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Psichiatria e filosofia. Allittero ergo sum. Psicolatrie e filosofemi_psicolatrati e filosofischi

Autore


Paolo Amodio

Università degli Studi di Napoli Federico II

Editor in chief

Indice


 

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S&F_n. 14_2015

Abstract


In the story of culture, Philosophy and Psychiatry have intercepted each other more frequently to emphasize methodological distinctions than to integrate their respective analyses into a coherent picture. A story of disagreements, of categorical closures followed by sudden and not always sincere concordance in the name of the opposing concepts of Universality and Medicine, one would say. Here we ask whether it is still possible to rebuilt a conceptual framework, a new chapter in this relationship, to imagine new discursive possibilities.


Non faccio filosofia ma mi limito a pensare nell’ambito del compito specifico che mi sono posto: essere un vero psichiatra. È così che mi sono trovato, e così funziono come membro della società umana. Non nego affatto che altri ne sappiano più di me. Io non so, per esempio, come si potrebbe mai sperimentare Dio disgiunto dall’esperienza umana. Se non Lo sperimento, come posso dire allora che Egli è? La mia esperienza però è assai ristretta e ben piccola, e anche l’oggetto dell’esperienza è piccolo e condizionato dalla natura umana, nonostante l’opprimente intuizione dell’incommensurabilità: lo si vede benissimo quando si cerca di esprimerlo. Nell’esperienza tutto cade in preda all’ambiguità della psiche. La più grande esperienza è anche la più piccola e angusta, e perciò ci si trattiene con pudore dal parlarne a voce troppo alta o, addirittura, dal filosofarci sopra. Inoltre si è troppo piccoli e insufficienti per arrogarsi una pretesa del genere.

Jung

 

 

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Filosofia e psichiatria (quanto meno quella che si è declinata anche in termini di psicoterapia) sono essenzialmente – per natura e per statuto teorico – “discorsi”, “narrazioni”. Analisi e psicoanalisi, accademia e clinica, cura e guarigione, universale e caso. Nella storia della cultura, filosofia e psichiatria – spesso, ma non solo, in virtù della psicoanalisi – si sono incontrate e più spesso per distinguersi metodologicamente piuttosto che per coimplicarsi. Storia di attriti, forse, o di improvvisi ma non sempre autentici abbracci. Reciproche chiusure categoriali. Da un lato in nome di un’universalità, dall’altro in nome della clinica e del farmaco. Se c’è una storia riconosciuta – ma non sempre veramente indagata nei suoi riflessi e nelle sue effettive opzioni (al di là di Freud e Jung) da Jaspers a Binswanger a Foucault a Lacan – oggi le neuroscienze sembrano addirittura imporre un terreno di coltura condivisibile. È davvero così? La domanda, dunque, verte sui paradigmi: cui prodest philosophia? Difficile a dirsi: intanto, la storia della psichiatria e dell’istituzione psichiatrica ha incontrato e incontra spesso la “filosofia” come suo modello fondazionale e, allo stesso tempo, come suo orizzonte oppositivo. Non bisogna scomodare Charcot e Kraepelin, ad esempio, come momento di riversamento filosofico nella costituzione della psichiatria, o Goffman, Foucault e Basaglia come momento di confronto critico, produttivo e riproduttivo. E, del resto, le stesse scuole critiche, come quella dell’etnopsichiatria, non possono che complicare la domanda non soltanto sullo statuto paradigmatico della psichiatria (la malattia, i sintomi, le risposte sono universali? o, al limite: esistono?), ma anche sul suo ruolo nella definizione complessa della natura della natura umana e della cultura della natura umana, tra bíos e téchne. La psichiatria assume, dunque, quel ruolo anfibio che svela la complessità del Moderno e dei nuovi modelli di rappresentazione dell’umano: la contrapposizione tra natura e cultura, la relazione tra fondamento e struttura, la liaison pornographique tra istituzione e costituzione. Sullo sfondo, la narrazione sempre più complessa della manchevolezza strutturale dell’animale umano. Anche solo a mo’ di messa a punto: è possibile ricostruire il quadro, riproporre concetti e categorie, aspettarsi un nuovo quoziente di quel rapporto, intuire nuove possibilità discorsive?

 

 

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Dunque, lo psichiatra ha un paziente, per il quale a volte c’è solo un farmaco senza psicoterapia. Oppure la psicoterapia è il farmaco. Ma ci giro intorno. Come che vada, non sempre c’è narrazione o discorso, ma silenziosa cura clinica: la narrazione è dunque lo sguardo strabico della filosofia che guarda alla psichiatria e – come lo studente di filosofia del liceo che confonde filosofia e psicologia – la confonde con la psicoanalisi e i suoi racconti.

Se è vero – come qualcuno qui ha scritto – che il punto centrale della psichiatria del terzo millennio è che non è attrezzata per riconoscere il suo limite e concepisce l’altro, il suo paziente, come un oggetto da ridurre alla forma della sua supposta curabilità, la filosofia è ozio colpevole, negozio e postulato di potere senza alterità, senza differenza, presuntuosa di prassi.

Tra psichiatria e filosofia c’è chi ci rimette la vita, chi invece scommette con Dio. E poi tanti volti, maschere, Io: odiosi, trascendentali, duplici, animati, corporei, mentali, incarnati, scheletrici, esoterici, assoluti, patici, psicotici, perplessi. C’è una guida per ognuno, scritta o prescritta. Troppi psichiatri, troppi filosofi. Latrati e fischi. Alla luna

Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto.

Shakespeare

Com’era noto a Derrida, Platone possedeva una farmacia, perché la scrittura potesse emergere-rimediare-avvelenare l’oralità e ogni segno. Sicché il gioco genealogico versus la filosofia e la sua presunta onnipotenza richiama, anzi mette in luce, uno schema familiare e archetipico: nel nome del Padre-Logos si annidano rimozione, castrazione, sublimazione, pulsione di morte, coazione a ripetere, e i segni si fanno lapsus, simulazioni, dissimulazioni, sintomi, residui, tracce.

Come lo psichiatra che sbaglia farmaco, il filosofo allittera.

 

La più cruda luce diurna, la razionalità a ogni costo, la vita chiara, prudente, cosciente, senza istinti, in contrasto con gli istinti, era essa stessa soltanto una malattia diversa, e in nessun modo un ritorno alla virtù, alla salute, alla felicità.

Nietzsche

Parità di voci?

Equivoci

Perciò preferisco il linguaggio equivoco, perché rende giustizia in ugual misura alla soggettività delle rappresentazioni archetipiche e all’autonomia dell’archetipo. “Dio”, per esempio, significa da un lato un ens potentissimum inesprimibile, dall’altro un’allusione estremamente inadeguata e un’espressione di impotenza e di perplessità umana, vale a dire un evento di natura estremamente paradossale. Lo spazio dell’anima è incommensurabilmente grande e colmo di realtà vivente. Al margine di questo spazio sta il segreto della materia e quello dello spirito, ossia del senso. Per me, questo è l’ambito entro il quale posso esprimere la mia esperienza.

Jung

Ironie

La psicoanalisi è più una passione che una scienza: perché le manca la mano ferma nelle sue indagini, anzi perché questo difetto costituisce già da solo l’unico requisito per fare psicoanalisi.

Karl Kraus

Terzi argomenti

Anche la follia merita i suoi applausi.

Alda Merini

Perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano… bruciano… bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno ooohh.

Jack Kerouac

Se fosse necessario sarei disponibile al farmaco se mi promettesse un sogno

I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e divengono perfetti – di solito il sogno è un lavoro di acciarponi – sono simboliche catene di scene e di immagini in luogo di un linguaggio poetico di narrazione; essi parafrasano le nostre vicende o aspettative o relazioni con artistica arditezza e determinatezza, al punto che poi la mattina stupiamo noi stessi, se ci ricordiamo dei nostri sogni. Noi consumiamo nel sogno troppa arte – e ne siamo perciò di giorno così poveri.

Nietzsche

Qui immagino due risposte. Quella del filosofo sarebbe fermamente «no»: non si può tenere un discorso serio e responsabile sul sogno, nessuno potrebbe neppure raccontare un sogno senza svegliarsi. Una simile risposta negativa, di cui si potrebbero fornire mille esempi da Platone a Husserl, credo che definisca forse l’essenza della filosofia. Il «no» lega la responsabilità del filosofo all’imperativo razionale della veglia, dell’io sovrano, della coscienza vigilante. Che cos’è la filosofia, per il filosofo? La veglia e il risveglio. Tutt’altra, ma non meno responsabile, sarebbe forse la risposta del poeta, dello scrittore o del saggista, del musicista, del pittore, dello sceneggiatore di teatro o di cinema. Persino dello psicoanalista. Non direbbero no ma sì, forse, a volte. Direbbero sì, forse, a volte. Sarebbero acquiescenti nei confronti dell’evento, della sua eccezionale singolarità: sì, forse si può credere e confessare di sognare senza svegliarsi; sì, non è impossibile, a volte, dire, dormendo, a occhi chiusi o spalancati, qualcosa come una verità del sogno, addirittura un senso e una ragione del sogno che merita di non precipitare nella notte del nulla.

Derrida

 

e un viaggio

 

Ovunque mi trovi ad andare, scopro che un poeta è già stato là prima di me.

Freud

Filosofia e psichiatria: falangi macedoni, muri contro muri di amori, certezze e divisioni

 

La differenza tra me e la maggior parte degli altri uomini è che per me i “muri divisori” sono trasparenti. È questa la mia caratteristica. Altri ritengono i muri così spessi, che al di là di quelli non vedono nulla, e perciò credono che non vi sia nulla. In un certo qual modo io percepisco i processi che si verificano nel profondo, e da ciò deriva la mia certezza interiore. Chi non vede nulla non ha nessuna certezza, e non può pervenire a nessuna conclusione, o non può fidarsi delle sue conclusioni. Non so che cosa mi abbia consentito di percepire la corrente della vita. Probabilmente l’inconscio stesso, o forse i miei primi sogni. Essi hanno deciso il mio cammino fin dall’inizio. La conoscenza dei processi del profondo ha ben presto plasmato la mia relazione col mondo. Fondamentalmente fu già nella mia infanzia quella che è oggi. Da bambino sentivo di essere solo, e lo sono ancora oggi, perché conosco cose e debbo riferirmi a cose delle quali gli altri apparentemente non conoscono nulla, e per lo più nemmeno vogliono conoscer nulla. La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. La solitudine cominciò con le esperienze dei miei primi sogni, e raggiunse il suo culmine al tempo in cui mi occupavo dell’inconscio. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.

Jung

Anche nella veglia ci comportiamo come nel sogno: cominciamo con l’inventare e immaginare l’uomo con cui trattiamo – e dimentichiamo subito questo fatto.

Nietzsche

D’altronde non sempre si è soli e spesso va ammirato chi davvero vede in trasparenza i muri divisori, che equivoca e magari dimentica.

Quand’è così, che si allitteri per piacere, che si sogni e, se ci si ammala, si finga che si tratti dell’effetto collaterale del racconto di un vecchio canto.

Tu qui? Come venuto? Hai dunque un viso

di tanta audacia, che al mio tetto giungi,

tu che palesemente l’assassino

sei di quest’uomo, e il ladro manifesto

del mio potere? Pei Celesti, dimmi:

qual traccia di demenza o di viltà

hai scôrta in me, che t’indusse alla trama?

Immaginavi tu ch’io non vedessi

strisciar la frode, o, vistala, indugiassi

a rintuzzarla? Ah! Ma fu pazza impresa

la tua, senza partito e senza amici

dar la caccia al poter, che si conquista

sol con molte dovizie e molta gente.

Muoia chi, sciolti dai selvaggi vincoli

i piedi miei, me trasse a salvamento,

e mi raccolse, ahimè, non pel mio bene!

Se quel giorno ero spento,

né a me né ai cari causa sarei di tante pene.

Né l’uccisor sarei

del padre, e non direbbero

me di colei che madre ebbi, consorte.

Ora iddii piú non ho, stirpe son d’empî,

con quelli onde infelice nacqui sono commisto;

e se v’è mal piú tristo,

quello Èdipo ebbe in sorte.

Sofocle

Qual è l’azione della musica?

Essa risolve una visione in volontà.

Nietzsche

 

Quando sono stanco, stono ma canto.

P.A.

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