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Neuroscienze della cognizione umana, neuroetica e mismatch

Autore


Gilberto Corbellini – Elisabetta Sirgiovanni

Corbellini_Università La Sapienza di Roma/Sirgiovanni_CNR

GILBERTO CORBELLINI insegna Storia della Medicina, Bioetica ed Epistemologia Medica all’Università La Sapienza di Roma / ELISABETTA SIRGIOVANNI è ricercatrice in Neuroetica presso l’ISGI (Istituto di Studi Giuridici Internazionali) del Consiglio Nazionale delle Ricerche

Indice


  1. Premessa
  2. Il nuovo “meccanicismo” neurocognitivo: oltre la frenologia e il modularismo
  3. Coscienza e inconscio cognitivo
  4. Neuroscienze della morale
  5.  Neuroetica, neurodiritto e psicopatologia
  6. Neuroetica, evoluzione e naturalismo

 

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S&F_n. 05_2011


  1. Premessa

Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive sta determinando una rivoluzione conoscitiva paragonabile a, e forse più rilevante di, quella derivata dal Progetto Genoma Umano. Alla base della cosiddetta “rivoluzione delle neuroscienze”, ci sono stati, soprattutto, quegli avanzamenti tecnologici che hanno reso possibile testare i modelli teorici della cognizione e hanno permesso di utilizzare più efficacemente i dati clinici per identificare processi e meccanismi neurali che danno luogo a specifici comportamenti. In particolare, lo sviluppo delle nuove tecniche tomografiche (le neuroimmagini funzionali, soprattutto PET e fMRI) e la realizzazione di reti neurali artificiali parallele e distribuite, nonché la possibilità di applicazione biomedica di quanto appreso in ambito di robotica e intelligenza artificiale (es. impianti e protesi neurali, o interfaccia uomo-macchina).

Da circa trent’anni, si sa che l’attività cellulare del cervello umano e animale è accompagnata da cambiamenti nel flusso sanguigno locale. Ciò che accade è che, quando attive, le cellule neurali hanno bisogno di energia e quindi si procurano riserve di glucosio e ossigeno. Questa attività neurale può essere visualizzata attraverso le sofisticate tecnologie del brain imaging, impiegate in concomitanza dello svolgimento di un compito cognitivo. Le tomografie neurali più recenti e le tecniche di simulazione dei cervelli-robot noti come reti neurali artificiali hanno consentito di produrre ipotesi sempre più sofisticate, e a vari livelli, di localizzazione anatomico-funzionale di funzioni cognitive superiori, fino a includere la spiegazione di processi decisionali e di giudizi morali o delle scelte politiche. Ma anche i sintomi di patologie neurologiche e psichiatriche. Questo campo d’indagine ha acquisito la denominazione di “neuroscienze cognitive”, le quali non identificano le scienze cognitive in senso generico, ma una particolare direzione di ricerca al loro interno: una direzione che va verso il basso, cioè che interessa il cervello e la sua organizzazione anatomo-funzionale. In pratica, le ricerche sperimentali sul cervello si sono, di fatto, imposte all’interno del paradigma computazionale delle scienze cognitive, in cui avevano prevalso, fino ad allora, approcci psicologici di tipo funzionale.

Il ritorno di attenzione per i dati neurobiologici è stato visto come l’inizio della fine per le scienze cognitive e ha alimentato la fazione dei denigratori di quest’impostazione, considerata come una riproposizione di pratiche desuete, come la frenologia, o uno svilimento dell’essere umano. In realtà, questo nuovo orientamento ha, piuttosto, dato vita a nuove sotto-specializzazioni del genere neuro-x (neuro-economia, neuro-etica, neuro-politica, neuro-diritto, etc.), cioè a una colonizzazione in senso naturalistico delle cosiddette scienze umane, confidando in un maggiore rigore e scientificità per le loro capacità esplicative e/o predittive.

 

  1. Il nuovo “meccanicismo” neurocognitivo: oltre la frenologia e il modularismo

La caratteristica chiave del cognitivismo, sin dalle sue origini, è stata la prospettiva dell’information processing, in cui ogni operazione su informazioni corrispondeva a un processo all’interno di un sistema cognitivo. Quest’idea veniva tradotta nell’obiettivo di specificare i meccanismi alla base della cognizione. Che questo orientamento superasse i limiti del comportamentismo e della psicologia quantitativa degli esordi è cosa nota. Leggi e regolarità matematiche del comportamento, pur rilevanti, non sono sufficienti per dar conto della cognizione e delle sue elaborazioni: occorre spiegarne la natura scoprendo i meccanismi responsabili.

La nuova spiegazione meccanicistica nelle neuroscienze cognitive è un compromesso tra riduzionismo, anche se in un senso diverso da quello della classica riduzione interteorica, e teoria dei sistemi, che spiega i fenomeni in termini di scomposizione e organizzazione sistemica delle parti. Il riduzionismo meccanicistico delle neuroscienze cognitive, una strategia euristica di scomposizione (di funzioni e strutture) e localizzazione, è una tipologia di spiegazione causale complessa, sistemica e che attraversa vari livelli di spiegazione. Questo modello favorisce la co-evoluzione reciproca tra discipline e le connessioni transdisciplinari; è, per questo, un pluralismo esplicativo.

Un nuovo meccanicismo neurocognitivo ha una duplice caratterizzazione: il fenomeno di cui è responsabile (la memoria, il linguaggio, e così via) e l’organizzazione integrata delle sue parti componenti e delle loro operazioni. In breve, spiegare un fenomeno in senso meccanicistico coincide con l’identificazione dell’organizzazione del sistema che lo produce. Le parti non sono solo componenti fisicamente separabili di un meccanismo, ma componenti coinvolte in operazioni, o entità organizzate che agiscono, e le cui interazioni consentono al meccanismo come un tutto di comportarsi in un certo modo (di produrre un determinato cambiamento da una data condizione iniziale a una data condizione finale) rispetto all’ambiente circostante.

L’epiteto di “neo-frenologia”, spesso usato con intento denigratorio, ha ben poco a che vedere con la prassi e le conoscenze delle neuroscienze cognitive odierne. In primo luogo, queste si allontanano dalla concezione di Franza Gall di una localizzazione diretta di funzioni mentali. In secondo luogo, sono un buon compromesso tra scomposizionalismo e olismo. In terzo luogo, non solo non sono una prospettiva top-down, ma scomposizione e localizzazione si influenzano vicendevolmente: da un lato, le regioni cerebrali non sono distinte in modo indipendente; dall’altro, vi sono effetti di ritorno dalla spiegazione neuroscientifica a quella psicologica (effetti bottom-up).

Nessun neuroscienziato competente difenderebbe oggi la rigida divisione del cervello in zone specializzate e autonome, poiché è ben consolidata la compartecipazione di varie aree del cervello anche a compiti molto specializzati. Analogamente a quello che accade con la genetica, dove molti geni non codificano direttamente singoli tratti, ma regolano l’espressione di altri geni, è bene ritenere che l’evoluzione non ha semplicemente promosso componenti individuali, ma meccanismi di interazione tra le varie componenti. Il fenomeno è il prodotto dell’operare simultaneo del meccanismo come un tutto, in modo distribuito e con effetti di retroazione tra le componenti. Le parti, individualmente, non realizzano il fenomeno osservato. Né le parti del meccanismo necessitano di essere spazialmente contigue, ma possono essere distribuite all’interno dell’intero meccanismo. Inoltre, ogni parte è influenzata in modi molteplici dall’attività che si svolge da qualche altra parte nel meccanismo. Ogni sottosistema componente è, cioè, indipendente in modo approssimativo rispetto al comportamento a breve termine delle altre componenti, ma il comportamento a lungo termine delle componenti dipende dalle altre componenti.

L’identità psiconeurale è un postulato euristico fondamentale della nuova epistemologia meccanicistica. I meccanismi cognitivi coincidono con i meccanismi biologici realizzati nel cervello, meccanismi la cui organizzazione e attività complessa è in grado di dar luogo a quei fenomeni “virtuali” che percepiamo come mentali. In questa cornice, fenomeni quali la coscienza e il giudizio morale trovano spiegazioni lontane dal senso comune e aprono a nuovi interrogativi.

 

  1. Coscienza e inconscio cognitivo

Quello della coscienza è stato un tema a lungo messo a margine dalle scienze naturali con argomentazioni di vario tipo. Le difficoltà a lungo incontrate derivavano dal mettere in dubbio di poter correlare gli aspetti fenomenologici che siamo soliti chiamare “coscienza”, in particolare l’esperienza comune a tutti noi di concepirci come soggetti autocoscienti, con l’attività dei meccanismi cerebrali. Perfino l’eliminativismo, la teoria secondo cui la coscienza costituisce niente più che un’illusione, che oggi è considerata un’acquisizione delle neuroscienze, si presenta in varie versioni non sempre uniformabili: per esempio, nella versione churchlandiana come dissoluzione delle teorie false della psicologia folk nell’attività di strutture neurali; o in Daniel Dennett come perdita della sua totalità, in quanto irriducibile a un singolo correlato. La natura della relazione tra processi cognitivi inconsci e coscienza assume, nelle neuroscienze cognitive, connotati del tutto antitetici a quelli freudiani. L’inconscio cognitivo è composto di processi di calcolo sub-personali, i quali non sono certo effetto di una rimozione né possibilmente emergenti, grazie a tecniche introspettive, alla narrazione cosciente. Sono processi oggetto di una descrizione teorico-scientifica. Nella versione offerta dalle neuroscienze, la coscienza perde il carattere egemonico ereditato dalla tradizione filosofica, carattere che il freudismo continuava a conferirle, quale punto di riferimento teorico e terreno di ricongiungimento per i conflitti emergenti nel corso della pratica psicoanalitica.

La coscienza ha quindi potere causale? È un dato ormai consolidato, sin dai primi esperimenti di Benjamin Libet del 1985, che processi cerebrali inconsci e automatici precedano la consapevolezza di una decisione e che pure siano responsabili del comportamento volontario umano. Ha senso allora sentirsi consapevoli delle proprie azioni? Quello che i risultati di Libet mostravano è che, appunto, non siamo coscienti delle nostre decisioni. Il nostro modo di pensare al libero arbitrio è esattamente quello di una capacità di un ipotetico self di scegliere se agire o se non farlo. Ma siamo davvero liberi allora? Siamo autori del nostro volere? La soluzione metafisica a queste domande è spesso di scarsa utilità: gli esseri umani mostrano concezioni di senso comune sul libero arbitrio compatibiliste o incompatibiliste a seconda delle circostanze. È un fatto che la nostra nozione intuitiva di libero arbitrio riguarda proprio il nostro sentimento di controllo sulle nostre decisioni e azioni, piuttosto che il controllo stesso.

 

  1. Neuroscienze della morale

Negli ultimi due decenni le neuroscienze hanno sfidato una tradizione culturale che riteneva i problemi di carattere etico-morale del tutto indifferenti alle trattazioni naturalistiche. Dal recupero, da parte dei neuroscienziati, del caso ottocentesco di Phineas Gage, il minatore del Vermont, si sono susseguite diverse tipologie di studi neurali sulla moralità. Di fatto le neuroscienze hanno in sostanza evidenziato stretti rapporti tra emozioni e giudizi morali. Inoltre, anche come conseguenza delle ricadute applicative della ricerca neuroscientifica, hanno prodotto una disciplina “per il nuovo Millennio”, la neuroetica.

Di fatto le sindromi frontali sono state assunte a rango di paradigma della ricostruzione dell’architettura neurocognitiva del comportamento morale e delle sociopatie. I risultati sulle basi neurali della psicopatia e del disturbo di personalità anti-sociale (APD) hanno mostrato come le strutture implicate appartengano al sistema limbico, il centro delle emozioni. In particolare dagli studi di Damasio, che ha riformulato in maniera originale la questione del rapporto esistente tra centri neurali delle emozioni e della razionalità nell’effettuare un giudizio morale, si è imposta nelle neuroscienze cognitive una nuova visione “pan-emozionalista”: le emozioni governano buona parte della nostra cognizione, ma soprattutto sono determinanti per agire moralmente. Soprattutto, a essersi affermata è una visione per cui Hume sembra aver avuto la meglio su Cartesio e Kant: il nostro giudizio morale è guidato dalle “passioni”, non dalla ragione.

Dagli studi sulle lesioni e sulle patologie della moralità, poggiandosi su quanto già prodotto nel campo della psicologia morale, molta ricerca ha fatto uso dell’imaging funzionale per studiare il meccanismo dell’emozione morale nel cervello. In primo luogo, ora sappiamo che sia emozioni di base sia emozioni morali attivano i comuni centri dell’emozione (l’amigdala, il talamo e il mesencefalo), ma che scene che evocano emozioni morali attivano anche corteccia prefrontale orbitale e mediale e solco temporale superiore. Queste aree vengono oggi considerate il centro del giudizio morale e la base del comportamento sociale implicito negli umani sani. In secondo luogo, sappiamo che giudicare azioni che coinvolgono un danno causato in modo personale (spingere con le proprie mani un individuo sotto un carrello in discesa per salvarne altri 5) non equivale a giudicarne altre che implicano un danno impersonale (deviare il corso del carrello da un binario con 5 persone a uno in cui ve ne è una sola). Nel primo caso, si attivano strutture coinvolte in processi sociali ed emotivi (giro frontale mediale, giro cingolato posteriore e angolare); nel secondo caso, sono coinvolte strutture correlate alla memoria di lavoro e ai giudizi analitici (aree prefrontali e parietali).

L’originalità della neuroetica sta nell’aver creato un legame tra questioni di carattere morale e questioni di carattere neurale: gli assunti provenienti dalle ipotesi di localizzazione dei costituenti neurali certamente consentiranno di capire in che modo i rapporti che si producono socialmente tra lo sviluppo del cervello e le esperienze concorrono a far maturare particolari concezioni morali. Il che permetterà anche di ipotizzare quali sono le condizioni che favoriscono un’effettiva capacità di fare scelte che non diano luogo a effetti dannosi e siano rispettose della libertà altrui. In realtà, di originalità disciplinare in senso proprio non si tratterebbe: la neuroetica non fa che recuperare, in questo senso, istanze già discusse agli albori della “bioetica”. Gli scienziati fondatori della bioetica ritenevano che la comunità scientifica dovesse informare le persone per consentire loro di utilizzare le nuove conoscenze e tecniche per scelte di vita più sagge, difficilmente effettuabili sulla base di credenze infondate, per lo più provenienti dal senso comune.

Questo, certo, pone un problema filosofico fondamentale, ampiamente dibattuto nell’ambito della tradizione morale, e cioè la ricerca di strategie per rifuggire la temuta “fallacia naturalistica”. È anche necessario, però, che alla luce di quanto scoperto ci si confronti con una serie di questioni divenute altrettanto primarie. Esiste una grammatica universale di valori morali? Cosa è naturale e cosa culturale nel giudizio morale? Come possono le nostre teorie etiche non tener conto di tutto ciò?

Con questo non si nega certo l’idea di responsabilità morale, compatibile anche con visioni deterministiche nel comportamento. Ma si sostiene almeno che, nell’attribuire volontarietà o criteri per valutarla, per esempio come accade di frequente in contesti penali, debbano intervenire il rigore e la solidità scientifica.

 

  1. Neuroetica, neurodiritto e psicopatologia

La questione di una rivalutazione scientifica del giudizio e del comportamento morale naturale non può, infatti, che accompagnarsi alla questione di quando e perché un comportamento ritenuto immorale ricada nel patologico o dia luogo a conseguenze penalmente rilevanti. Il tema coinvolge le discipline neuropsichiatriche e forensi.

La scoperta che alcune funzioni del cervello si manifestano attraverso un continuum, che sfida la tendenza del sistema legale e della psicologia, a stabilire delle dicotomie (volontario vs. involontario, cosciente vs incosciente, etc.), ha una portata ben più consistente di quanto emerga dal contesto della discussione sulla responsabilità penale degli imputati. Questa richiede indubbiamente un superamento di apprezzamenti grossolani della volontarietà degli atti e l’introduzione di criteri per valutarla sulla base delle prove circostanziali, riguardanti anche la capacità dell’imputato di mettere in atto consapevolmente strategie di prevenzione. Inoltre, il fatto che anche la coscienza si possa manifestare attraverso un continuum di stati che dipendono dal grado di integrazione o connettività tra diverse parti del cervello, andrebbe tenuto presente nel discutere in merito al diritto delle persone a non essere mantenute, contro la loro volontà, in stati vegetativi che sicuramente sono caratterizzati da sofferenza psicologica.

La nosografia psichiatrica vigente non sembra esserci d’aiuto per trovare una risposta a tale quesito. Essa vive, in anni recenti, una crisi in un certo senso paradigmatica, imputabile al suo assetto descrittivo a-causale.

Nell’attuale tassonomia, il termine “disturbo” ricorre indefinito, o caratterizzato per mezzo di giudizi di valore quali “disagio”, “disabilità” o “aumento del rischio di morte, dolore o limitazione della libertà”. La sua caratterizzazione è di tipo comportamentale: si parla di “comportamento clinicamente significativo o sindrome psicologica”.

Il futuro DSM-5 recherà, tra le altre, una revisione della definizione di disturbo mentale: il disturbo deve riflettere una “disfunzione psicologica sottostante” (criterio B), mentre non deve essere “un risultato di una devianza sociale o di conflitti con la società” (criterio E). In questo, il nuovo DSM ha accolto parte della proposta del sociologo Jerome Wakefield per cui un disturbo fisico o mentale sarebbe una disfunzione dannosa. Tralasciando la questione del danno, un disturbo viene ritenuto coincidere con il malfunzionamento di un meccanismo interno, concezione cara alla revisione neurocognitiva della psichiatria.

È stato sostenuto comunque che anche il concetto di disfunzione sarebbe in ultima istanza normativo e non fattuale. Il concetto di fallimento, esattamente come il prefisso dis, esprimerebbe un giudizio di valore negativo equivoco tra due sensi principali: “l’espressione di valore ‘fare qualcosa male’, o semplicemente quella non di valore ‘non farlo’”. La questione di cosa stabilisca se un meccanismo cognitivo funzioni bene e di cosa stabilisca se funzioni male è, secondo tali autori, frutto di un accordo sociale. A tornare in altra veste sembrano essere, dunque, gli argomenti del costruttivismo sociale contro la psichiatria, secondo cui il comportamento patologico non sarebbe che una deviazione dalle norme della società, una prospettiva che ha avuto molta attenzione nel nostro Paese nel corso degli anni Settanta.

Cosa distingue, pertanto, il comportamento immorale dal comportamento patologico? È possibile una caratterizzazione del concetto di funzione, naturalistica e fattuale, che permetta di distinguerli? Quando un comportamento non morale è indice di patologia?

Il problema della definizione dei concetti di funzione e disfunzione nel confronto tra comportamento morale vs. immorale e comportamento patologico è una sfida per la neuroetica. In primo luogo, chiamando in causa il dibattito che vede la definizione di malattia [disease] come disfunzione dipendente da visioni contrapposte del concetto di funzione. In secondo luogo, riferendosi a un concetto di comportamento morale naturale e cosciente che è stato ridimensionato alla luce degli studi provenienti dalle neuroscienze sopra menzionati.

 

  1. Neuroetica, evoluzione e naturalismo

La neuroetica, quindi, non fa altro che rilanciare l’interrogativo della bioetica delle origini: possiamo ignorare le scoperte prodotte dagli studi di “neuroscienze dell’etica” quando queste hanno a che fare con le dimensioni sia metaetiche sia normative e applicate dell’”etica delle neuroscienze”? Ciò su cui è altrettanto legittimo interrogarsi, rispetto a quello che preme a coloro che paventano solo rischi di abusi, è: come si può evitare che i sistemi di valori tradizionali, basati su presupposti filosofici e su concezioni della natura umana che scienze biologiche, neuroscienze e biologia evoluzionistica stanno demolendo, si oppongano all’uso della scienza e alle sue ricadute applicative? O che addirittura manipolino la scienza per evitare che questa sottragga spazi di influenza culturale alla tradizione umanistica?

Basta sapere qualcosa di evoluzione biologica per comprendere quanto abbia buon gioco la battaglia di retroguardia contro la scienza e l’accesso alle tecnologie mediche, che tutelano il bene proprio e di chi è caro secondo valori liberamente scelti. Questo fronte, che vede alleati umanisti post-modernisti e relativisti con le religioni più dogmatiche, propone argomenti che intercettano meglio le intuizioni di senso comune. Inoltre, sappiamo che la nostra psicologia innata ci predispone anche alla violenza, all’intolleranza, all’inganno, all’egoismo e, in mancanza di un’istruzione che insegni a diffidare di alcune intuizioni emotive ovvero a tenere sotto controllo taluni impulsi naturali, verrebbero probabilmente meno anche i benefici della convivenza civile democratica.

La neuroetica solleva un problema reale: il conflitto tra le forme di conoscenza intuitiva del mondo, cablate dalla selezione naturale nel nostro cervello durante gli oltre 1500 millenni che hanno preceduto l’invenzione dell’agricoltura, e le spiegazioni controintuitive prodotte dalla cultura empirica e soprattutto dal metodo sperimentale, combinato con il ragionamento ipotetico-deduttivo dalla rivoluzione scientifica. Gli studi neuroscientifici degli ultimi anni ci dimostrano che un complesso e funzionale sistema di rapporti sociali e interazioni culturali, come le liberaldemocrazia, si fonda su una serie di finzioni (autonomia, libero arbitrio, responsabilità personale, etc.), costruite dal nostro cervello e dalle sue funzioni attraverso interazioni sociali tra un numero crescente di individui. Interazioni mediate dalla capacità quasi infinita di ricombinare moduli di attività neurale per elaborare ricchissime e articolate modalità di rappresentazione simboliche delle esperienze.

Le riflessioni neuroetiche dovrebbero anche mirare a capire meglio l’origine e la funzionalità di particolari predisposizioni e credenze, cercando di individuare quelle componenti dell’esperienza culturale che hanno favorito la crescita economica e sociale, ovvero il benessere delle società occidentali moderne. E quindi, metterci nelle migliori condizioni per contrastare gli effetti “maladattativi” di tratti comportamentali che ci hanno sì garantito il successo come cacciatori-raccoglitori, ma che sono anche costati ai nostri antenati pesanti sofferenze, prima della comparsa della scienza moderna, dell’economia di mercato e del sistema di valori liberaldemocratici. Senza dimenticare che i valori della scienza e della liberaldemocrazia sono stati a lungo combattuti nel nome di valori che facevano leva su intuizioni di senso comune. Allo stesso tempo la neuroetica potrebbe aiutare filosofia e cultura generale a liberarsi dell’idea preconcetta che le spiegazioni dei comportamenti umani in termini materialistici o naturalistici sviliscano la dignità umana. Infatti, piuttosto la elevano, spiegando, senza ricorrere a ipotesi metafisiche indimostrabili, la nostra indiscutibile unicità nel contesto dell’evoluzione biologica.

La peculiarità della discussione neuroetica sta nella sfida a quest’idea, cioè nella potenzialità di sovvertimento, di conservazione o aggiustamento delle categorie del senso comune attraverso una discussione che dia peso ai dati della scienza, comprendendo la genesi di queste categorie nel corso dell’evoluzione della nostra specie. Il naturalismo epistemologico, se di neuroetica si parla, non può che esserne un tratto fondante.

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