S&F_scienzaefilosofia.it

Sulla Natura dopo Darwin

Autore


Giuseppe Lissa

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Natura, Sacro, Tecnica, Ubris
  2. Controllori della Natura?
  3. Essere e bene, ragione e calcolo: la physis dai Greci ai Moderni
  4. Darwin, un rivoluzionario riluttante?
  5. Ma Darwin sapeva
  6. Fabbricare o migliorare l’uomo?
  7.  Responsabilità vs. ontologia

↓ download pdf

S&F_n. 01_2009


  1. Natura, Sacro, Tecnica, Ubris

A differenza di quanto pensavano ancora negli anni trenta del Novecento, spiriti illuminati, come, ad esempio, Léon Brunschvicg, i quali ritenevano che la storia avrebbe promosso un incremento progressivo della coscienza umana, man mano che si sarebbero accresciute le conoscenze scientifico-matematiche, non poche incertezze, non pochi dubbi e, a volte addirittura, significative ostilità, non hanno mancato di insorgere anche nella coscienza dell’uomo occidentale rispetto alle prerogative della tecnica di sostenere lo sforzo umano. A ben guardare, questo atteggiamento che circola fortemente nella cultura della fine del XIX secolo è ripreso, rielaborato e rilanciato nella cultura del XX secolo da Jünger a Heidegger alla scuola di Francoforte e circola potentemente nei più importanti e originali filoni della rinata filosofia cristiana, sia di indirizzo cattolico, sia di indirizzo protestante. In quanto tale, esso costituisce un nucleo problematico di grande importanza che andrebbe meglio esplorato e meglio compreso. Quel che qui, in seguito a un approccio ancora episodico, mi sentirei di mettere in evidenza è che questo atteggiamento di ostilità nei confronti delle macchine e ancor più della tecnica, che consente il dispiegamento della civiltà delle macchine, è dovuto a un’interpretazione peculiare della nozione di natura.

La natura non è in questi orientamenti identificata puramente e semplicemente, e, cioè, in maniera neutra, come l’insieme di tutto quel che è e che diviene o, esprimendosi in altro modo, come la totalità degli enti, essa è concepita, conformemente a un orientamento che risale fino ad Aristotele e può andare anche oltre, identificata come “forma” e “sostanza” di quel che è, di tutto quel che è, sicché ogni cosa è quel che è in base alla sua natura, alla sua forma o sostanza, e non può essere altro da quel che è. La natura è colta, quindi, nella sua essenza, come qualcosa che si sottrae all’azione del tempo, è vista nel suo essere come un essere che è a prescindere dal tempo. La natura, quindi, è ciò che permane nel mutamento: questa natura, erede della natura dei presocratici, a sua volta erede della natura delle grandi cosmogonie, è, come queste ultime, il Theion, il divino, perché essa è il principio che si prende buona cura degli enti in cui e attraverso cui si manifesta. Poiché è il divino essa è anche il sacro e, come ha dimostrato Rudolf Otto, incute nell’uomo timore, venerazione e rispetto e, nella sua sacralità, è intangibile. Per questo la tecnica trasformatrice assume nei suoi confronti la configurazione di una forza protesa verso la Ubris. Natura=Sacro, Tecnica=Ubris: è questa l’equazione, consapevolmente o inconsapevolmente, messa in campo da tutti gli orientamenti che, come quelli descritti, diffidano delle trasformazioni che la tecnica moderna non solo rende possibili, ma spinge a realizzare.

 

  1. Controllori della Natura?

Sarà infatti sviluppata una tecnologia rivolta, come ha detto una volta Bruce Sterling, a «penetrare sotto la nostra pelle?», sostituendo parti del corpo biologico con protesi artificiali? Si svilupperà un’epoca del Post-human attraverso una simbiosi tra il naturale e l’artificiale? L’uomo si evolverà nel Cyborg? E «l’era post-umana» significherà «anche letteralmente un’epoca postbiologica?». Si potrebbe osservare, ovviamente, che, come aveva già capito nel XVIII secolo Diderot,

la contrapposizione tra “naturale” e artificiale è inconsistente sul piano della caratterizzazione della specie, visto che le attività tecniche e manipolatorie dell’uomo, al pari di quelle linguistiche e simboliche, non sono che sviluppi della nostra dotazione biologica di base, e in particolare del nostro cervello[1].

 

E si potrebbe dire, come fa Marchesini nel sul libro dedicato al Post-Human che la «tendenza all’ibridazione» non è specifica del XX secolo perché essa ha operato sempre nel campo dei rapporti tra specie umana e specie animali[2]. Malgrado questo non è possibile negare che siamo di fronte alla possibilità che si determini una svolta, «una discontinuità radicale nei nostri interventi sui processi di riproduzione e di produzione degli individui della nostra e di altre specie viventi su questo pianeta»[3].

Come che sarà, c’è un punto fermo: niente potrà fermare il desiderio che abbiamo di sbarazzarci delle malattie. Il controllo progressivo del DNA spingerà a intervenire sulle cellule della linea somatica e spingerà a effettuare sperimentazioni che accrescano le nostre conoscenze sugli sviluppi di alcune malattie e sulla possibilità di bloccarli. Queste ricerche e questi esperimenti ci consentiranno di acquisire conoscenze suscettibili di consentirci interventi significativi anche sulle cellule della linea germinale. Come afferma Gregory Stock, «la possibilità di riprogrammare gli esseri umani arriverà a prescindere dalla nostra volontà»[4]. Il che significa anche che si possono fabbricare le specie, ma, per farlo, bisogna, in qualche modo, intervenire sulla linea germinale. Il controllo del futuro evolutivo è a portata di mano. Lo è grazie al Progetto Genoma Umano. Ma proprio gli scienziati che vi lavorano si dicono contrari agli sviluppi che esso comporta. Erica Lander, capo del Whitehead-MIT Center for Genomic Research, il maggiore tra i cinque centri di sequenziamento per il Progetto Genoma Umano negli Stati Uniti afferma:

Se sia giusto o meno modificare il codice genetico in modo tale che sia possibile determinare le caratteristiche dei propri figli rimane un grosso dilemma. Per ora, mi piacerebbe assistere alla messa al bando degli interventi sulla linea germinale umana[5].

 

Dall’Europa gli fa eco Jürgen Habermas che si leva in difesa della natura umana insidiata a suo dire dalla bioetica liberale[6]. La natura umana è qui intesa come quel che nell’uomo rende umano l’uomo. E quel che lo rende umano è, inevitabilmente, un fondo di sostanzialità, che non può essere né modificato né rimosso senza rimuovere l’uomo e l’umanesimo che a partire da questa base egli ha costruito in più di duemila anni di civiltà. Per difendersi dall’offensiva delle nuove scienze e delle tecnologie che esse promuovono, bisogna ancora una volta rinchiudersi nel fortilizio assediato della nozione di natura umana e quindi di natura. Ma per farlo bisogna necessariamente situarsi, problematicamente o meno, sul suolo, improbabile, di una metafisica dell’essere. Una metafisica dell’essere che pensi e interpreti l’essere fuori dell’orizzonte di visibilità dischiuso dal tempo. Una metafisica costruita, quindi, su un’opzione gnoseologica ben precisa, per la quale verità ed essere sono lo stesso, verum est ens.

 

  1. Essere e bene, ragione e calcolo: la physis dai Greci ai Moderni

Questa metafisica trova il suo punto di maturazione in Aristotele, ma aveva cominciato a formarsi ben prima in Parmenide, e poi in Platone anche se in Platone l’impostazione era differente. Se per Platone tra l’essere e il bene resta una insopprimibile distanza perché il bene è collocato “al di là dell’essere”, epekeina tes ousias, ed è inquadrato come termine di una tensione infinita, in Aristotele l’equazione essere=vero=bene si presenta perfetta. A differenza di Platone che faceva intercorrere una differenza tra essere e fenomeno, essere e divenire, di modo che il suo essere idealizzava i fenomeni, mobilizzandoli, dal momento che per lui i fenomeni sono quel che devono essere non in quanto sono “ma in quanto devono essere” “in quanto possono essere”, Aristotele abolisce quella differenza e, introducendo la nozione decisiva di ousia, determina uno spazio concettuale nel quale essere e fenomeno si identificano, cioè a dire che ogni fenomeno diventa una realizzazione dell’essere da cui è finalizzato, come ha rilevato Piovani[7]. Ordine dell’essere, ordine del vero, ordine del bene diventano articolazioni di un’unica sostanza che diventa reale, passando dalla potenza all’atto e coprendo, alla fine di questo passaggio, la totalità degli enti organizzati da un unico logos. Logica etica e religione si tengono così insieme strettamente.

Come ha osservato A. J. Heschel, uno dei più sensibili pensatori ebrei del ‘900 è proprio questo che distingue il pensiero ebraico dal pensiero greco:

L’idea di cosmo costituisce uno dei più rilevanti contributi della filosofia greca. E possiamo ben capire perché una simile concezione non sia emersa invece nel pensiero ebraico. Infatti, l’idea di un cosmo, di una totalità di cose completa in se stessa, implica il concetto di una norma immanente alla natura, di un ordine che ha i suoi fondamenti nella natura[8].

 

L’uomo biblico non ha questo atteggiamento nei confronti della natura. Anche quando ammette che un ordine viga all’interno di essa egli sente ancora il bisogno di chiedersi quale sia il senso di questa cosa e si pone la domanda: “Perché mai vi è l’ordine nella natura? E quale ne è il senso?” L’uomo biblico non ritiene di poter o dover dedurre questo senso dalla natura anche quando è costretto ad ammettere che nella natura v’è un ordine. Egli tiene accuratamente separati i diversi livelli. L’ordine dell’essere ben separato dall’ordine del vero, ben separato dall’ordine del bene. In questo senso è costitutivamente anticosmologico e antiontologico. Esso inoltre, partendo dalla creazione del mondo dal nulla, mette in rapporto l’essere e il tempo e ciò facendo pone le basi per sviluppi creativi successivi. Ereditando questa impostazione il pensiero cristiano ne eredita tutte le tensioni. E se anche fin dal principio legge e interpreta la rivelazione del Sinai come rivelazione dell’essere, attribuendo come fa, con Agostino, l’essere solo a Dio fa in modo che la sua traiettoria “pur nel contatto nuovo col valore delle realtà personali, o grazie a esso, può rimanere all’interno della intelligibilità”. Interpretando l’essere come pensiero e attribuendo specificamente l’uno e l’altro a Dio esso mantiene ferma la differenza esistenziale che intercorre tra l’essere e gli esseri. Si colloca tendenzialmente su un terreno anticosmologistico. Ma vi sta con sofferenza: come dimostra il fatto che non riesce a non lasciarsi tentare dal paradigma costruito da Filone Alessandrino che, mettendo in relazione religione e filosofia, fede e sapere, riapre la strada per il ritorno della concezione cosmologica anche in seno al cristianesimo, restituendo l’essere al piano dell’esistenza, dopo di averlo sottratto al piano dell’intelligibilità dove Platone l’aveva collocato. Certo, questa restaurazione non è una restitutio in integrum. Nell’impostazione aristotelica e in quella stoica, che ne è per molti aspetti l’erede, il cosmo è sede di una legge immanente, sacro perché sede di un logos eterno. Nell’impostazione cristiana il logos è logos divino che quindi si partecipa solo al mondo. Mentre il cosmo aristotelico-tolemaico è un cosmo in cui vige una legge eterna e immanente, il cosmo cristiano così come è definito nella Somma teologica di Tommaso d’Aquino è un cosmo in cui in quanto cosmo creato, come ha segnalato Whitehead, vige una «legge imposta». Anche se imposta, questa legge ha però lo stesso valore della legge eterna, in quanto essa è il riflesso di quella legge eterna. L’universo è edificato: si parte dal vertice, Dio, cui spettano congiuntamente essere ed esistenza per poi passare al mondo cui spetta l’esistenza e solo una partecipazione all’essere. L’universo è descritto nei termini della grande scala degli esseri: alla sommità di esso, trascendente a esso, Dio, nel quale, essere ed esistenza coincidono e nel quale proprio nel punto in cui quella coincidenza si realizza è riposta la legge eterna.

La scienza moderna nasce proprio quando, con Galileo e con Cartesio, la nuova ragione, la ragione matematica, compie un gesto di radicale rottura nei confronti della ragione aristotelica, e recupera lo slancio della ragione platonica. Separandosi dai dati dell’immaginazione spaziale e dando libero sfogo alla propria spiritualità, questa ragione, che si rivela fecondissima, individua nell’algebra “la chiave di tutte le scienze”, si sottrae definitivamente alle suggestioni del realismo e sottomette l’intera realtà al sistema delle ascisse e delle ordinate. Si tratta di un mutamento non solo di ordine epistemologico, ma anche di ordine metafisico. Si passa qui dall’impostazione verum est ens all’impostazione verum et ipsum factum convertuntur. Certo, come si sa, la formula è del nostro Giambattista Vico ed essa si riferisce, nel suo discorso, alla capacità dell’uomo di conoscere la storia come prodotto del suo agire e non è, a suo giudizio, applicabile alla natura, fatta da Dio, e alla quale continua a convenire il principio dello scire per causas. In realtà, come ha osservato acutamente Joseph Ratzinger[9], già nell’impostazione di Galileo e perfino in quella di Cartesio questo mutamento si è annunziato se non prodotto. Lo scienziato moderno non si affida, infatti, alle sensate esperienze. Galileo ritiene che questo affidamento sia la prerogativa dell’investigatore aristotelico. Il nuovo scienziato, volta le spalle alla realtà nella quale vive l’uomo comune, l’uomo del buon senso, si chiude nel suo laboratorio e costruisce esperimenti. E solo per questa via (di qui il trionfo del metodo=via della conoscenza) giunge alla conoscenza. In qualche modo conosce ciò che ricostruisce, conosce la natura riproducendone il funzionamento, facendosene coadiutore. E ciò che costruisce è essenzialmente una nuova nozione di spazio e una nuova nozione di tempo. Lo spazio viene geometrizzato e il tempo viene spazializzato. Sullo sfondo di queste due realtà così trasfigurate il mondo viene riedificato come una grande costruzione meccanica nella quale altro non si dà e altro non agisce se non materia, movimento ed equazioni matematiche. Tutto il resto è cancellato. In modo particolare svanisce quella legge di natura, quel logos sul quale Tommaso aveva costruito il suo sistema. L’ordine dell’essere si separa dall’ordine del bene e il mondo non appare più costruito intorno all’uomo.

La scienza comincia, dunque, a lavorare senza preoccuparsi di giungere a produrre un’apologia dell’umano. E nel moderno si produce questo paradosso: man mano che la ricerca prosegue, il mondo, che la scienza descrive, è un mondo nel quale l’uomo ha sempre più un posto meno centrale. La ricerca tuttavia non può proseguire senza enfatizzare il soggetto della ricerca che, come dimostrano gli sviluppi kantiani e l’irruzione del soggetto trascendentale, destinato a trasfigurarsi nella filosofia idealistica in soggetto assoluto, tendono a farne addirittura prima il costruttore del mondo conosciuto, poi il costruttore del mondo tout court. Probabilmente questo si verifica perché le nozioni di tempo e di spazio messe in campo dalla nuova scienza rivestono un carattere di assolutezza che li trasforma nel palcoscenico sul quale si verificano i fenomeni i quali concernono le vicissitudini dei corpi. In queste condizioni quelle vicissitudini non possono essere costituite che da spostamenti. Il tempo come soggetto del divenire dei corpi è ancora lontano da venire. Per questo la temporalità attraversa e, per dir così, costituisce dall’interno solo il mondo delle azioni agite dall’uomo, imponendogli di adottare criteri specifici per cogliere il logos che orienta e regge quelle azioni. Insomma il principio verum et ispum factum convertuntur si applica per tutto il tempo dominato dall’epistemologia del meccanicismo solo al mondo umano e alle scienze umane che lo investigano. Per questo molti storici della scienza moderna, da Jonas a Smolin, hanno lamentato il fatto che la scienza moderna è scienza dell’inerte, capace di penetrare tutto fuorché quel che vive, il vivente. E se da Vico in poi e fino a Hegel, per non parlare dello storicismo tedesco che si sviluppa, in alternativa allo storicismo hegeliano, come storicismo problematico, «la filosofia si tramuta in problema di storia» in cui «lo stesso essere» viene «concepito come processo storico», di modo che poi in Marx l’economia che lo determina «viene ripensata storicamente», bisogna attendere Darwin affinché «il sistema degli organismi viventi» venga «concepito come una storia della vita»[10].

 

  1. Darwin, un rivoluzionario riluttante?

Di qui si produce un passaggio decisivo, perché forse, per la prima volta, non è l’essere della storia, e cioè, l’insieme delle azioni agite dal genere umano, a essere accostato al tempo ma l’essere della natura, l’insieme della vita. Come dice Niles Eldredge:

Quel che operò Darwin fu la trasformazione della visione di stabilità – della Terra, di tutte le specie al mondo e, non da ultimo, degli strati sociali – in un’immagine di movimento[11].

 

Il che potrebbe significare che il tempo agisce non solo dall’esterno, ma dall’interno degli organismi. Il tempo. Una profondità indefinita. Non è più solo lo spazio l’illimitato. Altrettanto illimitato, inverosimilmente profondo è il tempo. Ma il tempo non è un palcoscenico sul quale gli eventi della vita si producono: è il prodursi stesso di questi eventi. È la stoffa di cui è fatto l’essere. Stoffa deperibile quant’altro mai, perché sempre in via di costituzione e di disfacimento.

Certo, niente appare più stabile all’uomo della terra sotto la volta del cielo e niente di più fisso che la costituzione degli esseri che abitano la terra, come dire, come se fossero sotto la sua protezione. Ora noi sappiamo che niente è più illusorio e più illudente di queste apparenze. Non v’è nessuna volta del cielo e la terra non è stabile, essa è coinvolta come un’astronave in un movimento di deriva dello spazio galattico di cui fa parte. Lo sappiamo perché ce lo dice la cosmologia contemporanea, ma la cosmologia contemporanea avrebbe avuto sicuramente molte difficoltà a percorrere questa strada se Darwin non gliel’avesse aperta, scoprendo che gli esseri che abitano sulla terra sono fatti anch’essi della stoffa di cui è fatta la terra, sono fatti di tempo, e quindi mutano. Infinite forme si avvicendano, dando corso al gioco del tempo, nel corso del quale prende forma l’albero della vita. Quel che è certo è che nulla permane, tutto diviene. Infinite forme si alternano in un processo che non si può descrivere se non come un processo senza soggetto, la cui unità è tuttavia problematica, considerato che esso può anche avere molteplici direzioni. Come si sa, Darwin, il rivoluzionario Darwin, il «riluttante rivoluzionario Darwin», per dirla con Eldredge, accetta di «confessare il delitto», quello cioè, di aver scoperto che «le specie non sono immutabili»[12], molto dopo di averlo intuito. Solo quando comprende qual è il meccanismo sulla base del quale ciò avviene:

Nell’ottobre 1838, cioè 15 mesi dopo l’inizio della mia ricerca sistematica [e cioè 15 mesi dopo che aveva iniziato a scrivere il suo primo Transmutation Noteboook], lessi per diletto il libro di Malthus sulla Popolazione e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la lotta per l’esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall’idea che, in tali condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero a essere conservate, e quelle sfavorevoli a essere distrutte. Il risultato poteva essere la formazione di nuove specie. Avevo ormai una teoria su cui lavorare, ma ero così preoccupato di evitare ogni pregiudizio, che decisi di non scrivere, per qualche tempo, neanche una brevissima nota[13].

 

Si sa come andò a finire: gli scrupoli lo bloccarono fino al ‘58 e dovette intervenire l’affare Wallace per indurlo a pubblicare l’opera che aveva cominciato ad abbozzare nei primi anni quaranta. Scrupoli di scienziato, certo. Necessità di corroborare con prove una scoperta. Ma anche consapevolezza che non si trattava di una scoperta come tante altre. Tutto cambia se l’essere è tempo e se la vita è un gigantesco laboratorio in cui si foggiano le forme attraverso le quali la vita stessa prende corpo. Come ha suggerito Arnold Gehlen, che l’uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia arrivata implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi si obbedirà a imperativi in sé diversissimi.

 

  1. Ma Darwin sapeva

Bisogna smetterla di sospettare che Darwin non fosse consapevole di ciò. Bisogna smetterla di scambiare la sua prudenza e, se mi è concesso, la sua “bontà” (tutti hanno segnalato che era un uomo buono) con una ingenuità che rasenta l’inconsapevolezza. Darwin sapeva. Tutto sarebbe cambiato se la sua teoria si fosse dimostrata esatta. Se essa è vera, infatti, cambia la nozione del vero. Dal verum est ens si passa al verum est factum. Se nulla più sta, se nulla più è, la natura si trasfigura. Si tratta di una trasformazione decisiva: la natura non è ciò che permane, essenza, sottratta all’opera disintegratrice del tempo, non è realtà sacra, non è sede di una legge naturale riflesso della legge eterna contenuta nella mente di Dio, ma è, in fondo, qualcosa di inidentificabile, perché è, forse e in definitiva, qualcosa di insussistente. Niente sta significa che non c’è la natura, non ci sono le specie né i generi né nient’altro di simile; ci sono solo individui e variazioni determinate da un agire inconscio che si esprime in e attraverso il processo senza soggetto del divenire Ma se verum est factum, ci si deve spingere più in là. Si deve dedurre da questa premessa che verum est faciendum. E non a caso Darwin apre il suo libro sull’origine delle specie con un capitolo sul lavoro degli allevatori. Che le specie variano lo dimostra da sempre il lavoro degli allevatori. I loro procedimenti attestano che le strutture fisiche degli animali sono realtà plastiche sulle quali si può intervenire per modificarle fino al punto da ottenere organismi diversi da quelli da cui si è partiti.

Sembra – scrive riferendosi all’agire di un allevatore – che l’intero organismo sia diventato plastico e tenda a differenziarsi in piccola misura da quello del tipo originario[14].

 

Che la natura agisca come un laboratorio è dimostrato dal fatto che gli allevatori producono forme nelle fattorie in cui agiscono e che si configurano a loro volta come veri e propri laboratori sperimentali. Così come, secondo una vecchia ma pur sempre valida segnalazione di Garin, Galileo costruisce la scienza sperimentale con un occhio rivolto al lavori degli artigiani, stavo per dire degli sperimentatori, dell’Arsenale di Venezia, Darwin è attentissimo e concentrato sul lavoro degli allevatori. Gli allevatori, come Darwin, ovviamente, non sanno nulla di genetica e «le leggi che governano l’ereditarietà [sono loro] del tutto sconosciute»[15].

Tuttavia essi procedono nelle loro sperimentazioni ottenendo risultati non banali e dimostrando così che la natura procede in una maniera analoga.

Il significato di questi fatti è semplice a patto di concepire le specie solamente come varietà permanenti nettamente caratterizzate. Infatti, tutte le volte che si sono formate molte specie di uno stesso genere ed ovunque, ci sia concessa l’espressione la fabbricazione delle specie è stata attiva, in genere dovremmo scoprire che la fabbricazione è tuttora in atto, tanto che abbiamo tutte le ragioni per credere che il processo di fabbricazione di nuove specie deve essere lento[16].

 

«L’implacabile processo dell’evoluzione», per dirla ancora con Stock[17], agisce ingegneristicamente. Può farlo perché la natura non esiste al di fuori di questo agire che produce forme secondo regole che si possono individuare, ma come regole specifiche dell’oggetto specifico. Per natura, precisa per l’appunto Darwin 

io intendo soltanto l’azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati[18].

 

Queste leggi messe insieme non possono andare a costituire un logos unitario ed eterno perché esse non preesistono rispetto ai processi bio-cosmologici che le rivelano: l’evoluzione è un processo di fabbricazione di forme che è ancora in corso e poiché esso è il prodotto di forze inconscie, potrebbe proseguire col concorso di forze conscie. La premessa secondo la quale verum est factum introdurrebbe, dunque alla deduzione verum est faciendum?

 

  1. Fabbricare o migliorare l’uomo?

Non c’è dubbio che scrivendo sull’uomo e analizzandone le prospettive Darwin ammette che egli possa essere migliorato. Egli, pensa, infatti, che gli uomini non costituiscano un’eccezione nella natura, e che anche per essi valga la sua tesi, secondo la quale «tutte le specie sulla terra sono collegate mediante un processo di discendenza».

Come scrive nell’autobiografia:

Non appena mi convinsi nel 1837 o 1838, che le specie erano mutabili, non potei fare a meno di credere che l’uomo dovesse essere regolato sulla stessa legge. Perciò presi appunti su questo problema, per mia personale soddisfazione per lungo tempo, senza alcuna intenzione di pubblicarli[19].

 

Come si sa egli scrive poi il suo libro sull’origine dell’uomo nel quale sostiene che: gli uomini e gli altri animali non differiscono in genere; che essi sono tutti ramificazioni dell’albero della vita; e che tutti variano e si evolvono secondo come imposto dalla selezione naturale. Ne deriva che, dunque, anche il processo di selezione della specie umana realizzatosi in maniera inconscia fino a ora possa essere orientato consapevolmente.

Ma che questo possa avvenire significa che questo debba avvenire? Se fosse così, vorrebbe dire che le conclusioni scientifiche di Darwin hanno un esito filosofico ed etico inevitabile. Ora, io ritengo che questo non sia esatto, credo, anzi, che sia sbagliato e penso perciò che abbia ragione Wittgenstein, quando, nel suo Tractatus, afferma che la teoria darwiniana ha da fare con la filosofia non più di una qualsiasi altra ipotesi della scienza naturale.  E la scienza, si sa, è puramente e semplicemente descrittiva, non è né può essere prescrittiva: la scienza non può rispondere alle domande su come dovremmo vivere più di quanto la religione non possa darci indicazioni sull’età della terra, come ha giustamente sostenuto Stephen Jay Gould. La scienza non può dare risposte alle nostre richieste di senso, come non può fondare la logica dell’agire etico. A meno che non si trasformi in metafisica. Tentazione che è sempre sospesa e incombente sull’attività effettiva degli operatori della scienza. Ma se tanti vi cedono, si può con alquanta sicurezza affermare che questo non capita a Darwin. Io non penso che si possa, come è stato fatto anche di recente in Italia[20], interpretare il darwinismo in maniera da incurvarlo su un’ontologia naturalistica che si presenti con molti tratti di affinità con l’ontologia spinoziana. Come se Darwin avesse identificato il problematico processo dell’evoluzione come una specie di gigantesca messa in movimento della sostanza spinoziana. Se così fosse egli resterebbe incatenato alla interpretazione dell’uomo come conatus essendi, esistente necessariamente destinato a continuare a essere e a espandersi. Per un esistente di questo tipo, prendere in mano il processo della propria evoluzione, una volta che se ne presenti la possibilità, più che un dovere etico sarebbe una necessità imprescindibile.

Quando il processo evolutivo dà luogo, con l’insorgere dell’umano, al sociale e al culturale, si entra in una nuova fase che per essere interpretata richiede nuove regole.  Si produce qui quell’«effetto reversivo dell’evoluzione», come ha detto Patrick Tort, e che schiude un nuovo orizzonte di visibilità nel quale si passa da una regola all’altra. Come se si realizzasse il passaggio da un logos a un altro logos. Logica specifica dell’oggetto specifico. Se si nega che irrompe qui una differenza si ritorna sul terreno di un’ontologia che per quanto naturalistica possa essere, per quanto cioè venga presentata come riverniciata dai colori della scientificità, ha come effetto di impedire il costituirsi di un’etica. Un uomo risucchiato nei circuiti del determinismo è un uomo senza libertà e un uomo senza libertà è un uomo senza capacità e senza possibilità di scegliere. Ma la possibilità di orientare consapevolmente il processo evolutivo pone l’uomo contemporaneo di fronte a una scelta e che scelta, esso richiede, dunque, che egli eserciti una capacità di scelta e che scelga. Ora, il pensiero metafisico tradizionale non può far altro che arretrare nei confronti di una simile possibilità. Questo perché il pensiero metafisico tradizionale concepisce la natura così come la concepiva il pensiero prima della grande trasformazione darwiniana, come un grande deposito di valori custodito da una legge intangibile,

una legge morale obiettiva che, in quanto “legge naturale” iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa “legge civile” ed è talmente estensiva da poter reggere orientare e ispirare tutti gli atti degli uomini[21].

 

Questo pensiero però è in grado, nella situazione attuale, di riproporre le sue tesi soltanto a condizione di mettere in mora le conseguenze determinate dalle scoperte scientifiche darwiniane. Certo queste scoperte non producono di per sé, come ho detto, un’etica, ma tolgono la sua base di sostegno all’etica tradizionale, perché disintegrano il terreno della metafisica su cui essa poggiava. In questo senso è difficile non concordare con Rachels, quando afferma che bisogna prendere atto «che la teoria darwiniana [è] incompatibile con la moralità tradizionale» e fornisce «dunque una ragione per respingere tale moralità e sostituirla con qualcosa di meglio»[22]. Ma questo qualcosa di meglio non può provenire, come ho già detto, da un darwinismo trasformato in un’ontologia naturalistica. L’ontologia naturalistica, infatti, identifica necessariamente l’uomo con il conatus essendi e il conatus essendi è il progenitore immediato dell’uomo della volontà di potenza, il protagonista delle tragedie totalitarie del XX secolo. Io penso che questa scelta tocchi a un uomo che costruisca la sua identità di uomo umano sul terreno della responsabilità. Per questo penso che possa rispondere alle sfide che provengono dalle biotecnologie solo l’uomo della responsabilità.

 

  1. Responsabilità vs. ontologia

Ma l’uomo della responsabilità non è l’uomo incatenato all’essere, perché come ha detto Emmanuel Lévinas, non c’è solo «l’epopea dell’essere». L’uomo è nell’essere ma le modalità con le quali vi è non sono solamente le modalità dell’essere. L’uomo non è incatenato. Il processo evolutivo dal quale proviene ha prodotto, per quanto paradossale ciò possa sembrare, la sua libertà, la sua capacità di scegliere. E quando sceglie, se lo fa perché guidato dalla sua volontà identificata totalmente come ragion pratica e cioè come prerogativa sottomessa alla legge e non come volontà arbitraria, istituisce valori. Ma egli né può scegliere, né può istituire valori se non li fonda su un logos che sia specifico a essi. Come ha insegnato Kant, l’uomo conosce e conoscendo applica la ragione all’esperienza. Ma l’uomo pensa anche e pensando adopera la ragione in un altro modo, che non è meno rigoroso di quello praticato nella conoscenza. Il mondo umano è il mondo delle azioni agite e da agire che in quanto tale è differente dal mondo dell’essere: esso si configura come un cosmo autonomo al quale si applicano regole specifiche diverse da quelle che si applicano alla natura. Ripeto, logica specifica dell’oggetto specifico. Come dice Lévinas, «v’è indipendenza totale del pratico nei confronti dell’accesso cognitivo all’essere». Come se l’uomo non solo si ritrovasse su un suolo diverso da quello dell’essere ma in questo ritrovarsi si rendesse responsabile dell’essere. E prima di tutto dell’essere degli altri esseri, degli animali tutti e in particolare degli altri uomini con i quali proprio perché non è semplicemente un conatus essendi, una volontà di potenza, che tende a stabilire con essi rapporti conflittuali, come ritengono che avvenga ineluttabilmente i teorici dell’assolutezza della politica, può intrecciare rapporti di pace e di fratellanza. L’uomo della responsabilità, in definitiva, è l’uomo che può anche farsi carico del processo evolutivo, atteso che, ovviamente, non lo orienterebbe se non verso esiti di vita, avendo egli fondato la sua identità di essere responsabile su una scelta originaria che è la scelta dell’uomo che ha accettato la vita con tutti suoi carichi e tutte le sue sofferenze. Quest’uomo può continuare nel suo cammino, senza temere, anche quando si trovasse a camminare «nella valle dell’ombra della morte», perché anche allora egli porterebbe con sé la sua responsabilità, che è, come, dice sempre Lévinas, apertura di sguardo su un modo d’essere del divino che nessun processo evolutivo potrebbe dissolvere.

 


[1] Cfr. A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull'uomo artificiale, Shake, Milano 2008, pp. 12-13.

[2]  Cfr. R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

[3] A. Caronia, op. cit., p. 13.

[4] G. Stock, Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie (2002), tr. it. Orme Editori, Milano 2005, p. 63.

[5] Cfr. ibid., p. 65.

[6] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr. it. Einaudi, Torino 2002.

[7] Cfr. P. Piovani, Oggettivazione etica e assenzialismo, Morano, Napoli, 1981.

[8] A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo. Una filosofia dell'ebraismo (1955), tr. it. Borla, Torino 1969.

[9] Cfr. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 2005.

[10] Ibid., p. 31.

[11] N. Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell'albero della vita (2006), tr. it. Codice Edizioni, Torino 2006, p. 4.

[12] Lettera di C. Darwin a Joseph Hooker, 11 gennaio 1844, in A. Desmond e J. Moore, Darwin (1991), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 359.

[13] Dall’Autobiografia di Darwin, in N. Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell'albero della vita, cit., p. 52.

[14] C. Darwin, L’Origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza (1859), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 87.

[15] Ibid.

[16] Ibid., p. 126.

[17] G. Stock, op. cit., p. 99.

[18] C. Darwin, op. cit., p. 147.

[19] Cfr. N. Eldredge, op. cit., p. 26.

[20] O. Franceschelli, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza, Donzelli, Roma 2007, p. 106.

[21] Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995.

[22] J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo (1990), tr. it. Comunità, Milano, 1996, p. 5.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *