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“L’uomo ornato dal prestigio della bestia”. Bataille e il miracolo di Lascaux

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Il paradosso dell’estetica
  2. Quando cominciarono gli uomini. Per una genealogia del fenomeno artistico.
  3. L’alba e la notte
  4. “L’uomo ornato dal prestigio della bestia”

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S&F_n. 06_2011


Tu ne peux plus travailler. Rêve,

Les yeux ouverts, les mains ouvertes

Dans les déserts,

Dans les déserts qui joue

Avec les animaux – les inutiles.

 

Après l’ordre, après le désordre,

Dans les champs plats, les forêts creuses,

Dans la mer lourde, et claire,

Un animal passe – et ton rêve

Est bien le rêve du repos.

 

Paul Eluard

 

  1. Il paradosso dell’estetica

Bataille probabilmente avrebbe sottoscritto quest’affermazione hegeliana (che conviene citare per intero): «l’errore consiste in questo, che l’opera d’arte deve riferirsi ad altro, che è posto come essenziale, come dover essere per la coscienza, cosicché l’opera d’arte sarebbe valida solo come strumento utile alla realizzazione di questo fine autonomamente per sé valido fuori dell’ambito dell’arte. Va qui invece affermato che l’arte è chiamata a rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile, è chiamata a manifestare quella opposizione conciliata, e ha quindi in sé, in questa rivelazione e manifestazione, il suo scopo ultimo. Infatti, fini diversi, quali l’ammaestramento, la purificazione, il miglioramento, il guadagno, l’aspirazione a fama e onori non riguardano l’opera d’arte come tale, né ne determinano il concetto»[1].

In effetti è come se in questo fondamentale passaggio Hegel intendesse preliminarmente strappare il problema dell’estetica a ogni interpretazione utilitaristica che fa della creazione artistica una forma imperfetta, magari “arcaica” e “primitiva”, di conoscenza intellettuale e pragmatica. L’estetica non ha nulla a che fare con il movimento dell’“intelletto riflettente”, che pretende di cogliere i “momenti” del divenire come isolati, discreti, distaccati gli uni dagli altri; nulla a che fare con quell’intelletto che, dopo aver compiuto la scissione attraverso la quale ogni elemento è staccato dagli altri e ha la verità in se stesso, risulta essere incapace di cogliere la totalità in divenire e risanare la scissione tra finito e infinito, mondo e spirito. L’arte rappresenta la prima forma della conciliazione nella dimensione dell’intuizione pur non rappresentando la forma più elevata di conoscenza così come la intendeva invece Schelling. Hegel riassume in questa maniera la funzione dell’arte: «è la profondità di un mondo sovrasensibile a essere penetrata dal pensiero che lo erige in primo luogo come un al di là di contro alla coscienza immediata e la sensazione attuale; è la libertà della conoscenza del pensiero che si sottrae all’al di qua, cioè alla realtà e alla finitezza sensibili. Ma lo spirito sa guarire questa frattura a cui procede; esso produce da sé le opere della bella arte come il primo anello di conciliazione tra ciò che è semplicemente esterno, sensibile e transeunte, e il puro pensiero, tra la natura e la realtà finita e l’infinita libertà del pensiero concettuale»[2].

Ma bisogna anche dire che l’arte, nel ciclo sempre riattivantesi dello spirito assoluto, assume una posizione paradossale. È già sempre, in ogni sua manifestazione, una forma di conciliazione e di rivelazione della verità nell’elemento sensibile (dunque imperfetto), ma è – allo stesso tempo – già sempre superata dalle altre forme attraverso le quali l’assoluto si rivela in maniera superiore: mediante la religione nella rappresentazione, mediante la filosofia nell’autocoscienza. Il paradosso consiste proprio nel già sempre, che implica il fatto che l’arte sia allo stesso tempo attuale e inattuale, attuale in quanto sempre rivela sotto forma di intuizione la verità, inattuale perché è sempre superata da forme più elevate di manifestazione della verità. Si potrebbe dire che il senso dell’arte è storico e astorico allo stesso tempo: l’arte vive attualmente la sua inattualità, ed è inattuale nella sua attualità. Oppure, richiamando una famosa espressione hegeliana, si potrebbe dire che l’arte vive della sua morte e muore della sua vita in quanto è già sempre morta (non soltanto, dunque, l’arte romantica) proprio perché è già sempre viva nell’atto di essere superata. Ma l’arte, proprio perché si definisce attraverso questa contraddittorietà, riesce in un compito fondamentale e “primo”, quello di offrire al senso (da intendersi e come sensibilità e come significato) la forma concreta della conciliazione. Ma proprio per questo possiamo dire che la sua paradossalità si pone anche su un secondo livello: pur oggettivandosi in qualcosa di esterno e materiale (sensibile, appunto) l’arte ha la sua verità in se stessa, non ha bisogno di altro o di ritrovare una finalità esterna al suo operare. Dunque non appartiene al regime dei mezzi utili.

Questa seppur breve e rapida introduzione ci apre alla possibilità di un dialogo con la concezione dell’arte in Bataille, così come viene fuori dalla sua analisi delle pitture rupestri di Lascaux. Ed è in questo senso che forse Bataille ci può accompagnare – mantenendo sempre presente questa sponda hegeliana – all’interno di un’antropologia del fenomeno artistico (ma anche, come vedremo, dell’umano) nella sue più complesse configurazioni. In via preliminare possiamo affermare che Bataille, per certi versi hegeliano eterodosso egli stesso oltreché allievo di un hegeliano eterodosso a sua volta, Kojève[3], qualora avesse letto l’Estetica di Hegel, cosa di cui non siamo a conoscenza, sicuramente avrebbe concordato su una serie di punti: in primo luogo il fatto che l’arte abbia la sua finalità in se stessa e che, dunque, non possa essere ricondotta alla sfera dell’utile – tema questo quanto mai centrale nella riflessione batailliana; in secondo luogo che l’arte è sempre primitiva perché racconta già sempre il nostro passato che noi non smettiamo di “essere” e “non essere” allo stesso tempo. Se c’è una certa paradossalità nell’impostazione hegeliana (paradossalità che non fa altro che ricordarci la ricchezza e l’articolazione complessa della sua esperienza di pensiero troppo spesso semplificata e ridotta a pochi slogan – anche in questo senso Hegel non va trattato come un cane morto), è proprio all’interno di essa che continuamente si è dibattuto Bataille. Il dialogo con l’antropologia culturale e l’etnologia e, in questo caso, addirittura con la paleontologia hanno portato Bataille a scavare sempre più all’interno dei paradossi hegeliani (che poi, mai come in questo caso, sono i paradossi della “modernità matura”). Quella che possiamo definire “antropologia dell’impossibilità” di Bataille è anche in questo senso debitrice della complessa paradossalità della riflessione hegeliana. 

 

  1. Quando cominciarono gli uomini. Per una genealogia del fenomeno artistico

Bataille lo afferma chiaramente: «due avvenimenti decisivi hanno segnato il corso del mondo: il primo è la comparsa degli utensili (e quindi del lavoro); il secondo è la nascita dell’arte (e quindi del gioco). La creazione di utensili è attribuita all’Homo faber, a colui che, pur non essendo più un animale, non era diventato ancora un uomo a tutti gli effetti […] l’arte invece fece la sua comparsa con l’uomo attuale, l’Homo sapiens, che apparve all’inizio del Paleolitico superiore […] la nascita dell’arte dev’essere relazionata certamente all’esistenza del lavoro che l’ha preceduta. Non solo l’arte presuppone il possesso di utensili e l’abilità acquisita fabbricandoli o maneggiandoli, ma essa ha, in rapporto all’attività utile, il valore di un’opposizione: è una protesta contro un mondo che esisteva già, ma senza il quale la protesta stessa non avrebbe potuto prendere corpo»[4]. All’interno di questo lungo passaggio si trova ben espresso tutto il senso della riflessione batailliana sul fenomeno estetico e sul fenomeno più genericamente umano. Sin dai primi anni della sua riflessione Bataille si era dedicato allo studio del problema dell’utile in contrapposizione con la questione fondamentale della dépense[5]. Il fenomeno umano è antropologicamente stretto all’interno di una morsa che ne costituisce il senso profondo e ineludibile ma anche l’impossibilità più radicale: da un lato l’uomo è guidato dalla necessità dell’utile – nei termini di un’economia produttiva, dall’acquisizione e dalla produzione dei beni, nei termini di un’economia allargata del fenomeno umano, dalla riproduzione e conservazione della vita; dall’altro l’uomo è portato a una differente modalità di relazione con il mondo, fondata invece sulla dépense improduttiva e anti-utilitaristica, cioè su attività economiche e umane che non hanno come proprio fondamento la produzione di ricchezze e la riproduzione della vita umana, ma il dispendio e la distruzione di beni e un senso della vita che si gioca all’interno delle determinazioni più estreme dell’umano come la morte e la sessualità. Questa dicotomia (utile/dépense) è ciò che guida la riflessione batailliana e se in questa “prima” opera il significato si gioca soprattutto all’interno di una critica al razionalismo utilitaristico borghese (del resto ci troviamo negli anni ‘30), mostrando come l’utile non sia la determinazione essenziale e naturale dell’umano, successivamente, attraverso lo studio di tutta una serie di fenomeni (la religione, la sessualità, l’arte), tale contrapposizione viene condotta alle sue estreme conseguenze.

In un certo senso è possibile affermare che Bataille non ha mai smesso di scrivere lo stesso libro, pur partendo da oggetti differenti come l’economia, la religione, l’arte, l’erotismo, proprio perché guidato da un’esigenza di sistema (anch’essa derivata più da Hegel che non da Nietzsche). Ed è proprio all’interno di questo sistema instabile che dobbiamo provare a muoverci.

Bataille ha costruito un’antropologia chiara e netta (a discapito del disordine delle sue opere), capace di mettere in gioco all’interno di un impasto complesso tutta una serie di determinazioni dell’umano. In Bataille è sempre stata vivo, sin dai suoi primi scritti, l’interesse per l’antropologia e l’etnologia (la teoria della dépense deve molto a Mauss[6]), ma non nel senso di una ricerca dell’esotico o dello straniero, l’intento è piuttosto quello tipico di certa sociologia e antropologia francese e si fonda sul tentativo di comprendere la realtà del fenomeno umano e dei fenomeni sociali che si producono nelle relazioni umane.

Nel testo che stiamo analizzando e che muove dalla meraviglia che si prova nell’osservare le pitture rupestri delle caverne di Lascaux, la questione dell’arte e della sua nascita è già immediatamente la questione dell’umano e della sua nascita. In Bataille c’è una forte tensione verso una ricerca che abbia a fondamento una certa percezione dell’origine come il luogo in cui si mostra più limpidamente ciò che siamo e che non smettiamo di essere. Bataille insiste a lungo sulla nozione di “cominciamento”: Lascaux e le sue pitture rappresentano il momento e il luogo in cui cominciarono gli uomini e tutto il testo è attraversato costantemente da immagini come l’alba, il lampo, l’uscita dalla notte. Insomma il discorso è costruito sulla base di una costante metaforizzazione costruita intorno all’immagine della luce, la quale permette di cogliere la relazione stretta e primigenia tra arte e religione, cosa determinante in Hegel ma anche in tanta etnologia del XX secolo. Il problema dell’origine, allora, come il momento dell’avvento della luce. E non è un caso – e questa è forse una delle poste in gioco filosofiche più importanti dell’antropologia francese (Mauss e Lévi-Strauss su tutti) – che gli studi etnografici abbiano condotto a una maniera completamente differente di affrontare la questione dell’umano e della sua origine, cioè della sua luce. Il testo di Bataille – che non intendiamo analizzare passo per passo ma problematizzare – è attraversato proprio da una tensione tra struttura e storia, ciò che Lévi-Strauss definiva più o meno negli stessi anni «il dramma interno svelato»[7] delle ricerche etnologiche, in quanto da un lato tenta una ricostruzione storico-antropologica (a tratti si serve anche, ovviamente, della paleontologia) dell’avvento dell’umano nel mondo e dall’altro mostra come quell’avvento si riproduca sempre e in ogni luogo attraverso la costante riattualizzazione dei fenomeni più profondamente umani. Anzi «più ci sentiremo oltrepassati, più avanti potremo giungere»[8], afferma Bataille con il suo solito gusto per il paradosso: Lascaux rappresenta l’inizio dell’umanità e proprio per questo ciò che sempre ci supera. In questo senso è parso utile aprire questa breve riflessione con quello che abbiamo definito “il paradosso dell’estetica” in Hegel, proprio perché anche lì è sembrato a noi fondamentale proprio il cortocircuito (che non può che produrre scintille e ricchezza per il pensiero) tra una determinazione storica dell’arte (il problema della “storia dell’arte”) e una determinazione astorica del fenomeno estetico come ciò che vive già sempre del suo passato.

In effetti Bataille lavora soprattutto su alcune costruzioni concettuali proprie dell’etnologia più accorta e avanzata. E questo si nota soprattutto nei passaggi in cui critica la «maniera sordida»[9] attraverso la quale sono solitamente descritti gli uomini primitivi; certo a volte – ma questo capita anche all’etnologia più scientifica – Bataille sembra essere preso da un certo primitivismo: «anche noi, guardando questi dipinti, possiamo sentire improvvisamente il peso della civilizzazione di cui siamo, ciò nonostante, piuttosto fieri», «abbiamo sete di un’altra verità e attribuiamo questa nostra debolezza a un errore legato al privilegio della ragione»[10]; e, proprio attraverso il primitivismo, da una certa seduzione nei confronti di una visione tramontante della nostra civiltà (ciò che si oppone all’alba e alla luce di quando gli uomini cominciarono): «dobbiamo piuttosto considerare il fatto che l’uomo di Lascaux è stato testimone di una virtù decisiva, di una virtù creatrice, che oggi non è più necessaria»[11]. Ma proprio in questa tensione tra attuale e inattuale, alba e tramonto, temporalità e struttura che si gioca la complessità della genealogia dell’umano e dell’arte.

Insomma, è giunto il momento di affrontare il significato antropologico di questa nascita dell’arte.  

 

  1. L’alba e la notte

Prima di rendere conto della meraviglia dell’alba dell’umanità, è necessario sprofondare nella necessità della notte. Soltanto in questo modo si può restituire il senso paradossale del fenomeno artistico.

In pieno accordo con la tradizione hegelo-marxiana, una “certa” umanità che, come vedremo, non siamo ancora noi in tutto e per tutto ha cominciato a staccarsi dall’animalità proprio grazie alla dinamica del lavoro. «L’uomo si distinse dall’animale» afferma Bataille «nella misura in cui il pensiero dell’uomo gli fu donato nel lavoro»[12]. E non soltanto il pensiero – aggiungiamo noi – ma anche la temporalità (secondo l’insegnamento kojèviano), nel senso che soltanto a partire da un “progetto” presente nella mente è possibile che già sia avvenuta nella realtà la distinzione tra soggetto e oggetto e dunque una trasformazione che si determina a partire da un prima, appunto il progetto, e un dopo, la realizzazione. Ma il lavoro, che si determina in quanto progettazione e costruzione di utensili in vista di un affinamento nella vita materiale degli uomini, conduce a un’altra conseguenza fondamentale: la percezione della morte. E per Bataille la connessione è semplice e diretta: questi uomini dell’alba dell’umanità percepirono una differenza assoluta tra gli oggetti prodotti e se stessi. L’utensile, progettato e realizzato attraverso il lavoro, perdura nel tempo, ha una durata e una permanenza che eccede quella umana. Questi “primi” uomini cominciarono a riflettere sulla durata, sul tempo, sulla morte e non è un caso, spiega Bataille, che anche quel primo “balbettio” umano, l’uomo di Neanderthal, conoscesse la morte e procedesse alle prime inumazioni. Ciò che sorge con il lavoro, con il pensiero progettuale e con la temporalità della morte è la dimensione del divieto. Ed è la morte stessa a essere stata sanzionata in questo primo momento attraverso un divieto: mentre per gli animali non esiste la percezione della morte di un proprio simile, per questi primi uomini i riti funerari e l’adorazione di teschi, come testimonianza di ciò che è stato e che si pretende che sia ancora, ha la funzione di un primo divieto, quello che le spoglie di un proprio simile non finiscano in pasto ad altri animali e si disperdano. Ed è soltanto all’interno di questa dimensione che si determina il senso profondo dell’umano: «vista nel suo insieme, la differenza tra l’animale e l’uomo non approda solo a considerazioni di tipo intellettuale o fisico, ma anche al mondo dei divieti quali gli uomini si credevano obbligati. Se c’è una cosa che invece distingue l’animale dall’uomo, è proprio questa: per l’animale non esiste il divieto; è il dato naturale che limita l’animale, mentre esso di per sé non si pone nessun limite»[13]. Questo passaggio dall’animalità all’umanità Bataille riesce a rappresentarlo in maniera ancora più efficace all’interno di uno studio sulla religione[14]. Anche in questo caso si tratta di una genealogia ed è grossomodo sempre la stessa (in questo senso si è parlato di esigenza di sistema). L’animalità viene descritta come il regno del continuo, immanente e non trascendente; l’umanità è invece il regno del discontinuo (come il pensiero progettuale, suo primo strumento – che assonanza con la concezione dell’“intelletto” riflettente in Hegel!) nel quale la morte ha la funzione di ristabilire la continuità. Insomma se la percezione della morte produce la perdita dell’immanenza immediata con la realtà, cosa che è propria dell’animale, producendo una duplicazione tra piano immanente della realtà e piano trascendente del mondo umano scandito dall’oggettualità, essa conduce anche a una riflessione sulla posizione dell’umano all’interno del mondo. Questo momento di scissione, di paradosso esistenziale (verrebbe da chiamarlo in questi termini), determina la scissione tra un mondo profano (il mondo dell’utile) e un mondo sacro (il mondo immanente e già sempre perduto). La religione ha la sua radice in questo: il sacro come fascino verso la continuità e l’immanenza del mondo ma anche come orrore per la paura di perdere il mondo profano e discontinuo sul quale l’umanità esercita il suo dominio. In un certo senso in Bataille da un lato il religioso non è esigenza di trascendenza ma è malinconia dell’immanenza per sempre perduta e dall’altro il religioso nella sua connessione con il sacrificio, la festa e anche l’arte, ha la funzione di riattivare e di rendere possibile il ritorno all’immanenza assoluta, anche soltanto per un istante, ma sempre come movimento “reattivo”. La trasgressione necessita sempre e comunque del divieto e ha il suo significato nel fascino e nell’orrore della perdita.

In questo senso si inserisce la riflessione sull’arte. Quando si analizzano le pitture rupestri, le quali perlopiù ritraggono animali, si ha solitamente l’idea che abbiano una funzione magica e rituale come rappresentazione di ciò che si desidera ottenere; insomma queste prime forme d’arte avrebbero una funzione utile, di mezzo in vista di uno scopo. Bataille ritiene invece – e la postura è assolutamente hegeliana, così come ne abbiamo discusso – che l’arte non può e non deve essere ricondotta alla sua funzione pratica ma che essa ha e mostra una verità in se stessa. In questa fase aurorale dell’umanità, in cui il religioso e l’artistico sono fondamentalmente connessi perché più prossimi alla loro origine comune, «il rito implica ovunque ciò che da sempre è stato oggetto dell’arte: la creazione di una realtà sensibile, che modifichi il mondo offrendo risposta al desiderio di prodigio, di meraviglioso, che è implicito nell’essenza dell’essere umano»[15]. L’arte ha già sempre a che fare con il sacro e rivela la verità dell’essere umano nella sua dimensione più propria che non è quella del lavoro e dell’utile ma quella del gioco e della dépense.

Ed è per questo che «il problema più grande dei popoli preistorici […] fu quello di far coesistere lavoro e gioco, divieto e trasgressione, il tempo profano e lo scatenamento della festa in una sorta di equilibrio leggero, in cui i contrari si unissero, dove il gioco stesso prendesse le sembianze del lavoro e dove la trasgressione contribuisse ad affermare il divieto»[16].

 

  1. L’uomo ornato dal prestigio della bestia”

L’ultimo aspetto a nostro avviso fondamentale per cogliere la questione dell’arte primitiva (ma, come si è visto, anche dell’arte in generale) riguarda il soggetto stesso che predomina all’interno di queste rappresentazioni. Bataille si concentra soprattutto sul fatto che questa umanità nascente – e che, in un certo senso, aveva ancora presente la dimensione dell’animalità e di tutto quello che essa porta all’interno del pensiero selvaggio (il tempo sacro, la trasgressione, il gioco) – abbia rappresentato prevalentemente figure animali. «L’opposizione tra l’animalità e il lavoro»[17] è ciò che determina lo spessore del fenomeno artistico ed è ciò che rappresenta l’elemento fondamentale in vista di un’antropologia dell’arte.

Quest’umanità all’alba ha lasciato immagini estremamente potenti dell’animale ma, quando ha deciso di rappresentare se stesso, ha spesso dissimulato la propria rappresentazione attraverso quella dell’animale. E in più c’è un altro paradosso ancora: la netta e immediatamente percettibile contrapposizione tra la rappresentazione dell’animale, perfetta nel suo realismo e naturalismo, e la rappresentazione dell’umano, imperfetta ed elementare nella cura dei particolari. Bataille si riferisce in primo luogo al cosiddetto “uomo del pozzo” della grotta di Lascaux, figura umana itifallica e dalla testa (forse) di uccello che giace come morta nel mezzo di alcune figure animali, e in secondo luogo ad altre figure umane della cosiddetta “caverna dei Tre Fratelli” nel sud della Francia, anch’esse figure caratterizzate dalla mescolanza di elementi umani e animali e dalla funzione probabilmente magica e rituale. Il senso profondo di queste rappresentazioni in cui domina non soltanto la potente animalità dell’animale ma anche l’animalità propria dell’umano si inserisce proprio nell’opposizione tra il lavoro utile che domina il mondo e lo piega alle esigenze dell’uomo e la ricerca del sacro che ricompone il mondo frammentato in vista di una conciliazione immanente. Se «il lavoro fu possibile grazie a principi contrari a quelli della pretesa “mentalità primitiva”, che si afferma esser stata “prelogica”», allora si può affermare che «i comportamenti “primitivi” e prelogici […] sono piuttosto secondari e post-logici» e «la condotta magica o religiosa non ha fatto altro che tradurre il disagio e l’angoscia che si sono impadroniti dell’uomo che agisce ragionevolmente, conformemente alla logica implicita in ogni tipo di lavoro»[18]. L’arte, allora, rappresenta il sorgere dell’umanità proprio in quanto si posiziona sempre in contrapposizione rispetto alla dimensione propriamente “tecnica” dell’umano. In questo senso può servire la sponda hegeliana: l’arte è già sempre superata proprio perché racconta e rappresenta l’impossibile dell’umano che nonostante ciò si riproduce sempre, in ogni epoca, come esigenza impossibile di superamento di sé. Se in Hegel l’arte è soltanto il primo passo (ed è sempre il “primo” in ogni momento) superato e completato dalla religione e dalla filosofia in vista del superamento del circolo (sempre riattivantesi) prima della contrapposizione uomo-mondo, poi della conciliazione, in Bataille l’arte, la religione, il non-sapere (così viene descritto il “compito” del pensiero) non conducono e non possono mai condurre a una conciliazione e a un superamento per sempre perduto e di cui Lascaux è la prima testimonianza compiuta. Il superamento essendo fondamentalmente impossibile perché l’uomo nel suo divenire tale si è staccato dall’immanenza del mondo e nell’apertura prodottasi da questo evento incomprensibile ha sviluppato quello che è il mondo propriamente umano. L’arte ha la funzione di provocare meraviglia ed estasi ma anche orrore e malinconia nei riguardi di un mondo perduto e che può essere percepito tale soltanto quando lo si è perduto effettivamente. L’essere nella sua dimensione ontologica e religiosa è solamente nel momento in cui esiste l’umanità che nell’apertura ha perso la sua immediata appartenenza, il suo dimorare pre-intellettuale in un mondo immediato e immanente.

Questi sono alcuni dei motivi per cui l’uomo primitivo aveva vergogna di rappresentare se stesso. Non poteva fare altro che evocare le forze dell’animalità perduta in se stesso e nel mondo e non poteva fare altro che ornarsi del prestigio dell’animalità.

L’arte dunque non è soltanto già sempre il racconto del suo paradosso ma rappresenta anche la narrazione più “vera” della nostra presenza nel mondo ed è per questo che possiamo chiudere queste brevi note su un’antropologia dell’arte chiamando in cattedra uno dei massimi pensatori del XX secolo, Lévi-Strauss, il quale riesce a restituirci la densità che dovrebbe avere ogni discorso sull’arte che abbia al proprio centro la “questione” antropologica:

considerate secondo una scala millenaria, le passioni umane si confondono. Il tempo non aggiunge e non sottrae nulla agli amori e agli odi provati dagli uomini, alle loro promesse, alle loro lotte e alle loro speranze: in passato e oggi, questi sono sempre gli stessi. Sopprimere a caso dieci o venti secoli di storia non intaccherebbe in modo sensibile la nostra conoscenza della natura umana. La sola perdita insostituibile sarebbe quella delle opere d’arte che questi secoli avranno visto nascere. Gli uomini, infatti, differiscono, e anche esistono solo attraverso le loro opere. Come la statua di legno che partorì un albero, esse solo recano l’evidenza che nel corso dei tempi qualcosa è realmente accaduto[19].

 


[1] G. W. F. Hegel, Estetica (1842-43), tr. it. Einaudi, Torino 1997, pp. 66-67.

[2] Ibid., p. 12.

[3] Facciamo riferimento ovviamente a A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel – Lezioni sulla «Fenomenologia dello Spirito» tenute dal 1933 al 1939 all'École Pratique des Hautes Etudes raccolte e pubblicate da Raymond Queneau (1947), tr. it. Adelphi, Milano 1996.

[4] G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte (1955), tr. it. Mimesis, Milano 2007, p. 34.

[5] Cfr. Id., La nozione di dépense (1933), in La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[6] Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1923), tr. it. Einaudi, Torino 2002.

[7] C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), tr. it. il Saggiatore, Milano 2009, p. 15.

[8] G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, cit., p. 59.

[9] Ibid., p. 30.

[10] Ibid., p. 74.

[11] Ibid., p. 19.

[12] Ibid., p. 36.

[13] Ibid., p. 38.

[14] Cfr. Id., Teoria della religione (1973), tr. it. SE, Milano 2002, soprattutto pp. 17-55.

[15] Id., Lascaux. La nascita dell’arte, cit., p. 42.

[16] Ibid., p. 45.

[17] Ibid., p. 77.

[18] Ibid., p. 73.

[19] C. Lévi-Strauss, Guardare ascoltare leggere (1993), tr. it. il Saggiatore, Milano 2001, p. 157.

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