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Origine e funzioni della tecnologia corporea del linguaggio

Autore


Antonino Pennisi

Università di Messina

insegna Filosofia della mente ed etologia del linguaggio all’Università di Messina e dirige il Dipartimento di Scienze Cognitive della Formazione e degli studi Culturali

Indice


  1. L’origine del linguaggio e il caso Noam Chomsky
  2. L’ipotesi di una tecnologia corporea del linguaggio
  3. Tecnologia e biologia nella produzione del linguaggio

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S&F_n. 10_2013

Abstract


The hypothesis of this paper is the need of a new formulation of the question of the origin of human verbal language starting from the concept of “technology”. The paper has a regard for the possible definition of human language as “species-specific” body technology applied to particular needs. So, not only the language but the whole body results a technology: thus the author reads the question of Exaptation by Gould and Vrba. So, the human verbal language represents a “speech-making technology” just like the “tool-making technology”, and both evolved for the same social tasks.


  1. L’origine del linguaggio e il caso Noam Chomsky

L’origine del linguaggio è una questione teorica. Molti la associano ancora al dibattito che si concluse con il famoso divieto del 1866 di accogliere comunicazioni sul tema che la Société de Linguistique de Paris introdusse nel proprio statuto. Apparentemente la discussione contemporanea non ha più nulla a che vedere con quell’episodio. Il divieto, d’altrocanto, non sancì la fine di una disputa tra eruditi filologi, ma chiuse per sempre le porte a chi aveva sostenuto la natura divina del linguaggio. In realtà si trattò di un’imponente battaglia di emancipazione della cultura filosofica dal pensiero religioso. Una sorta di “punto di non ritorno” del sapere laico-scientifico. Qualche anno dopo (1871) veniva pubblicato l’Origine dell’uomo con cui Darwin esplicitava alcune scomode idee sull’uomo, già anticipate nel Saggio sull’origine delle specie (1859). Qui la posta si alzò di molto: al passaggio da un’origine divina a una umana del linguaggio si sostituì, infatti, il passaggio dall’origine umana a quella animale. Anche se oggi siamo istintivamente portati a negare una simile contrapposizione perché, apparentemente, nessuno crede più che l’uomo non sia un animale, il problema è ben lungi dall’essere risolto: ha solo cambiato forma. Molti, ad esempio, sostengono che la facoltà linguistica sia specifica dell’uomo. Quindi che l’uomo, pur essendo un animale, mostri una particolarità che altri animali non mostrano affatto. Chomsky è stato uno dei primi a sostenere questa tesi, ma riferendosi alle caratteristiche mentali del linguaggio, «il linguaggio è una capacità specie-specifica, un tipo unico di organizzazione intellettuale»[1], minimizzando, tuttavia, il problema dei correlati morfologici e dell’origine del linguaggio.

Se facciamo un passo indietro nella storia delle idee capiremo la ragione di questa posizione. Nel secondo Ottocento, infatti, utilizzando strumentalmente il divieto laico del 1866, si formò un partito contrario a tenere in considerazione la questione dell’origine del linguaggio. Ne fecero parte filologi e filosofi idealisti – da Humboldt a Croce – che sostennero l’inutilità di occuparsi delle origini, perché ciò che conta è il ruolo del linguaggio nella vita dello spirito. Nel corso del Novecento questo partito diventò fortissimo: è il secolo della svolta linguistica e dell’egemonia delle scienze del linguaggio da Saussure a Wittgenstein a Gadamer. Chomsky si trovò in mezzo a questo fiume impetuoso, ma fu anche tra i fondatori delle scienze cognitive, naturalistiche per definizione ma, almeno inizialmente, permeate di modelli mentalistici e computazionali. Fondò, quindi, l’ala più platonista e cartesiana insieme, del movimento e, nonostante l’ostentato biologismo, fu molto lontano dalle posizioni naturalistiche che oggi sembrano improntare le “scienze cognitive 2.0”. Forse anche per questo egli non appare lontano dalle posizioni dei vecchi idealisti, come si evince dal monito di Problemi e misteri: «ignorate il problema di come è nato il linguaggio e di quali sono i suoi meccanismi cerebrali, perché vanno ben oltre la possibilità di una seria indagine scientifica». La vera questione è, tuttavia, un altra: il confronto con la biologia evoluzionista, l’etologia, le neuroscienze che nel frattempo stanno tracciando i confini del nuovo paradigma egemone. La formazione scientifica di Chomsky, differente da quella di buona parte degli altri filosofi novecenteschi del linguaggio, non può permettergli di evitare questo confronto, nonostante le difficoltà che comporta. In questa supersfida, tuttora in corso, mentre egli vince sulla disputa intorno alla discontinuità delle funzioni (le proprietà cognitive “emergenti” non possono essere spiegate con le regole delle funzioni “declinanti”), finisce col perdere la battaglia sulla piena comprensione della continuità delle strutture. Il problema a cui Chomsky non ha mai risposto è, infatti: come e perche a partire dalla struttura x – potenzialmente generatrice di una serie finita ma non determinabile di funzioni – è possibile derivare proprio la funzione y? Domanda a cui è impossibile rispondere, stavolta, senza comparare strutture diverse, senza, insomma, conoscere quella che qui chiamiamo “la tecnologia corporea del linguaggio”.

 

  1. L’ipotesi di una tecnologia corporea del linguaggio

Jessica Riskin ha sintetizzato questo ruolo centrale svolto dall’indagine sulle tecnologie corporee del linguaggio, nella nascita del termine wetware[2]: “software umido, vivo, biologico”, utilizzato già nel 1988 dal matematico Rudy Rucker in contrapposizione alla dualistica distinzione tra hardware e software introdotta dalla computer science sin dagli anni Trenta. La Riskin considera la filosofia del wetware il principale punto di contatto tra lo studio delle tecnologie corporee tardo-settecentesche e quello dell’artificial-life contemporanea. Il banco di prova di questa filosofia tra Sette e Ottocento fu la costruzione di automi che avrebbero dovuto simulare la meccanica dei comportamenti biologici umani, e, in particolare, di quello verbale. I risultati, tuttavia, dimostrarono la bontà teorica del progetto ma anche la sua irrealizzabilità empirica. Anche volendo aggirare il dualismo filosofico e accontentarsi di una spiegazione riduzionista, il problema restò irrisolto: il corpo è inimitabile[3].

Bisognerà attendere quasi cinquanta anni per capire perché. Solo con Darwin, infatti, si farà chiara l’idea che la difficoltà di penetrare la complessità delle macchine biologiche è dovuta al fatto che queste ultime non vengono fabbricate da zero a partire da un progetto dato, ma si modificano lentamente sulla base di infiniti stati di trasformazione adattativa indotti dalla selezione naturale. Oggi l’ipotesi darwiniana è diventata prevalente all’interno delle scienze della natura. Per la biologia evoluzionista, ad es., è scontato che il bipedismo – una caratteristica specie-specifica dei primati umani – derivi dalle lente trasformazioni del nostro apparato muscolo-scheletrico attraverso piccole mutazioni genetiche attecchite adattandosi all’ambiente. Le spiegazioni dell’evoluzione linguistica procedono, tuttavia, con maggiore lentezza, probabilmente per i residui dualistici che la funzione cognitiva sottostante il linguaggio continua a trascinarsi. Tuttavia comincia a essere ogni giorno più chiaro che prima ancora di essere un potente sistema di comunicazione e di rappresentazione cognitiva delle conoscenze, il linguaggio umano è una tecnologia corporea specie-specifica applicata ai bisogni simbolici.

Ciò va interpretato in una duplice direzione: (a) il linguaggio è il prodotto di una macchina formatasi per lenta evoluzione di strutture fisiologiche dedicate a scopi primari e poi esattate a nuove funzioni esclusivamente umane; (b) il linguaggio produce un sistema di articolazioni di primo, secondo e terzo livello che permette una tecnologia combinatoria praticamente infinita di unità sonore (foni, fonemi, sillabe), morfologiche (morfemi) semantiche (lessemi, parole, frasi, discorsi, testi) a partire da un numero finito di elementi fisiologici dedicati.

Il senso in cui parliamo qui di “tecnologia corporea” è vicino a quello esposto nell’ipotesi di Brian Arthur secondo cui una teoria generale della tecnologia è fondata su tre principi[4]: (1) principio di combinatorietà secondo cui tutte le tecnologie sono combinazioni di tecnologie già esistenti; (2) principio di modularità, per cui: «ogni componente di una data tecnologia è in se una tecnologia (che) soddisfa uno scopo specifico»; (3) principio di naturalità: «tutte le tecnologie imbrigliano o catturano (…) e sfruttano qualche effetto o fenomeno naturale, e di solito più di uno».

Questa ipotesi restituisce alla nozione un’accezione biologica decisamente compatibile con la prospettiva evoluzionista e col carattere naturalistico dell’idea stessa di tecnologia: «la tecnologia costruisce sé stessa organicamente a partire da sé stessa»[5].

Peter Corning definisce al proposito il linguaggio umano una «soft technology»[6] che si è evoluta «come strumento polifunzionale, un elemento del pacchetto di adattamenti anatomici e culturali che sono stati progressivamente migliorati nel corso di milioni di anni»[7]. Egli considera, tuttavia, la tecnologia linguistica come un prodotto più che un attività produttiva. Secondo lui il merito degli umani è quello di avere “inventato” la lingua, cioè il mezzo per realizzare la creatività e l’invenzione, “fabbricando” letteralmente fonemi, morfemi, lessico, categorizzazioni sintattiche e semantiche: «in altre parole abbiamo inventato l’inventiva»[8]. Sebbene, tuttavia, lo sviluppo di scrittura e grammaticalizzazione possa essere senz’altro considerato un passo decisivo per lo sviluppo culturale, questa visione non permette di cogliere l’omologia tra attività e prodotto, che è specie-specifica in senso tecnico, ovvero biologicamente determinata.

Un ulteriore passo avanti che qui propongo è quello di non considerare la tecnologia soltanto una proiezione dei nostri corpi verso gli artefatti esterni (è il corpo a produrre le tecnologie con cui sono costruiti gli artefatti), ma di inglobare l’idea di tecnologia nella nostra corporeità medesima: è il nostro stesso corpo una tecnologia. Questo ulteriore passo teorico ci permetterebbe, infatti, di rileggere l’ipotesi dell’exaptation[9] (Gould-Vrba, 1982) linguistica sotto una nuova luce, evitando di trasformarla in una favola superolistica: l’exaptation si realizza tramite una serie di ricablaggi neuro-fisiologici che servono a gestire una nuova funzione impiegando tecnologie specifiche connesse alle possibilità insite nella nuova struttura corporea messa stabilmente a disposizione della società dei primati umani. Più in dettaglio l’ipotesi qui avanzata è che il linguaggio sia specie-specifico in quanto tecnologia uditivo-vocale (speech-making) applicata ai bisogni simbolici e altamente specializzata almeno quanto la tecnologia manuale (tool-making), entrambe evolutesi in uno stesso cervello e per gli stessi scopi sociali.

Entrando nel merito si può dire che con una “tecnologia uditivo-vocale” si intende l’insieme di tutte le possibilità articolatorio-uditive a cui la nostra cognizione individuale e sociale è “condannata” per raggiungere l’appagamento dei propri scopi. Questa tecnologia uditivo-vocale si è evoluta su tempi lunghissimi attraverso una grande quantità di mutamenti che hanno agito direttamente o indirettamente sulla formazione di strutture diventate a un certo punto del loro sviluppo adatte al linguaggio articolato. I due criteri (diretto o indiretto) non sono assolutamente separabili e tuttavia oggi possiamo studiare l’effetto di questi mutamenti diretti attraverso la sperimentazione nelle scienze cognitive e la spiegazione ricostruttiva indiretta attraverso l’evoluzionismo. In particolare intendiamo con “tecnologia uditivo-vocale applicata ai bisogni simbolici”: (1) un tratto vocale ricurvo a due canne con una proporzione 1:1 tra la canna verticale e orizzontale; (2) un insieme di muscoli orofacciali che non ostacolino la vocalizzazione finale; (3) una corteccia uditiva iperspecializzata (Vocal Area) e un neuroprocessore evolutivo categoriale fondato sul linguaggio articolato, cioè l’area di Broca.

 

  1. Tecnologia e biologia nella produzione del linguaggio

Sul primo punto ha ripetutamente scritto Lieberman a partire dagli anni Settanta. Secondo la sua ipotesi solo nei membri adulti della specie umana è presente una configurazione tipica del canale faringeo con la laringe in posizione permanentemente bassa. L’abbassamento della laringe è fondamentale per la produzione vocale in quanto consente di ampliare la lunghezza della cavità orale. Questo elemento anatomico permette di ottenere una cassa di risonanza in più in cui modulare il tono puro emesso dalla glottide prima di uscire dalla bocca. A un’analisi superficiale ci troveremmo di fronte a un tipico caso di mutamento diretto: sembrerebbe che il tratto vocale sopralaringeo sia presente esclusivamente nel sapiens in quanto selezionato per scopi linguistici[10]. Diversi studi hanno però smentito la connessione diretta tra adattatività del tratto vocale e linguaggio. Un’ipotesi famosa è quella formulata da Aiello[11], secondo cui durante l’evoluzione che ha condotto al sapiens la laringe ha svolto varie funzioni di protezione delle vie respiratorie. Studi comparativi recenti[12] hanno, inoltre, messo in evidenza che diverse specie animali (tra i Mammiferi, ma anche tra i Rettili) sono in grado di ottenere una configurazione anatomica del tratto vocale simile a quella umana: con i muscoli laringali, infatti, alcuni animali non umani riescono a portare la laringe in posizione bassa. Sulla scorta di questa analisi Fitch ipotizza che il tratto vocale umano sia stato selezionato non per vantaggi connessi alla funzione linguistica ma per ragioni legate alla fitness: produrre suoni definiti e gravi – come consentito dall’abbassamento della laringe in molti animali – permetterebbe, infatti, di simulare una stazza corporea maggiore (size-exaggeration theory) utile a scopi sessuali e di difesa. Naturalmente l’uso che oggi ne fa Homo sapiens esula dai fini originari. Il riadattamento del tratto vocale, una volta selezionato positivamente grazie ai vantaggi evolutivi, ha consentito la possibilità dell’articolazione e modulazione fine di suoni in sequenze più o meno complesse e con frequenze formantiche tipiche. La funzione secondaria, quella che si è instanziata successivamente e non necessariamente per fornire vantaggi adattativi immediati, sarebbe quella fonatoria. Si tratterebbe di una “analogia esattata”, un caso di co-evoluzione di strutture anatomiche vantaggiose e di possibilità emergenti.

Sul secondo punto hanno giocato un ruolo determinate le recenti ricerche sulla “gracilizzazione” che costituiscono un esempio “indiretto” di mutazione fisiologica che ha reso possibile la formazione di una tecnologia uditivo-vocale specificamente umana. C’è stato, infatti, un momento nell’evoluzione degli ominidi in cui una serie di modificazioni anatomiche innescate dal bipedismo hanno portato alla riduzione dei muscoli e dell’ossatura e, in particolare, di quelli dell’apparato masticatorio a vantaggio dell’elasticità cranica. Uno studio del 2004, pubblicato su Nature[13], mette a confronto il cranio del gorilla a quello dell’Homo sapiens. Ebbene, le zone di attacco dei muscoli della masticazione sono molto più estese nel gorilla che nell’uomo, nel quale sono limitate all’aera temporale, lasciando le suture craniche libere di espandersi elasticamente. L’autore chiama questo “deficit” umano handicap alimentare, in virtù del quale il cervello umano, durante lo sviluppo postnatale, cresce tre volte e mezzo rispetto a quello del gorilla. “Brain vs. brawn”, cervello vs. muscolatura, ovvero efficienza mentale rispetto a forza fisica (masticatoria). Tale processo, che ha determinato la liberazione delle strutture ossee dai compiti masticatori è considerato un esempio chiaro della cosiddetta “selezione dell’handicap”[14]. La perdita di fibre muscolari utili alla masticazione, infatti, costituisce un evidente svantaggio evolutivo in relazione alle aumentate esigenze energetiche indotte dalla presenza di una massa cerebrale di dimensioni maggiori. Ma questo tratto anatomico è presente in tutti i sapiens e dunque deve essere stato associato a un vantaggio. Una delle prime e più immediate spiegazioni ipotizzate è stata proprio la possibilità di produrre linguaggio articolato. Paradossalmente la riduzione delle dimensioni dei muscoli masticatori (gracilizzazione del volto) avrebbe consentito la selezione di una struttura ossea più piccola su cui agganciare i muscoli temporali, consentendo la liberazione da compiti masticatori del tratto orofacciale indispensabile per la produzione di suoni linguistici. Insomma, anche in questo caso, è difficile collegare causalmente l’origine di un tratto che ha permesso la formazione di una tecnologia adatta al linguaggio con l’esercizio immediato della funzione linguistica. Il linguaggio non è nato a causa della gracilizzazione, ma senza la sua esistenza non sarebbe stato possibile.

Sul terzo punto è interessante notare come la corteccia uditiva sia più specializzata per compiti uditivi solo in alcune specie animali. Per comprendere questa analisi possiamo riferirci agli studi condotti su cavie in cui l’asportazione delle cortecce uditive (in entrambi gli emisferi) ha portato a esiti differenti: mentre nei topi e nei gatti il recupero delle abilità sensoriali uditive è avvenuta quasi in toto già quattro mesi dopo l’asportazione chirurgica, nei primati l’asportazione bilaterale ha invece determinato una perdita totale delle capacità uditive[15]. Questa differenza indicherebbe la diversa importanza che riveste la percezione uditiva nei primati rispetto agli altri animali perché sarebbe associata a un compito evolutivo centrale: la comunicazione intraspecifica[16] essenziale per riconoscere il significato biologico dei suoni comunicativi (COO)[17]. Nell’uomo questa funzione specializzata viene assorbita nel processo di codifica-decodifica dei suoni articolati provenienti dai conspecifici. Sarebbe questo il motivo per cui una lesione nell’area di Wernicke non comporta un deficit uditivo generico ma l’alterazione di una componente altamente specifica: la comprensione semantica e pragmatica del linguaggio. Allo stesso modo l’agnosia uditiva verbale è stata caratterizzata come un’incapacità di riconoscimento del suono significativo, mentre l'udito è conservato a un livello adeguato[18]. Viceversa la compromissione del riconoscimento dei suoni non-verbali non è necessariamente associata a deficit verbali, come è stato evidenziato nei pazienti con agnosia uditiva non-verbale che conservano intatta la comprensione verbale[19]. Questi dati clinici, assieme a quelli neurofisiologici diretti ottenuti in esperimenti con macachi, hanno indotto alcuni studiosi[20] a presupporre nella corteccia uditiva dei primati l’esistenza di un’elaborazione in parallelo dei suoni diversificata in una via ventrale di riconoscimento di informazioni-what (che potremmo chiamare “qualitativo”, cioè del contenuto a cui i suoni si riferiscono) e una via dorsale che gestisce le informazioni-where (cioè di localizzazione spaziale, del “dove”). Studi di mappatura neurocerebrale approfondita più recenti[21] confermerebbero questo alto grado di specializzazione funzionale della corteccia uditiva dei primati. Budd e altri[22] hanno d’altro canto dimostrato che esiste nell’uomo una regione citoarchitettonicamente distinta (la parte laterale del giro di Heschl) sensibile ai cambiamenti sottili nelle caratteristiche binaurali degli stimoli acustici. L’insieme di questi dati confermerebbe il postulato evoluzionistico sopra descritto secondo cui aree altamente specializzate sarebbero difficilmente sostituibili da altre: la nostra possibilità “tecnologica” di produrre linguaggio sarebbe biologicamente vincolata non solo alla produzione ma anche alla percezione di stimoli altamente specifici[23].

I tre punti qui brevemente trattati[24] dimostrano come un approccio naturalistico dovrebbe soprattutto evitare il causalismo tipico della psicologia evoluzionista secondo cui una certa funzione deriva immediatamente da una certa struttura o da certi comportamenti originari. La biologia evoluzionista ci insegna, al contrario, che la storia delle trasformazioni strutturali non può dar luogo ad alcuna previsione sulle abilità funzionali. Sappiamo, di certo, soltanto che le trasformazioni, le nuove acquisizioni, ma anche, come nel caso della “selezione dello handicap”, la perdita di alcuni tratti genetici, causano obbligatoriamente una ristrutturazione permanentemente adattativa degli organismi per assicurare la loro possibilità di sopravvivenza.


[1] N. Chomsky, Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Rationalist Thought, New York, Harper and Row, 1966, p. 46.

[2] Cfr. J. Riskin, Eighteenth Century Wetware, in «Representations», 83, 2003, pp. 97-125.

[3] Cfr. A. Pennisi, La tecnologia del linguaggio tra passato e presente, in Studi in onore di Lia Formigari, in corso di stampa.

[4] B. Arthur, The nature of Technology, The Free Press and Penguin Books, London 2009, p. 16.

[5] Ibid., p. 17.

[6] P. Corning, Nature’s Magic Synergy in Evolution and the Fate of Humankind, Cambridge University Press, Cambridge 2003, p. 225.

[7] Ibid.

[8] Ibid., p. 227.

[9] Cfr. S. J. Gould, E. Vrba, Exaptation: a missing term in the science of form, in «Paleobiology», 8, 1, 1985 pp. 4-15.

[10] Cfr. P. Lieberman, R. McCarthy, Tracking the Evolution of Language and speech, in «Expedition», 49, 1987, pp. 15-20.

[11] Cfr. L. C. Aiello, Terrestriality, bipedalism and the origin of language, in J. Maynard Smith (ed.), Evolution of Social Behaviour Patterns in Primates and Man, Oxford University Press, Oxford 1996, pp. 269-289.

[12] Cfr. W. T. S. Fitch, Comparative Vocal Production and the Evolution of Speech: Reinterpreting the Discent of the Larynx, in A. Wray (ed.), The Transition to Language, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 21-45.

[13] Cfr. H. H. Stedman, B. W. Kozyak, A. Nelson, D, M. Thesier, L. T. Su, D. W. Low, C. R. Bridges, J. B. Shrager, N. Minugh-Purvis, A. M. Mitchell, Myosin Gene Mutation Correlates with Anatomical Changes in the Human Lineage, in «Nature», 428, 2004, pp. 415-418.

[14] Cfr. A. Zahavi, Mate selection. A selection for a handicap, in «Journal of Theoretical Biology», 53, 1975, pp. 205-214.

[15] Cfr. H. E. Heffner, H. S. Heffner, Effect of unilateral and bilateral auditory cortex lesions on the discrimination of vocalizations by Japanese macaques, in «Journal of Neurophysiology», 56, 1986, pp. 683-701; Id., Effect of bilateral auditory cortex lesions on sound localization in Japanese macaques, in «Journal of Neurophysiology», 64, 1990, pp. 915-931; I. A. Harrington, Effect of auditory cortex lesions on discriminations of frequency change, amplitude change and sound location by Japanese macaques (Macaca fuscata), Unpublished Doctoral Dissertation, University of Toledo.

[16] Cfr. J. S. Kanwal, G. Ehret, Communication Sounds and their Cortical Representation, in J. A. Winer, C. E. Schreiner (eds.), The Auditory Cortex, Springer, New York 2011, pp. 343-368.

[17] Cfr. M. R. Petersen, M. D. Beecher, S. R. Zoloth, D. B. Moody, W. C. Stebbins, Neural lateralization of species-specific vocalizations by Japanese macaques (Macaca fuscata), in «Science», 202, 1978, pp. 324-327.

[18] Cfr. S. Clarke, A. Bellmann, R. A. Meuli, G. Assal, A. J. Steck, Auditory agnosia and auditory spatial deficits following left hemispheric lesions: evidence for distinct processing pathways, in «Neuropsychologia», 38, 1990, pp. 797-807.

[19] Cfr. S. Clarke, A. Bellmann, F. de Ribaupierre, G. Assal, Non-verbal auditory recognition in normal subjects and brain-damaged patients: evidence for parallel processing, in «Neuropsychologia», 34, 1986, pp. 587-603; T. Fujii, R. Fukatsu, S. Watabe, A. Ohnuma, K. Teramura, S. Saso, Auditory sound agnosia without aphasia following a right temporal lobe lesion, in «Cortex», 26, 1990, pp. 263–268.

[20] Cfr. J. P. Rauschecker, Parallel processing in the auditory cortex of primates, in «Audiol. Neuro-Otol.» 3, 1998, pp. 86–103; J. P. Rauschecker, B. Tian, Mechanisms and streams for processing of “what” and “where” in auditory cortex, in «Proc. Natl. Acad. Sci.», 97, 2000, pp. 11800-11806; L. M. Romanski, B. Tian, J. Fritz, M. Mishkin, P. S. Goldman-Rakic, J. P. Rauschecker, Dual streams of auditory afferents target multiple domains in the primate prefrontal cortex, in «Nature Neuroscience», 2, 1999, pp. 1131-1136; C. Alain, S. R. Arnott, S. Hevenor, S. Graham, C. L. Grady, “What” and “where” in the human auditory system, «Proc. Natl. Acad. Sci.», 98, 2000, pp. 12301-12306

[21] Cfr. C. F. Altmann, C. G. de Oliveira, L. Heinemanna, J. Kaisera, Processing of spectral and amplitude envelope of animal vocalizations in the human auditory cortex, in «Neuropsychologia», 48, 2010, pp. 2824-2832

[22] Cfr. T. V. Budd, A. Hall, M. Goncalves, A. Akeroyd, G. Foster, A. Palmer, K. Head, Binaural spe-cialisation in human auditory cortex: an fMRI investigation of interaural correlation sensitivity, in «NeuroImage», 20, 2003, pp. 1783-1794.

[23] Cfr. A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, Il Mulino, Bologna 2010.

[24] Cfr. anche A. Pennisi, L’errore di Platone. Biopolitica, linguaggio e diritti civili in tempi di crisi, Il Mulino, Bologna 2013.

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