche nel primo esempio ci sono realtà mediate in un contesto toponomastico, quando parliamo di Napoli e Roma, ma altrettanto chiaro è che se vogliamo formalizzare la prima asserzione nella funzione P(x,y) con P funzione dello spostamento da x e y (variabili funzionali) possiamo farlo senza perdere il senso complessivo della proposizione; nel secondo caso invece pur potendo ripetere la funzionalizzazione ne verrebbe meno il senso[11]. Pertanto il primo punto da chiarire è che la proposizione diagnostica qualora sia scorretta, ma lo stesso vale nel caso non lo fosse, descrive uno stato di cose inesatto o esatto non rispetto ad una realtà su cui è in presa diretta ma su un complesso di fattori concettuali e causali mediato in molteplici guise.

Abbiamo precedentemente sottolineato come oggetto della diagnosi è un evento che cala su un soggetto paziente, ed è da ciò immediatamente evidente che, poiché essa si rivolge ad un’entità definita spazio-temporalmente (il soggetto che è diagnosticamente sano o malato) non può che rapportarsi ad esso attraverso valutazioni probabilistiche; da questo discende ovviamente il fatto che la diagnosi si accompagna sempre ad un margine di errore più o meno ampio.

Ponendo che una diagnosi abbia una probabilità pari a 0,75, ciò significa che il clinico che la formula ha una possibilità di successo del 75% e di insuccesso del 25%.

Naturalmente più osservazioni, anche e soprattutto mediate da strumenti diagnostici, vengono effettuate (semeiosi, radiologia, rilievi istologici, emocoltura, etc.) più la probabilità di centrare la diagnosi e il decorso patologico aumenta. Una possibilità concreta per evitare o limitare errori in ambito clinico è quella di, epistemologicamente, tentare una visione e sistemazione organica del problema della fallacia diagnostica, operazione fatta ad esempio da E. Poli[12]. Un’altra classificazione, per certi aspetti più completa è stata proposta da Scardellari e Federspil[13]. L’errore clinico può nascere in ambito diagnostico per incompletezza dell’osservazione, confusione tra l’osservazione di un fenomeno e interpretazione della stessa, fallacia della falsa causa o non sequitur[14], per confusione di una classificazione o una definizione con una spiegazione, da formulazione delle ipotesi che insistono su un rilievo causale piuttosto che su un altro, ancora per enumerazione incompleta delle ipotesi diagnostiche plausibili e infine dall’errata interpretazione dei quadri sintomatologici. Forme di errore più o meno complesse possono insinuarsi anche nell’ambito della prognosi e delle operazioni terapeutiche.

 

  1. Il concetto di causa in medicina e nel dibattito epidemiologico

Il pensiero medico è causale nel senso che nell’ambito delle sue indagini si ricerca l’origine della malattia, mentre nel contesto terapeutico-curativo la medicina cerca di modificare il decorso della malattia stessa[15].

Nel corso della storia della medicina sono stati molteplici i modelli causali adottati, da quello fluido-umorale ippocratico (anche nella sua successiva elaborazione galenica) a quello genetico e biomolecolare: possiamo evidenziare almeno una decina di modelli causali differenziati a partire dal Corpus Ippocraticum. La malattia intesa coma squilibrio è il modello tipico della medicina ippocratica; un modello di carattere relazionale-fisiologico è invece proprio di C. Bernard ( sullo stesso piano possono essere posti il condizionalismo e il casualismo in senso proprio). Una prospettiva di stampo localistico e lesionistico è tipica della iatromeccanica, dell’anatomopatologia morgagnana, di Bichat e Vircow, mentre una visione ontologico-sostanzialista è ascrivibile a personaggi come Fracastoro, Paracelso, Koch e Pasteur. Altri modelli proponibili sono quelli di Schaffner e Engel.

In particolare quest’ultimo con il suo approccio bio-psico-sociale propone di mettere in rilievo per la spiegazione causale il concetto di persona inserita in un vasto contesto pluristratificato che va paradossalmente dalla biosfera alle particelle subatomiche[16].

Tale modello, come in parte anche quello di Schaffner, vuole servire da superamento del meccanicismo e unidimensionalismo della biomedicina e da incentivo per recuperare un approccio olistico al fenomeno della malattia.

La prospettiva che qui ci interessa maggiormente approfondire è quella dell’epidemiologia[17] che lungi dal configurarsi come la semplice branca della medicina che si occupa di infettivologia o malattie cronico-degenerative sulla base di una prospettiva metaindividuale[18], sembra presentarsi come una risposta interna, della medicina stessa al paradigma deterministico e meccanicistico che in parte contrassegna il versante fisiopatologico di stampo localistico-lesionista.

L’epidemiologia si propone di affrontare il problema della causa da un punto di vista chiaramente probabilistico. Fisher, Hill e Doll, autori di un famoso studio del 1947 sull’incidenza del fumo di sigaretta nel carcinoma polmonare, Evans, Susser e altri sono state le voci più accreditate del dibattito epidemiologico contemporaneo.

Questi autori, posto il carattere probabilistico dell’approccio causale adottato tentarono di delineare in modo preciso e sempre più raffinato criteri di base, di stampo induttivo, per l’accertamento dei complessi fenomenici indagati.

Nel 1965 Hill in parte riprendendo considerazioni del suo collega Sartwell[19] propose nove puntualizzazioni sulla metodologia epidemiologica per stabilire l’incidenza di una causa piuttosto che un’altra nei complessi morbosi[20]. Prendendo in esame il caso del carcinoma polmonare possiamo analizzarne gli indici causali sulla base della forza associativa; in questo caso l’associazione tra il fumo di tabacco e i casi di cancro polmonare risulta macroscopica, vale a dire più frequente, rispetto ad altre associazioni (ad esempio le condizioni metereologiche o lo stato delle falde acquifere). Ovviamente non possiamo parlare di causa deterministicamente intesa poiché altre associazioni pure forti, come ad esempio l’avere in casa accendini e posacenere in abbondanza, non costituiscono fattori rilevanti di causazione, mentre associazioni deboli come l’aver inalato una certa sostanza rara anche un’unica volta potrebbe costituire un fattore causale più forte.

Il secondo punto è dato dalla concordanza dei risultati «in diversi luoghi e in base a osservazioni di diversi ricercatori con diversi metodi: ad esempio dati relativi all’associazione fumo-cancro in diverse fasce d’età o in diverse nazioni mostrano l’associazione del fumo con il cancro polmonare».

La specificità ci dice invece che un certo fattore causale, mettiamo una nube tossica in seguito all’incendio di una fabbrica per prodotti chimici, pur se presente per un breve lasso di tempo e in un singolo luogo può essere legato a un certo effetto, come il tumore ai polmoni.

La precedenza temporale costituisce uno dei fattori più difficili da cogliere nelle malattie cronico-degenerative; mentre infatti in un evento traumatico, mettiamo una caduta da impalcatura sul lavoro, è facile indicare una causa A la caduta, e un effetto B la morte o una certa lesione vertebrale, nelle patologie cardiovascolari e nei tumori è pressoché impossibile indicare una causa piuttosto che un’altra come quella che ha la precedenza nell’insorgenza della malattia.

Il gradiente biologico o proporzionalità lineare dose-effetto ci dice che la probabilità che insorga una patologia, come il carcinoma polmonare aumenta proporzionalmente all’aumentare delle sigarette giornaliere fumate.

La plausibilità biologica è invece espressione dell’incidenza delle conoscenze biologiche sulla comprensione dei fenomeni causali; essa ovviamente non deve essere letta in modo deterministico.

La coerenza delle spiegazioni ci dice che nelle nostre ipotesi causali dobbiamo cercare di attenerci quanto più possibile alle leggi generalmente note. Prova sperimentale. Dobbiamo immaginare che se una certa sostanza è causalmente associata a una specifica malattia e noi allontaniamo da un certo gruppo preso in esame o da un certa popolazione quella sostanza e la malattia scompare o regredisce sensibilmente la nostra ipotesi causale risulta corroborata[21].

Infine lanalogia ci dice che posti alcuni casi, per esempio le epidemie di rosolia o gli effetti di farmaci come il Talidomide, possiamo aspettarci, con le dovute cautele, casi simili in simili circostanze.

Anche Evans[22] propose un suo fecondo modello di interpretazione e gestione dei complessi causali suddiviso in otto punti:

  • La malattia deve avere prevalenza più alta nei soggetti esposti al fattore
  • La presenza dell’esposizione è riscontrata con maggiore frequenza nei malati che nei sani
  • L’incidenza[23] deve essere più alta negli esposti
  • L’esposizione deve precedere la malattia
  • Si deve poter misurare un gradiente biologico nelle reazioni dei soggetti
  • La malattia deve esser riproducibile sperimentalmente
  • L’eliminazione della ipotetica causa deve far diminuire l’incidenza della malattia
  • La modificazione di caratteristiche dell’ospite deve far registrare diminuzioni dei casi di malattia (in caso di trattamento terapeutico)[24].

Le ricerca epidemiologica si muove sia sul fronte osservativo che su quello sperimentale.

L’epidemiologia osservativa si distingue in epidemiologia longitudinale e trasversale; quella longitudinale si occupa in un certo intervallo di tempo di una popolazione per studiarne e registrarne i cambiamenti in relazione a certe variabili; gli studi trasversali invece hanno come oggetto sempre una certa popolazione ma in un istante di tempo definito.

Gli studi longitudinali possono essere di coorte se considerano soggetti sani e ne seguono lo sviluppo clinico[25]; l’altro tipo invece è quello dei casi-controllo in cui un gruppo di soggetti malati è messo in relazione con un gruppo di riferimento del tutto simile ma i cui soggetti non hanno sviluppato il morbo.

Nel caso della epidemiologia sperimentale abbiamo invece trial farmacologici randomizzati.

In definitiva l’epidemiologia attraverso questi complessi studi e nel contempo, tentando di ridurre al minimo la percentuale di errori che possono essere di carattere autoselettivo o per difetto d’informazione[26] presenta un modello di medicina basato su procedure biometriche e trial randomizzati a doppio cieco, comportando una seria messa in questione della concezione deterministica e meccanicistica della malattia e dei complessi causali che ne sono alla base.

A partire da tutto ciò è possibile l’elaborazione di un concetto di causa che non sia più riguardata come un elemento deterministicamente connotato bensì come fattore possibile[27], in un quadro di multifattorialità, di un’insorgenza patologica[28].

Per la medicina si apre una strada particolarmente produttiva, quella di una sinergia tra modello localistico fisiopatologico e approccio probabilistico-multifattoriale epidemiologico.

Appare evidente da quanto abbiamo detto che l’epidemiologia basi i suoi metodi d’indagine su un modello induttivo.

Nel 1975 Buck pubblicò un articolo in cui mise in discussione la base induttivista del modello epidemiologico, rivendicandone un impianto ipotetico-deduttivo di fondo.

L’articolo sollevò una forte discussione sull’argomento che vide contrapporsi negli anni seguenti fautori dell’induttivismo, a dire il vero la gran parte degli epidemiologi dell’epoca[29], ed epistemologi del sapere epidemiologico[30].

Secondo gli epistemologi popperiani i criteri causali usati dagli epidemiologi sono sistemi di codificazione delle loro credenze e pertanto l’epidemiologia si configurerebbe come sistema di teorie non refutate.

Dall’altra parte invece gli induttivisti rimarcavano non solo la storia dell’epidemiologia nata come scienza dei conti basata sulle analisi dei registri parrocchiali e degli archivi ospedalieri[31] e soprattutto grazie agli apporti di demografia e demoscopia, ma che il criterio deduttivo non era atto a comprendere una scienza nata a fini di prevenzione sociale e il cui compito precipuo era quello di formulare “piani di ammortamento” per le patologie ad ampia diffusione.

 

  1. Probabilità e credenza in medicina

La probabilità come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, parlando dell’epidemiologia è un concetto portante del pensiero medico.

Probabilità significa frequenza non determinabile dalla semplice osservazione bensì frequenza ideale che sta alla base della frequenza osservata. La probabilità così definita è una frequenza sul lungo periodo, una probabilità frequentista.

«L’esatta misura di una probabilità frequentista resterà sempre ignota, in quanto non possiamo fare un numero infinito di osservazioni, ma una volta fatta una serie di osservazioni, lo statistico sa calcolare il cosiddetto intervallo di fiducia che è in grado di includere la vera probabilità ferquentista»[32].

Questo tipo di approccio probabilistico può essere applicato ad esempio al lancio dei dadi.

Quando abbiamo invece a che fare con eventi unici, come nei casi clinici o ad esempio nel caso del lancio di una navetta spaziale e della probabilità che essa faccia rientro alla stazione, dobbiamo parlare di interpretazioni quasi-probabilistiche.

È d’uopo pertanto distinguere tra probabilità frequentista e probabilità quasi-frequentista o soggettiva. Volendo applicare a casi clinici concreti questo schema prendiamo in considerazione il caso di un uomo che ricorre al consiglio del medico a causa di un dolore pericardico. L’elettrocardiogramma presenta un andamento anormale e la concentrazione di aminotransferasi è leggermente elevata. Un cardiologo conclude che sussiste una probabilità del 90% che il paziente abbia un infarto miocardico acuto.

Il cardiologo basa il suo asserto probabilistico sulle sue conoscenze di fisiopatologia[33]. Nel corso di una diagnosi clinica l’esperienza registrata (la letteratura medica) non costituisce mai l’unica base della decisione; il medico tiene in debito conto anche la sua personale esperienza e pertanto l’elemento credenza risulta infine preponderante nella elaborazione della diagnosi. Certamente al di là della probabilità diagnostica che incide fortemente in situazioni come quella del paziente cardiopatico prima analizzata abbiamo altri casi in cui, ad esempio il clinico deve valutare la possibilità che un suo paziente abbia un carcinoma epatocellulare. Così richiede al suo paziente un test diagnostico, per esempio la determinazione dell’α-fetoproteina nel siero e il risultato si rivela positivo. Il medico a questo punto vuole stabilire sulla base della letteratura medica a disposizione qual è la frequenza clinica per cui un α-fetoproteina positivo sviluppa carcinoma epatocellulare. Questi riscontra che nel 70% dei casi il test positivo è sintomo di carcinoma, mentre nel 2% non lo è.

Le probabilità frequentiste che il clinico ha rinvenuto nella letteratura possono essere scritte come segue:

P(S|M)=0,70 (la probabilità di questo particolare sintomo data questa particolare malattia è 70%) e

P(S|M̅)=0,02 (la probabilità di questo particolare sintomo data l’assenza di questa particolare malattia è 2%).

Queste probabilità sono dette nosologiche e hanno un interesse relativo dal punto di vista clinico; il problema per il medico è trasporre nell’ambito del singolo caso concreto queste stime probabilistiche. La conversione è solitamente, almeno dal punto di vista formale, stabilita sulla base del teorema di Bayles:

P(M|S)=  P(S|M)P(M)

       P(S|M)+P(S|M̅)P(M̅)

Da questa equazione si evince che per calcolare P(S|M) il clinico deve conoscere non solo le probabilità nosologiche P(S|M) e P(S|M̅), ma anche la probabilità a priori della presenza o assenza della malattia ossia P(M) e P(M̅)[34].

Appare chiaro da tutto ciò che la medicina dovendo confrontarsi con la variabilità biologica debba in qualche modo “addomesticare” tale variabilità: questo sembra anche il meccanismo epidemiologico sperimentale nell’ambito della farmacologia con i trial randomizzati. «Considerando che la variabilità è la norma piuttosto che l’eccezione[…] è necessario esprimere in modo sintetico la tendenza delle osservazioni»[35]. Tale espressione sintetica è consentita dal calcolo della media con un indice di “varianza” che tenga conto della dispersione dei dati[36]:

 

 

  1. Contributi filosofici nell’elaborazione delle metodologie mediche

La filosofia di J. S. Mill[37] ha dato un contributo fondamentale all’elaborazione di modelli e schemi applicati proficuamente nell’ambito della logica clinica.

Il punto di partenza del pensiero milliano è quello della regolarità e pertanto della conoscibilità e manipolabilità dei fenomeni fisici. La conoscibilità della natura è direttamente collegata alla rinvenibilità di un principio causale in essa.

Causa è l’insieme di tutte le condizioni, alcune rintracciabili, altre velate, che in una situazione x danno un effetto specifico y. Nel caso degli eventi patologici l’insieme delle cause che ad esempio possono determinare un decesso. A partire da queste premesse Mill articola il suo procedimento induttivo, che come stiamo per vedere ha avuto un buon successo applicativo nella elaborazione della logica e della metodologia clinica.

Il metodo delle concordanze ci dice che se un certo evento A, indipendentemente dagli altri eventi con i quali si presenta risulta concordemente, in più casi associato a un certo evento posteriore E posso dire che E è effetto di A. Volendo tradurre questo metodo in un caso medico concreto, pensiamo all’esposizione ad amianto che è stata concordemente associata in molti casi all’insorgenza di processi cancerogenetici, o all’uso costante di alcol associato all’insorgenza della cirrosi epatica o di disfunzioni cardiovascolari. In questo contesto, stiamo parlando di un procedimento induttivo di tipo enumerativo.

Il metodo delle differenze mi dice che conoscendo l’effetto di una certa combinazione di fattori, se inserendo in tale complesso un ulteriore fattore l’effetto cambia, potrò ascrivere l’effetto così ottenuto al fattore aggiunto.

Volendo proporre un esempio medico basti pensare all’effetto farmacologico sui complessi morbosi.

Il metodo dei residui richiama l’attenzione sul fatto che se un fenomeno è in parte spiegato da un complesso di fattori dovrà essere spiegato per la restante parte da altri fattori.

Pensiamo in caso di malattia al fatto che questa spesso non può essere spiegata con un’unica causa ma richiede un complesso causale pluristratificato.

La causa della tubercolosi è il mycrobacterium tuberculosis ma volendo scavare più a fondo constateremo che anche le scarse condizioni igieniche e il sovraffollamento ne sono sostanzialmente alla base.

Le variazioni concomitanti costituiscono il contributo più interessante di Mill soprattutto al comparto medico epidemiologico, perché secondo il filosofo inglese quando non riusciamo a rinvenire il principio causale che governa un fenomeno possiamo stabilire sulla base delle osservazioni un certo grado di plausibilità, probabilità che dietro quel fenomeno ci sia una certa causa o un certo complesso causale.

Altri contributi alla logica e metodologia clinica vengono da autori come Van Fraassen[38] e Mackie[39].

Quest’ultimo in particolare ha introdotto il concetto di INUS[40], applicabile in modo proficuo similmente al criterio milliano delle variazioni concomitanti, in casi di patologie in cui fattori ambientali si sovrappongono e si intrecciano con fattori genetici o legati alla prevenzione e ai mancati controlli periodici. Altro concetto fondamentale è quello di “campo causale”, con il quale Mackie mette in luce che nei processi esplicativi non tutte le cause effettive devono essere prese in esame per la corretta comprensione del fenomeno. 

 


[1] K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica (1970), tr. it., Torino 1998, cap. IV.

[2] Per quanto riguarda C. Buck confronta il testo Popper’s Philosophy for Epidemiologists in «International Journal of Epidemiology», 4, 3, 1975; per S. Lanes, The Logic of Causal Inference in K. Rothman, Causal Inference, Epidemiology Resources, Chestnut Hill, 1988.

[3] Cfr. D. Antiseri, G. Federspil e C. Scandellari, Epistemologia, clinica medica e la “questione delle medicine eretiche”, Rubettino editore, Catanzaro 2003.

[4] Per una breve trattazione sulla medicina sociale vedi H. R. Wulff, S. A. Pedersen e R. Rosemberg, Filosofia della medicina, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 167-191.

[5] D. Antiseri, G. Federspil e C. Scandellari, L’errore clinico, in Epistemologia, clinica medica e la “questione delle medicine eretiche”, cit., p. 96. Cfr. anche M. Grmek, Per una demitizzazione della presentazione storica delle scoperte scientifiche in G. Cimino, M. Grmek e V. Somenzi, La scoperta scientifica. Aspetti logici psicologici e sociali, Armando editore, Roma 1984.

[6] M. BALDINI, L’errore nella scienza in «Biochimica clinica», 18, 1995.

[7]Fase A: la teoria(T1) si mostra in accordo con tutti i fatti previsti; Fase B: scoperta di un errore. Uno dei fatti previsti dalla teoria non viene osservato e la teoria viene falsificata; Fase C: viene proposta una nuova teoria (T2) che è in accordo con tutti I fatti osservati. E= rappresenta il piano delle osservazioni empiriche possibili. I= rappresenta il salto speculativo che consente di formulare l’ipotesi a partire da una o più osservazioni effettuate. T1= rappresenta l’ipotesi formulata. D= sono I fenomeni che possono venire dedotti dall’ipotesi. O= sono i fenomeni che vengono realmente osservati.

[8] Vedi a questo proposito M. Baldini, Epistemologia e pedagogia sull’errore, La scuola, Brescia 1986; dello stesso autore Riflessioni epistemologiche sull’errore, in «Kos», 51, 1989; e Sull’errore in medicina, in «Kos», 52, 1990. Baldini distingue l’errore, tipico nelle elaborazioni teoriche, dallo sbaglio che è invece specifico delle operazioni di rilevamento diagnostico.

[9] A. Murri, Il medico pratico, Zanichelli, Bologna 1914.

[10] D. Antiseri, Teoria unificata del metodo, Liviana, Padova 1981, p. 97.

[11] Ovvero poiché la malattia, superato un primo livello puramente empirico di comprensione della stessa si inscrive in un contesto complesso e intricato in cui entrano in gioco concetti, osservazioni, esperienze plurime, esperimenti e definizioni operative oltre che ostensive, non è riducibile ad uno schema funzionale del tipo P(x,y).

[12] E. Poli, Metodologia medica. Principi di logica e pratica clinica, Rizzoli editore, Milano 1965. In questo testo Poli distingue due categorie di errori, quelli per immissione di dati errati (dati di osservazione: omissione, cattiva osservazione; nozioni; linguaggio) e quelli scaturenti dal discorso e riguardanti il processo di catalogazione, la spiegazione per deduzione, la spiegazione induttiva e il ragionamento in generale.

[13] D. Antiseri, G. Federspil e C. Scandellari, op. cit., p. 112

[14] Questo sbaglio deriva dal ritenere che poiché un evento ne precede un altro deve necessariamente esserne la causa (Post hoc ergo propter hoc).

[15] Il ragionamento dovrebbe suonare più o meno così: in chi è affetto da M1 possono presentarsi i fenomeni patologici F1, F2, F3; l’intervento terapeutico T1 impedisce il presentarsi di (o elimina) F1, F2, F3; il paziente P è affetto da M1; se somministro T1 a P impedirò il presentarsi di (o eliminerò) F1, F2, F3. Ovviamente questo è un modello estremamente semplificato che, ad esempio, non potrebbe essere applicato ai farmaci psicotropi e alla loro azione curativa su base puramente sintomatologica e che non tiene conto di elementi distorsivi come gli effetti collaterali dell’eventuale farmaco somministrato.

[16] Cfr. G. L. Engel, The need for a new Medical Model: a challenge for Biomedicine, in «Science», 4282, 1977.

[17] I precursori dell’epidemiologia moderna che è un prodotto del XX secolo sono Graunt, Louis, Farr, Gavaret, Franck, Bull, Snow, Semmelweis etc. Questi personaggi tentarono di stabilire in un modo quantitativamente rilevante l’incidenza e la persistenza dei complessi morbosi, facendo decisamente virare le ricerche biomediche in un campo che potremmo definire di medicina preventiva e sociale.

[18] L’epidemiologia è legata indissolubilmente alle leggi dei grandi numeri; essa non si occupa infatti di casi clinici isolati, bensì della rilevanza dei fenomeni morbosi su larga scala, ed è questo il motivo per cui inizialmente essa si interessò in particolare di malattie epidemiche come la peste, il colera, la febbre tifoide, etc.

[19] P. E. Sartwell, On the methodology of Investigation of Etiologic factors in Chronic Disease-Further Comments, in «Journal of Chronic Disease», 11, 1960.

[20] A. B. Hill, The environment and desease: Association or Causation?, in «Proceedings of the Royal Society of Medicine», 58, 1965.

[21] Pensiamo ad esempio al caso del colera di Londra risolto da Snow coll’ipotesi della trasmissione idrica del morbo. Ovviamente la prospettiva batteriologica che identificava il colera con il vibrio colerae sarà successiva ed opera di Koch.

[22] A. S. Evans, Causation and Desease: a Chronological Journey, in «American Journal of Epidemiology», 108, 1978.

[23] L’incidenza è la grandezza che esprime i nuovi casi in un certo intervallo rispetto a un tempo precedente.

[24] Lo schema di Evans è una sorta di sintesi dello schema di Hill con le leggi della batteriologia di Koch-Henle.

[25] Un esempio è lo studio di Framingham.

[26] Spesso i soggetti che si rendono disponibili per dei monitoraggi lo fanno già in base a taluni preconcetti sul loro stato di salute e altre caratteristiche. In altri casi invece è il ricercatore che sceglie i soggetti in modo scorretto ad esempio raccogliendo in modo sbagliato dei dati clinici.

[27] Spesso soltanto un fattore di rischio.

[28] Possiamo a giusto titolo parlare di due paradigmi epistemologici differenziati, poiché profondamente diverse sono le premesse causali che sono alla base dell’epidemiologia e della fisiopatologia. L’epidemiologia ha nel modello dell’EBM (Evidence-based-medicine) la sua forza; stiamo parlando di un approccio statistico e probabilistico; la fisiopatologia invece fonda il suo statuto epistemologico su un concetto forte di causazione (cause immediate o prossime individuabili attraverso il riscontro di lesioni o disturbi localizzati). Va, però, anche detto che entrambi i modelli presentano dei punti di contatto; l’epidemiologia parte da una prospettiva astraente e metaindividuale e considera ininfluente, al fine dei suoi studi, i singoli casi, individualmente considerati; la fisiopatologia parte da un modello standard di corpo e delle sue dinamiche bio-psico-organiche, e applica questo modello, poi, al corpo concreto. Entrambe le prospettive, insomma, non riescono ad approcciare il paziente in modo soggettivamente rilevante (ad esempio attraverso una diversa utilizzazione delle narrazioni anamnestiche al fine di una comprensione generale del soggetto - in particolare nei casi clinici in cui è difficilmente riscontrabile una base organica per il morbo). Per completare il discorso, sullo stesso piano riduzionista si muove anche il modello patogenomico con la sua proposizione deterministica del triangolo gene-proteina-eventuale insorgenza patologica.

[29] Vedi M. Susser, The Logic of Sir Karl Popper and the practise of Epidemiology in «American journal of Epidemiology», 124, 1985. Cfr. anche M. Jacobsen, Inference in Epidemiology, in K. Rothman, Causal inference, Chestnut Hill, 1988.

[30] Vedi D. L. Weed, An Epidemiological application of Popper’s method, in «Journal of Epidemiology», 39, 1985; e A. Smith, Comments on Popper’s Philosophy for Epidemiologists’ by Carol Buck, in «International Journal of Epidemiology», 4, 3, 1975.

[31] Semmelweis risolse il caso della febbre puerperale anche grazie all’analisi degli archivi dell’ospedale di Vienna e degli appunti medici di un suo collega.

[32] H. R. Wulff, S. A. Pedersen, R. Rosemberg, op. cit., pp. 116-117.

[33] L’interruzione del flusso sanguigno in una delle coronarie provoca un danno al miocardio e l’aminotrasferasi contenuta solitamente nelle cellule muscolari passa nel flusso sanguigno. Nello stesso tempo la conduzione degli impulsi elettrici al cuore è disturbata e nell’elettrocardiogramma compaiono cambiamenti come quelli riscontrati nel caso di questo paziente. Da queste conoscenze basate su studi sull’uomo e su animali il cardiologo conclude che la sua credenza nella diagnosi da infarto miocardico acuto è forte come la sua credenza nell’estrazione di una biglia rossa da un’urna contenente dieci biglie bianche e novanta biglie rosse. È evidente che in questo caso si tratta di probabilità soggettiva.

[34] Cfr. H. R. Wulff, S. A. Pedersen, R. Rosemberg, op. cit., pp. 122-123.

[35] P. Vineis, Nel crepuscolo della probabilità, Einaudi, Torino 1999, p. 27.

[36] Xi indica una generica osservazione e N il numero totale delle osservazioni. La varianza è una misura media dei quadrati degli scarti dalla media, cioè del grado di dispersione dei dati ( si usano I quadrati degli scarti anziché direttamente gli scarti dalla media perchè la somma di questi ultimi sarebbe uguale a 0. Ovviamente l’esperienza personale del medico curante sarà preponderante nella decisione degli approcci diagnostici e terapeutici. Pensiamo ad esempio al caso di un medico che non ha correttamente curato un certo paziente per aver trascurato alcuni sintomi o per aver interpretato in modo errato quadri clinici(ad esempio scambiando i sintomi di un’enteroduodenocolite allo stadio iniziale con quelli di un ansia somatizzata con colite spastica migrante; questo medico non ci penserà due volte nel caso gli si presenti un paziente con disturbi simili a prescrivere un esame colonoscopico). In altri termini seppure da un punto di vista statistico un unico caso di enteroduodenocolite non avrà rilevanza oggettiva, diverrà sicuramente un forte discrimine nell’approccio di quel medico verso pazienti con sintomi simili. È, inoltre, indiscutibile che l’approccio del medico tenga presente solo latamente il quadro delle formalizzazioni e delle inferenze statistiche nel trattamento dei pazienti, e si basi invece maggiormente su procedure di riscontro analogico che mettono in moto processi di tipo mnestico-comparativo. Detto in altri termini, il medico si forma più sul campo che nella lettura e apprensione della letteratura medico-diagnostica, che pure sia chiaro costituisce la conditio sine qua non delle operazioni mediche controllabili, riproducibili e quindi scientifiche.

[37] Vedi in particolare J. S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva, tr. it., Utet, Torino 1988.

[38] Cfr. B. van Fraassen, The scientific image, Clarendon, Oxford, 1980.

[39] Cfr. J. L. Mackie, Causes and Conditions, in «American Philosophical Quarterly», 1965.

[40] Ibid., p. 245 (trad. mia) “la condizione INUS è la parte insufficiente ma necessaria di una condizione che è essa stessa non necessaria ma sufficiente per il risultato”. Nel caso del carcinoma mammario è condizione necessaria ma non sufficiente la disfunzione genica; condizione sufficiente ma non necessaria la struttura fenotipica. Questo modello evita anche la possibilità di ricadute deterministiche di tipo genetico e ancora più a fondo genomico.

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