S&F_scienzaefilosofia.it

Jünger\Céline. Sulla Catastrofe

Autore


Gianluca Leggiero

insegna Filosofia e Storia nei Licei

Indice


 

  1. Jünger e Céline: una relazione pericolosa
  2. Céline: La catastrofe come unico spazio vitale
  3. Jünger: l’apocalisse e l’enigma del mondo

↓ download pdf

S&F_n. 08_2012

Abstract



In their works Jünger and Céline – a part from their meetings in Paris – have always dealt with the theme of the catastrophe, even in terms of apocalypse. This catastrophe has been considered both as an historical fact – in the experience of the First and Second World War – and a cultural phenomenon represented by nihilism – the philosophy through which the twentieth century showed its nature. For the French writer the catastrophe coincides with life itself, rather, it proves the unreasonableness of life, so that the apocalypse ultimately comes to represent a sort of universal catharsis. In Jünger, both the catastrophe and the apocalypse are means to a higher revelation, through which man can recover an original and poetic way of being in the world.


  1. Jünger e Céline: una relazione pericolosa

Il 1932 è l’anno in cui vengono dati alle stampe sia il Voyage au bout de la nuit del dottor Destouches sia Der Arbeiter di Ernst Jünger; opere di grande rilevanza nella produzione dei rispettivi autori.

Alla fine della campagna di Francia, il capitano Jünger fu inviato presso lo stato maggiore del comando militare di stanza a Parigi e qui ebbe più volte modo di incontrare, durante i giovedì letterari in casa di Florence Gould, l’autore di quel Voyage che l’aveva favorevolmente impressionato «sia per la forza dello stile, sia per l’atmosfera nichilista che evocava e che rifletteva molto bene la situazione di quegli anni»[1].

Nelle tante interviste rilasciate l’incontro con il personaggio Céline sarà sempre rievocato con toni piuttosto spiacevoli da cui traspare un profonda disistima; emblematica se si pensa che, tra le varie frequentazioni intrattenute nel periodo parigino, questa fu l’unica che non degnasse di affetto e ammirazione.

Nei Diari, poi raccolti con il felice titolo di Irradiazioni, è palese il passaggio da un’iniziale delusione fino all’insopportabilità «solo della vista» di quell’uomo da cui si sprigionava «l’immensa forza del nichilismo»[2], incarnazione stessa del nichilismo.

Inoltre se prestiamo fede al giudizio di Umm-el-Banine[3] su Jünger, descritto come un uomo incapace di provare odio, è evidente in che modo questo incontro-scontro vada ben di là di una reciproca antipatia, che risparmiava unicamente il «comune amore per i gatti».

Ciò che infastidisce l’autore tedesco è il collaborazionismo e l’ostentato antisemitismo di Céline; indicativo a proposito è il dialogo, anzi il «monologo» per la nota irruenza del “bardo visionario” trascritto in data 7 dicembre 1941. «Céline è sorpreso, urtato di sentire che noi soldati non fuciliamo, non impicchiamo e non sterminiamo ebrei; sorpreso che qualcuno avendo una baionetta a disposizione non ne faccia un uso illimitato»[4].

Nelle lettere dall’esilio del periodo 1947-49 indirizzate al professore ebreo americano Hindus, Céline si difenderà dall’accusa di antisemitismo sostenendo che si trattava di un vizio comune alla maggioranza degli intellettuali francesi di cui soltanto lui aveva pagato il prezzo.

Céline ritratta, indossa i panni della vittima per concludere con la teoria dominante che scorre indietro alla sua scrittura: la storia è un teatro di guerra, miserabile e spietato, in cui le razze lottano tra di loro. Vince chi rimane maggiormente fedele alla propria specificità biologica, difatti, tramontato l’antisemitismo nelle stesse lettere dalla Danimarca avverte che il pericolo diventa «giallo e nero»; rispetto al quale, confida al docente americano «siamo tutti sulla stessa barca».

Jünger stigmatizza proprio l’interpretazione della biologia céliniana adoperata come «avrebbero fatto gli uomini dell’età della pietra; per loro diventa un mezzo puro per ammazzare gli altri».

Discorrendo dello scontro tra Jünger e Céline, il Kaempfer s’argomenta di mostrare, senza che manchino esplicite forzature, quella teoria pulsionale che assume come cifra di lettura principale per l’opera dell’autore tedesco. Egli nota che Jünger inconsciamente compia su Céline una trasfigurazione del proprio represso desiderio del «piacere di uccidere» e avvalendosi di ingegnose congetture, così continua: «nelle uscite dell’interlocutore (Céline), secondo come Jünger le descrive nella memoria, non si trova nulla dell’immagine dell’esecuzione di massa. Verosimilmente essa rappresenta una visione sua propria, che egli involontariamente trasferisce su di un uomo, che doveva, da parte sua non proiettare il male fatale»[5].

Un’altra accusa mossa a Jünger consiste nel fatto che, trovatosi di fronte alla «professione senza riserve in favore del nazismo» di Céline, egli lo collocasse “soltanto” in una tipologia di uomini dediti a nient’altro che a questo, e così fornendo «ancor meno ragione del male»[6]. Il Kaempfer trasforma dunque la diatriba fra i due in un confronto ideologico, e interpreta le accuse di Jünger come la sua insanabile patologia per il “male fatale”, per cui il filosofo avrebbe proiettato su Céline la sua sbandierata voglia di sterminio. Certo di motivi ne avrebbe avuti, dato che l’autore francese pubblicò tre testi dal 1937 al 1941 (Bagattelles pour un massacre, L’école des cadavres e Les beaux draps), impregnati di un feroce antisemitismo.

Ora, tralasciando i dati specificatamente biografici e le letture pregiudiziali su questo turbolento rapporto, ciò che accomuna Jünger e Céline è il loro essere soli e in questa solitudine cercare di articolare la loro risposta all’interrogazione del nulla e il loro perpetuo confronto con la catastrofe, soprattutto in relazione al suo concretizzarsi nell’esperienza bellica dei due conflitti mondiali, tema d’indagine costante dei rispettivi itinerari.

Céline, di ritorno in Francia dall’esilio danese, stabilitosi in totale solitudine nella casa di Meudon, scriverà gli ultimi grandi romanzi della “Trilogia del Nord” e la guerra tornerà ad affastellarsi nei suoi pensieri e ad addentrarsi nei suoi lavori; quella guerra ben descritta da Nauselli come «il basso continuo della petit musique di Céline, ossessione del secolo e tonalità fondamentale della sua scrittura»[7].

Jünger, passato indenne “da una guerra all’altra”[8], ricorderà ancora novantacinquenne, in Die Schere, come: «non si voleva credere a quanto si era vissuto a Verdun e nelle Fiandre. Il fuoco divenne assoluto. Nel frattempo si annunciava un fuoco che non veniva dall’artiglieria e che dunque segnava una svolta al di fuori dell’esperienza»[9].

  1. La catastrofe come unico spazio vitale

Nell’opera Aestetica in nuce[10] di Hamann si trova l’epigramma, «la poesia è stata la lingua materna del genere umano», che Jünger farà per sempre suo e che riscontra profonde e sostanziali analogie con la poetica céliniana. Per Céline «il fondo dell’uomo è malgrado tutto poesia, solo l’educazione gli spezza questo filo poetico»[11].

Elio Nauselli ha evidenziato come «l’origine della poetica céliniana coincida con l’Origine tout-court, l’espressione incorrotta è lirica, il discorso razionale è da subito testimonianza di una perversione dell’istinto»[12].

Au commencement était l’emotion ribadisce Céline. Nel suo stile che tanto prende in prestito dal gergo e dalla sintassi argotica, da cui è ancora possibile esumare i resti di un lirismo primordiale oltre a un naturale agglutinarsi con la realtà (la miseria dei bassifondi è per Céline l’unica cosa reale) e oltre alla polemica letteraria[13] pur cospicua nel Voyage, è da scorgere un nucleo allotrio, immobile che dietro la torsione del parlato nello scritto, dietro la trasposizione della scrittura in partitura, si staglia nella prioritaria intenzione di raggiungere il lettore «nel sistema nervoso, nell’emozione», di restituire l’emozione con l’emozione.

Nondimeno si impernia su questo centro, lo stesso “delirio” céliniano, sia nel tentativo di sostituirsi come valido mezzo nella comprensione della realtà alla presunta lucidità razionale e sia come perfetto contraltare di quel vizio per le forme belle e perfette (la danza su tutte), che coltiva Bardamu. Nelle evoluzioni prodigiose, nelle spirali librate tra le quinte dell’aria dalla ballerina, si partecipa nell’ammirazione estatica ed estetica al tempo, misurabile esclusivamente dall’impressione scolpita nella memoria, in cui l’articolarsi dei gesti ha la meglio sulla gravità dell’esistenza. Ma è un vizio, perché Bardamu insegue per il mondo quella musica sublime che sospinge il corpo nella diafana bellezza di pose lievi ed equilibrate; mentre Céline in virtù di diacronie, sincopi, di quella lingua messa in jazz, tributaria in primis a Paul Moran[14], fino a farsi delirio, squilibrio, porta Bardamu a eseguire in una suite goffa e convulsa quella disarmonia, che dal mondo solo proviene.

La barbarie espressiva, colata nel fuoco delle passioni può recuperare l’emozione, ma l’origine è spezzata per sempre. La virulenza verbale allora si attesta come cifra di un’irrimediabile impotenza.

Nel Voyage inevitabilmente ogni stato di quiete raggiunto si modifica senz’appello in uno di inquietudine, rimettendo tutto in gioco, a rischio; «“Céline\Bardamu” – nota Ernesto Ferrero[15] – è un eterno sopravvissuto che per sentirsi vivo deve rinnovare a ogni istante la minaccia di una apocalisse». Tutte le storie narrate, ha riscontrato Henry Godar[16], ripetono lo stesso andamento circolare: all’inizio c’è sempre un abbaglio, una cantonata, un errore di valutazione che precipitano Bardamu in un “tragicomico balletto” di situazioni difficili o disperate, da cui emerge sempre a fatica, sempre in modo provvisorio.

Una rinuncia ripetuta e forzata, dove non vi è solo il desiderio di non abbandonare la gente delle periferie, che ovunque sembra reclamare Céline da illusorie felicità, ma anzitutto vi è da rintracciare la concezione per cui «tutto è musica e danza, sempre ai margini della morte, mai caderci dentro», dove l’esistenza è un mero accidente, una concezione in cui lo stesso mondo dei reietti non rappresenta altro che il congelamento in vitro, senza possibilità di riscatto né di redenzione, dell’intera condizione umana.

Il Voyage che nel concretarsi negli scali in Africa e in America, porta Bardamu a scovare, nel fitto di una foresta e nella stanza di un bordello, quei due magnifici e assoluti “messaggeri d’amore” nelle figure del sergente Alcide e della prostituta Molly non ci ricorda forse che l’amore è dappertutto e in nessun luogo? O ci indica che solo nell’abbraccio del pericolo, nell’abbandonarsi al rischio, alla catastrofe e alle conseguenti vicissitudini, sia possibile scorgere segni di salvezza? Nessuna dialettica ma ovunque la verifica di una controprova: vita atroce, vita insopportabile.

E pur fidando in questa estrema possibilità di conforto, ci si accorge nel Voyage, che il contesto in cui si offre non crolla con la sua realizzazione. Di più: ammettendo che le fughe irose di Céline non cerchino “amore” o che lo trovino ma senza alcuna conversione, la catastrofe resta l’unico espace vital. L’approdo è una deriva nichilista senza scampo: la vita si rende, senza escludere il dato biologico assicurato dalla scarica adrenalinica nei suoi picchi, solo in prossimità di un paesaggio di rovine. Lo scrittore francese tenderà sempre a dimostrare il suo teorema per cui vita e catastrofe sono direttamente proporzionali e in tale more geometrico il vero “bagaglio” del Voyage risulta condensato nell’affermazione: «è forse questo che si cerca nella vita, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire».

È fuori discussione che Céline non trasferisse sulla pagina la caterva di rancori che gli ribollivano all’interno e come sostiene ancora Godard[17] «non si potrebbe immaginare niente di più falso di un Céline che scrive i suoi romanzi sotto il dettato incontrollato delle sue passioni e dei suoi odi. Il lungo lavoro che esige l’elaborazione di ciascuno di essi si rivela al contrario perfettamente lucido». Lo stesso dicasi nell’opzione tra buoni e cattivi sentimenti, per Céline non sussiste nessuna scelta, la penna corre dritta verso i secondi.

La civiltà europea al crepuscolo dopo le due guerre mondiali non può fornire garanzie generatrici di nuovi valori ma soltanto logorare i vecchi e disfarsene. Céline risponde alla fascinosa chiamata della decadenza per la quale le verità sono più morte dei cadaveri lasciati in numero impressionante dai conflitti Novecenteschi e dei sogni non vi è che lo scheletro.

La storia non è più presa sul serio e l’autore francese non si sogna minimamente di voler combattere la decadenza bensì l’alimenta, l’incoraggia. Il nuovo, l’annuncio che s’attende non è un nuovo sistema impenetrabile all’orrore umano bensì l’apocalisse, forma collettiva di catarsi che va precipitata.

In questa attesa o meglio, nella paura di quest’ultima, Céline ha alimentato i suoi pregiudizi e intimato contro chi se ne dichiarava scevro.

Per lui un popolo che abdica ai suoi idola, in senso baconiano, è irrimediabilmente indirizzato alla disgregazione; pur se falsi nella loro creazione rappresentano – attraverso la forza della trasmissione che li ha alimentati – l’estremo baluardo di un popolo che ormai senza più scrupoli è capace perfino di rinnegare se stesso.

  1. Jünger: L’apocalisse e l’enigma del mondo

All’interno dei diari veri e propri, ma anche in scritti come Cacce Sottili[18] o nei vari resoconti di viaggio, nonché nei romanzi quasi autobiografici come Afrikanische Spiele[19] e Die Zwille[20], Jünger utilizza un metodo non distante da quello céliniano. La mole delle esperienze vissute vengono passate al setaccio da una ri-scrittura creativa, che fa emergere in maniera inedita i contenuti[21]. L’opera diventa il luogo dell’eccedenza dello scrittore sull’uomo, ma in questa trasfigurazione degli eventi entrambi con grande schiettezza li caricano di una tensione epigonale da cui possa affacciarsi di volta in volta il loro reale atteggiamento verso la modernità. Questo non significa certo che non conoscano pose e maschere, anzi, ma in loro ogni forma di scarto è il risultato di una altissima e assai sorvegliata tensione dello stile, seppure con due stili agli antipodi che ben esprimono due nature e due personalità antitetiche.

Jünger, però, non conosce nessun Weltschmerz, nessun mal di secolo né malattia generazionale. Non proverà mai nessuna romantica malinconia della “fine del mondo” se non quando tenta di ridefinire una concezione della storia in assoluto anti-progressista. Dico questo ben consapevole della miriade d’accuse volte alla vita e all’opera jüngeriana, solo di sfuggita si può qui ricordare il giudizio impietoso di Ralf Darhendorf di «un uomo la cui intelligenza non presenta tracce di moralità»[22]. Incolpato di nichilismo estetizzante, di passione barocca per lo spettacolo fastoso della rovina e della morte, oggetto di analisi psicoanalitiche e di opere passate riga dopo riga attraverso lo scandaglio delle affinità col nazismo, descritto come l’autore di architetture demoniache, può sembrare paradossale tenerlo lontano da quell’attrazione per la catastrofe ricordata per Céline. In Jünger l’apocalisse ha valore letterario come rivelazione totale ed esaustiva di quell’enigma che è il mondo. Nelle sue opere immediatamente posteriori alla guerra emerge che nel turbine della battaglia ciò che è coinvolto realmente è la carne/coscienza, unità psicofisica riscritta alla luce dell’evenienza di forze elementari e ctonie. La purificazione attraverso il sacrifico della guerra rimane solo di sfuggita all’interno di un dettato ideologico pur presente per far riaffiorare una prossimità con l’elementare, col pericolo come forma non mediata della vita che senza la guerra non sarebbe stato possibile disseppellire.

In Céline, invece, catarsi e sacrificio procedono in un circolo ininterrotto, non vi è soluzione ed è nel pretendere sempre più immani apocalissi che risponde l’eco amplificata della vita.

In Céline il dolore smette di fortificare e a differenza di Jünger non ci innalza ogni volta alla sua altezza, però nel primo l’orrore della guerra non può essere redento né conduce a verità superiori. Scrive Jünger: «vi è un altalenare infinito tra ciò che all’uomo si mostra e ciò che egli afferra – tra la sconfinata pienezza nella quale il mondo manifesta il suo enigma e il modo in cui l’uomo vi risponde»[23].

Nel raggrumarsi della volontà per l’ingenua e commovente impresa di fermare in solitario la carneficina, il Voyage resta l’atto d’accusa indiscusso mosso all’assurdo, al dolore scaturito da quegli uomini «di cui soltanto bisogna aver paura sempre». Un grido disperato, che rappresenta proprio ciò che Jünger è stato incapace di fare. A posteriori possiamo solo immaginare la reazione di Céline di fronte a un brano, carico di ardimentosa e impavida esaltazione, delle Tempeste, che di seguito riportiamo. «Mi tirai su lentamente, mentre il sangue accumulato nel polmone fuoriusciva dalle ferite. Più scorreva e più mi sentivo rinfrancato. A testa nuda con la camicia aperta e la pistola in pugno guardavo la battaglia»[24]. Di certo non sarebbe stato un innocuo e misurato denigrare[25]. Per Jünger la guerra risulta eccezionale solo per ciò che di eccezionale riesce a mostrare. «Le catastrofi provano fino a quali profondità uomini e popoli sono radicati nel terreno originario»[26]. E Céline oltre: «Possiamo ammettere che esiste sempre un punto di vista secondo il quale la catastrofe rientra in un piano perfino quando si tratta di sconvolgimenti inconcepibili»[27].

L’uomo, nella paura che la catastrofe suscita, si radica a forze originarie; la catastrofe rivela alla luce ciò che vi è di profondo, di inattaccabile. Permane da un lato quindi la stessa struttura delle opere successive alla Grande Guerra, dove per esempio la catastrofe della guerra era la non-catastrofe come varco dell’Elementare e riproposizione della vita nella sua essenza belluina, mentre adesso che la sua localizzazione coincide con la zona del nichilismo, sono quelle forze magiche e mitiche che rafforzano l’habitus del singolo, che permettono l’accesso alla facoltà di conoscere ciò che la Terra vuole e suprema via permanente per accedere allo “spirito della terra” è la Poesia[28], segno mai trascorso di un legame inscindibile con l’origine.


[1] Giudizio riportato nell’intervista A. Gnoli, F. Volpi, I Prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 93.

[2] E. Jünger, Irradiazioni, tr. it. Guanda, Parma 1993, p. 56 sgg. Si veda, anche, per gli altri passi riguardanti Céline, alle date 14 Marzo e 16 Novembre 1943.

[3] Banine, curò l’edizione francese dei Diari, ma spinta dalla grande avversione che nutriva per Céline riconoscendolo dietro lo pseudonimo di Merline, ne restituì la vera identità, contravvenendo alla volontà di Jünger di non diffamare persone ancora in vita. Céline, da par suo, intentò una causa di diffamazione contro Jünger, il quale liquidò sbrigativamente la faccenda appellandosi a un banale refuso di stampa, senza così coinvolgere l’amica francese, e dimostrando ancora una volta la sua ferrea intenzione di non scendere mai sul piano delle polemiche, che in svariate occasioni si sono alzate intorno ai suoi scritti e alla sua vita. Cfr. per questo episodio, A. Gnoli e F. Volpi, I Prossimi Titani, cit., da p. 93.

[4] E. Jünger, Irradiazioni, cit., p. 56.

[5] W. Kaempfer, Ernst Jünger, tr. it. il Mulino, Bologna 1991, da p. 63.

[6] Ibid.

[7] E. Nauselli nella Prefazione a L. F. Céline, Lettere dall’esilio. 1947-49, tr. it. Archinto Editore, Milano 1992, p. 23.

[8] Parafrasando Da un castello all’altro, uno dei tre romanzi céliniani della Trilogia tedesca, tra l’altro ambientato dove Jünger ha vissuto fino al 1998, anno della morte.

[9] E. Jünger, La Forbice, tr. it. Guanda, Parma 1996, p. 137.

[10] Citato in E. Jünger, Al muro del Tempo, tr. it. Volpe, Roma 1965, p. 81.

[11] Riportato in E. Nauselli nella Prefazione a Lettere dall’esilio. 1947-49, cit., p. 18.

[12] Ibid. Nauselli aggiunge che Céline prova a riscrivere la Genesi: «all’origine era l’emozione poi venne il tradimento del Verbo».

[13] Frequenti sono nel Voyage le invettive contro il francese accademico e paludato. Céline in continuazione si scaglia contro lo «stile Paul Borget» ipocrita e artificioso: cfr. E. Ferrero, Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, postfazione a L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, tr. it. Corbaccio, Milano 1995, p. 561 sgg.

[14] L’unico tra i pochi salvati dall’autore insieme a Barbusse. Lo stesso Henry Miller che si professa suo fedele devoto, non viene risparmiato: cfr. L. F. Céline, Lettere dall’esilio. 1947-49, cit., p. 47 sgg.

[15] E. Ferrero, Céline, ovvero lo scandalo di un secolo, cit., p. 563.

[16] Ibid.

[17] H. Godard, in Prefazione a L. F. Céline, Trilogia del Nord, tr. it. Einaudi, Torino 1994, p. XXX.

[18] E. Jünger, Cacce Sottili, tr. it. Guanda, Parma 1997. Qui l’autore racconta l’iniziazione al fascino dell’entomologia subito fin dagli anni giovanili e i vari viaggi compiuti in tutto il mondo per soddisfare questa passione, che privilegiava in particolare i coleotteri per la compattezza e bellezza delle linee, definiti “ornamento della terra”; anche se la sorte ha voluto che una farfalla, con una grazia più abbagliante, più appariscente portasse il suo nome: la “Trachydora Jungeri”.

[19] Id., Ludi Africani, tr. it. Guanda, Parma 1995.

[20] Id., Die Zwille (La Fionda), Ernst Klett Verlag, Stuttgart 1973.

[21] Dopo il clamoroso successo del Voyage, Céline si divertiva a depistare i suoi primi intervistatori, sostenendo di scrivere così come parlava. In realtà, come conferma nelle lettere inviate dalla Danimarca a Milton Hindus, la sua pagina d’apparente naturalezza rispondeva al suo prefissato intento di «parlare all’orecchio» del lettore e nascondeva un complesso e articolato lavoro sullo stile e sulla musicalità: cfr. L. F. Céline, Lettere dall’esilio, cit., da p. 41.

[22] Giudizio espresso in un articolo sul «Times Literary Supplement» e ripreso dal «Corriere della Sera» il 15 marzo 1997.

[23] E. Jünger, Tipo Nome Forma, tr. it. Herrenhaus, Milano 2002, p. 19

[24] Id., Nelle tempeste d’acciaio, tr. it. Guanda, Parma 1995, p. 324.

[25] Per Céline il ripudio della guerra non va certamente cercato nella vigliaccheria, si ricorda che fu anch’egli pluridecorato per una ferita riportata. Anzi possiamo stilizzare un’altra differenza proprio nel rispettivo atteggiamento: Céline vedeva le ferite come una benedizione, essendo la convalescenza una fuga dall’assurdo, mentre Jünger s’arresta soltanto di fronte a una gravità imponderabile, altrimenti l’unica cosa che conta è soltanto combattere.

[26] E. Jünger, Trattato del Ribelle, tr. it. Adelphi, Milano 1990, p. 40.

[27] Id., Al muro del tempo, cit., p. 116 .

[28] Cfr. Id., Il cuore avventuroso, tr. it. Guanda, Parma 1994, p. 87.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *