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La nozione di vita tra epistemologia storica francese e biologia contemporanea. Una nota critica

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Introduzione. Dal ciò-che-è al ciò-che-vive
  2. Perché la Francia? Il vivente tra metafisica della vita ed epistemologia storica
  3. Il vivente a partire da alcune esperienze della biologia contemporanea
  4. Conclusione. E l’uomo?

 

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S&F_n. 03_2010


φύσις κρύπτεσθαι φιλε

Eraclito

 

  1. Introduzione. Dal ciò-che-è al ciò-che-vive

 

L’interesse per la nozione di vita attraversa la contemporaneità e – in controluce – anche tanta filosofia del XX secolo; e – in via preliminare – si può dire che l’interrogazione sulla vita si manifesta nella forma di una duplice domanda: ontologica nel senso di un che cosa e di un perché ed epistemologica nel senso di un come definendo campi epistemici di interrogazione sul suo funzionamento. La vita e il vivente – colui che possiede (o è attraversato da) la vita – divengono oggetto di analisi e di studi a partire dalle più disparate modalità interpretative, conoscitive e prescrittive; che la nostra contemporaneità sia attraversata in lungo e in largo dalla questione del bios è sotto gli occhi di tutti: si parla costantemente di bioetica, di biopolitica, di bioeconomia, di biodiritto e sembra che nelle mode attuali il prefisso bio- possa essere preposto a qualsiasi disciplina o pratica classica del sapere umano. Ma questo prefisso ha soprattutto la densità di una prescrizione; ha una valenza prescrittiva più che descrittiva; prescrive nuove modalità per discipline classiche che sul piano descrittivo risultano inadeguate perché strutturate a rispondere a domande differenti; e la posta in gioco dell’attualità è data proprio da queste prescrizioni per cui il senso di questa breve nota consiste proprio nell’affrontare questa problematizzazione, situando la questione della vita come problema e la sua utilizzazione nella contemporaneità come segno dei tempi.

La modernità filosofica (il “da Kant in poi”) si è caratterizzata in molti suoi aspetti per il costante confronto con la neonata scienza biologica, dando forma nuova ad antiche domande: se la natura ama nascondersi come ricorda Eraclito agli albori del sapere occidentale o se l’essere si disvela velandosi come ama dire Heidegger ciò significa che la filosofia si è sempre assunta il compito di affrontare la domanda sull’esistente pur ammettendo la difficoltà, se non l’impossibilità, di una risposta e si può dire che la nozione contemporanea e anomala di vita ha catalizzato su di sé le questioni proprie della filosofia: ciò che è stata in passato l’interrogazione sulla natura intesa come essere, come il ciò-che-è, oggi viene declinata a partire dalla vita, cioè come il ciò-che-vive[1].

Queste note, allora, prendono le mosse dalla lettura di due fascicoli di un’importante rivista italiana, Discipline filosofiche[2], che porta avanti il discorso della relazione tra biologia e filosofia e che si interroga sul significato che in questa nuova stagione filosofica ha assunto l’epistemologia storica francese del XX secolo. Non intende essere una sorta di recensione allargata perché sarebbe impossibile nei limiti di questo scritto esaurire la ricchezza di questi fascicoli ma vorrebbe essere una nota critica “a partire da”, un’esigenza di problematizzazione nata da queste letture.

 

  1. Perché la Francia? Il vivente tra metafisica della vita ed epistemologia storica

Al centro delle riflessioni del XX secolo sulla vita si colloca ovviamente la figura di Canguilhem il cui lavoro filosofico si articola nella convergenza di due vettori: «da un lato come problematizzazione epistemologica di problemi biologici […] dall’altro lato, come riflessione storica sul modo in cui, attorno a questi stessi problemi, ha preso forma la razionalità delle scienze della vita o del sapere medico»[3]. Il suo merito è stato quello di affrontare il problema della conoscibilità della vita prendendo le mosse non da un fondamento puramente scientifico ma neanche aprendo a una – altrettanto semplicistica – metafisica vitalistica che non tenga conto da un lato della storicità del sapere della vita e dall’altro delle definizioni della biologia che permettono di lavorare sulla posizione del vivente all’interno del divenire della realtà nella ricerca di una logica immanente alla vita stessa. Ed è per questo che Canguilhem guarda con lo stesso interesse a François Jacob, André Lwoff e Jacques Monod, vincitori del premio Nobel per la medicina nel 1965, e a Bergson dell’Evoluzione creatrice[4]. La concettualizzazione della vita rimane opaca, però, e manca nel suo compito non perché la scienza o la metafisica non abbiano ancora prodotto un insieme di strumenti adatti alla comprensione ma proprio perché la vita nel suo spessore sembra definirsi proprio attraverso l’impossibilità di una definizione. Il senso profondo della riflessione filosofica di Canguilhem consiste nel portare alle estreme conseguenze questa contraddizione di ragione e vita – e usiamo il termine contraddizione né nel senso hegeliano di produttività e possibilità di sintesi né nel senso kantiano di un’antinomia irrisolvibile ma come tentativo di spostare il punto d’applicazione del sapere filosofico al di fuori della stessa filosofia.

Ed è a partire da questa problematizzazione che è possibile affermare che si ripresenta nella riflessione francese il problema della filosofia di Cartesio. E il problema-Cartesio richiama immediatamente la questione del gesto fondativo della scienza e della soggettività; ed è proprio la relazione tra soggetto di ragione che si definisce nel suo essere conoscente e soggetto vivente che si definisce nel suo essere normativo ad essere un nodo fondamentale del discorso di Canguilhem. Come nota giustamente Cammelli[5] un saggio fondamentale di Canguilhem è Sulla scienza e la contro-scienza nel quale viene mostrato che la ragione umana nel senso cartesiano rappresenta una disciplina che, nel momento in cui falsifica, annienta quella determinata esperienza sviluppatasi dall’errore. Ed è proprio la densità e l’importanza per il vivente dell’errore a segnare questa distinzione tra due immagini dell’umano: il soggetto cartesiano che spacca in due la realtà in soggetto e oggetto attraverso la costruzione di una veridizione soggettiva che matematizza la realtà e il soggetto vivente che ricompone la frattura a partire dalla posizione che il soggetto occupa nel mondo come punto d’intersezione e come possibilità di errore.

La problematizzazione dell’errore è fondamentale per la comprensione dell’esperienza filosofica di Canguilhem e lo è perché permette da un lato di leggere la sua esperienza in continuità con quella di Bachelard e – più in generale – dell’epistemologia storica francese e dall’altro di rendere conto di alcune specificità del vivente.

L’errore sorge nel momento in cui la ragione avendo definito un proprio campo di applicazione riduce ciò che eccede ad errore. La ragione, però, non ha presupposti e un’applicazione a-storica, bensì procede con la forma di un valore o di una norma, che pongono le fondamenta per una ri-sistematizzazione del campo conoscitivo attraverso la costituzione di valori gnoseologici e norme di applicazione al reale; ed è in questo senso che possiamo dire che la ragione è immediatamente una posizione normativa e valorizzante, dunque politica. La questione della razionalità scientifica è che essa pur provenendo da improvvise rotture nell’ambito dell’organizzazione dei saperi, si presenta immediatamente nella sua validità come immutata ed eterna; se la ragione è costruzione di norme e valori e dunque di modelli e metafore, soltanto un’analisi discontinuista può rendere conto della genealogia dei modelli di verità, in quanto mostra il momento di emergenza di un determinato sapere come momento di rottura e taglio nel procedere delle scienze. Nel saggio Un’epistemologia concordataria che Canguilhem dedica a Bachelard vi è una profonda intuizione filosofica che può essere riassunta nell’espressione «l’Essere deve essere plurale»[6] per cui la verità sorge sempre da un conflitto di forze, e la ragione rappresenta appunto il luogo sempre aperto del conflitto tra istanze razionali e scientifiche e istanze irrazionali e contro-scientifiche; ed è forse questo l’insegnamento più importante di Bachelard, il quale ha dato il medesimo peso all’epistemologia e allo studio dell’altra grande dimensione del vivente umano, il sogno; e se però in Bachelard il sogno è pur sempre una sorta di ostacolo e resistenza alla razionalizzazione scientifica, per cui il sogno rimane a-simettrico rispetto al movimento della ragione, in Canguilhem la dimensione scientifica e contro-scientifica si posizionano in un campo immanente di forze. Ma – in questo insieme di riflessioni – va detto che Canguilhem sposta la questione dell’errore dall’ambito epistemologico all’ambito biologico per cui mostra l’assoluta pluralità «ontopoetica»[7] più che ontologica del vivente nel senso di una capacità di produrre norme e valori e dunque di moltiplicare l’essere il quale è sempre prodotto in-stabile più che precedenza logica, prospettiva sulla realtà più che sussistenza e persistenza. L’intuizione bachelardiana di una duplicità dell’umano nel rapportarsi alla realtà diviene in Canguilhem l’unica possibilità di definire la natura del vivente ed è solamente a partire dalla potenza ontopoetica dell’errore che possiamo interrogarci sul vivente e sulla sua relazione con il mondo; allo stesso modo un altro concetto caro all’epistemologo, la malattia, va intesa sempre a partire dalle relazioni che il vivente instaura con l’ambiente e con la propria struttura immanente segnata dalla potenza dell’errore.

La riflessione che in Francia si è sviluppata a partire dalla critica di ogni razionalismo ristretto è da leggersi come una linea evolutiva che permette di inserire nello stesso ambito di problematizzazioni esperienze filosofiche assai distanti e considerate solitamente dissonanti e contrapposte come l’esperienza positivista a partire da Comte e il vitalismo proprio di un Bergson[8]; Canguilhem rappresenta un punto di snodo di queste due tradizioni e la sua riflessione è un’originale impasto di entrambe.

 

  1. Il vivente a partire da alcune esperienze della biologia contemporanea

L’epistemologia storica francese del XX secolo permette anche di pensare le trasformazioni e le nuove sistematizzazioni della biologia contemporanea attraverso la sua stessa metodologia.

Nello studio di Elena Gagliasso[9] si fa una vera e propria archeologia dell’odierna biologia attraverso gli strumenti propri della linea epistemologica che connette Bachelard a Canguilhem a Foucault interpretando e problematizzando la scienza biologica, la quale procede non in maniera lineare nel senso di un sempre maggiore avvicinamento alla “verità” ma attraverso ripensamenti e linee genetiche che si configurano ora come ostacoli ora come strumenti. Ed è in questo senso che il concetto di Bauplan, proprio della Naturphilosophie tedesca del XIX secolo, da intendersi come «piano di composizione generatore di tutte le forme»[10], può essere riutilizzato da Gould e reinserito all’interno del lessico biologico contemporaneo; e lo stesso vale per Geoffroy de Saint-Hilaire, il quale con il suo contributo sulla «chiave relazionale delle parti»[11], è stato rintracciato da Gould come linea genealogica per lo sviluppo della sua teoria dell’ex-aptation.

In particolare è necessario soffermarsi sulla questione del Bauplan: esso «rivisitato come vincolo strutturale, si trasforma da ostacolo in strumento euristico, legittimando, grazie a questa diversa torsione di significato, una consapevolezza che permette il riaffiorare carsico di certe parti delle istanze del pensiero biologico pre-moderno, “sovrasature” di pesi pregressi negativi»[12].

Ma lo spostamento e il ri-posizionamento, in questo caso, in cosa consistono? Gould ritrova tre categorie di vincoli che permettono di pensare la stabilizzazione delle forme viventi: vincoli filetici come eredità della storia remota dell’organismo vivente e che fanno riferimento alla filogenesi evolutiva; vincoli dello sviluppo che fanno sì da un lato che gli stadi precoci dello sviluppo dell’organismo siano meno portati ai cambiamenti e dall’altro che la stessa struttura organica e la relazione tra le parti siano vincolati: tutto ciò fa riferimento all’ontogenesi nel processo di individuazione; vincoli architettonici come materiali sui quali si attua la selezione all’interno di un ambiente dato. Il vincolo (in questa accezione) e il Bauplan hanno caratteristiche simili ma muta completamente la posizione che occupano all’interno del regime discorsivo: il Bauplan appartiene alla visione romantica in cui il tutto è da pensarsi come un “di più” rispetto alla somma delle parti, inerendo nel tutto rispetto alle parti un finalismo deterministico e armonizzante; il vincolo, che – come il Bauplan – può essere letto in chiave simil-deterministica in quanto a partire da questo sarebbe possibile prevedere lo sviluppo o meno di una forma, si connette, invece, con «il criterio più indeterministico che si conosca: la contingenza storica dell’erraticità ambientale e la successiva selezione naturale»[13]. Ma la contingenza erratica e la “evenemenziale” selezione naturale fanno sì che il darwinismo divenga un punto di non ritorno nella pensabilità della natura e dell’umano in quanto, ponendo riflessioni sulle possibilità di conoscenza dell’uomo nei riguardi dei processi naturali, rappresenta – si potrebbe dire – il grande completamento dell’attitudine critica della modernità sulle possibilità della ragione umana.

Questa ricostruzione genetica di alcuni concetti dell’odierna biologia ci riconduce ad un’età aurorale della stessa scienza biologica: la domanda da porsi è come connettere questi modelli interpretativi ripresi da concettualizzazioni pre-darwiniane con la teoria dell’evoluzione.

Secondo Telmo Piovani[14] il problema di fondo del darwinismo, problema intuito dallo stesso Darwin, è come connettere il gradualismo dell’evoluzione adattativa e il funzionalismo da intendersi come continuità progressiva della funzione di un organo; se il problema appena affrontato attraverso la nozione di Bauplan è quello se, con la teoria dei vincoli, non si rischi di reinserire la problematizzazione del determinismo finalistico nell’evoluzione della specie, ora il problema è non reintrodurvi alcun finalismo deterministico nell’evoluzione degli organi complessi e delle forme di individuazione. La difficoltà della teoria di Darwin consiste proprio in questo: espellendo ogni finalismo dai processi naturali, si va incontro ad una difficoltà che è propria degli strumenti conoscitivi umani: ammettere la potenza inspiegabile dell’alea; il problema, dunque, è questo: scindere l’evoluzione dall’orizzonte finalistico. La soluzione di Darwin, secondo Pievani, è data dall’ipotesi della cooptazione funzionale secondo la quale «non esiste un dispiegamento teleologico dell’organismo verso la costruzione di una forma la cui utilità sia solo nel futuro» per cui «gli stadi incipienti di una struttura devono aver recato un vantaggio riproduttivo ai loro possessori, vantaggio che poi è stato “convertito” in un beneficio differente al mutare delle condizioni»[15].

Sono stati proprio Gould e Vrba a riprendere attraverso una ri-posizionamento e un approfondimento la teoria della cooptazione funzionale dando a questa la forma di una teoria che permetta di espellere gli ultimi residui teleologici presenti all’interno (anche) di certi darwinismi contemporanei. Con Gould, come si è già accennato, si apre la questione degli ex-aptations: «gli autori descrissero l’insieme generale dei caratteri definibili come aptations […] dividendolo in due sottoinsiemi: il sottoinsieme dei caratteri plasmati dalla selezione per la funzione che ricoprono attualmente (adaptations); e il sottoinsieme dei caratteri formatisi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione funzionale iniziale, e poi resisi disponibili alla selezione per il reclutamento attuale»[16]. La tesi dell’ex-aptation mostra che «l’impiego adattativo attuale […] di una struttura non implica che sia stata costruita per quello»[17] ed è solamente questo il modo di espellere ogni teleologia e soltanto così si può parlare di «biologia delle potenzialità, più che delle necessità» per cui «gli organismi sono […] il risultato di sequenze di rabberciamenti adattativi a partire dai materiali disponibili»[18]. La teoria dell’ex-aptation permette di arricchire il darwinismo e di ri-vitalizzarlo, approfondendo, in un certo senso, il modo attraverso il quale la natura ama nascondersi.

 

  1. Conclusione. E l’uomo?

Ma a questo punto bisogna chiedersi: e l’uomo? o per meglio dire: e l’anomalia umana? e ancor di più (ripetendo le domande proprie dell’antropologia filosofica): quale è la posizione dell’uomo nel mondo a partire dalla sua anomalia?

Il saggio di Gualandi[19] tenta una risposta a queste domande alla luce delle scoperte della biologia contemporanea e, riprendendo Gould, si interroga sulla questione dell’exaptation e della neotenia. A partire dalla minima differenza che separa l’uomo dallo scimpanzé (circa l’1% del corredo genetico), negli anni ’70 Gould propone (in via ancora “ipotetica” in quanto lo studio del genoma umano era ancora agli inizi) il concetto di eterocronia neotenica: riprendendo studi degli anni ’20 e ’30 di anatomisti e evoluzionisti come Bolk, de Beer, Goldschmidt, Gould afferma che l’uomo si è evoluto dalle scimmie antropomorfe attraverso un generalizzato ritardo nel ritmo di sviluppo; tale ritardo si è rivelato come un vantaggio evolutivo: se da un lato l’uomo è caratterizzato «da una sorta di originario iato sensomotore, da un periodo estremamente lungo di dipendenza infantile e da un gravoso onere di cure parentali» dall’altro si definisce a partire «dalla flessibilità di adattamento ambientale propria ad individui che non hanno ancora raggiunto, o non raggiungeranno mai, la propria definitiva e matura “individuazione”, e che rimangono esposti per una lunga fase sensibile del proprio sviluppo cerebrale alle influenze dell’ambiente esterno, naturale e familiare»[20]. L’importanza di questo insieme di problematizzazioni sta proprio nell’aver posto accanto alla filogenesi evolutiva, un’ontogenesi dello sviluppo, e oggi la biologia evo-devo lavora su questa sintesi, chiedendosi cosa l’evoluzione filogenetica possa spiegare dell’ontogenesi individuale e viceversa. Studi biologici contemporanei, che si basano sullo studio della funzione dei geni dello sviluppo (Hox) i quali determinano il piano organizzativo, il Bauplan nell’accezione contemporanea, che presiede allo sviluppo del corpo, sembrano dare la prova sperimentale alle intuizioni di Gould. Questo elemento di biologia dello sviluppo permette – secondo Gualandi – di pensare la costituzione del cervello umano e delle capacità (del tutto umane) cognitive e linguistiche a partire dall’elemento neotenico in connessione con la teoria dell’exaptation di Gould e Lewontin.

Per exaptation – come si è già detto – bisogna intendere quella strategia evolutiva che consiste nel riadattare strutture preesistenti per nuove funzioni; e Gualandi, richiamandosi all’antropologia filosofica di Plessner e Gehlen, afferma che il linguaggio umano è un caso importante di exaptation che «permette al corpo umano una prestazione più efficace tanto dal punto di vista pragmatico che cognitivo»[21]. E a questo punto che viene fuori la portata filosofica di tutte queste riflessioni: in primo luogo Gualandi sottolinea che nel processo evolutivo si è avuta una dinamica che ha favorito la costituzione di una struttura che permette di fuggire alla costrizione genetica attraverso un rallentamento del processo di individuazione; in secondo luogo ritroviamo la possibilità di ricostruire la genesi del mondo culturale umano attraverso una mutazione exattante.

A questo punto potrebbe sembrare che si stia tentando di dare una spiegazione oggettiva all’attitudine culturale dell’animale-uomo, ma è proprio dall’analisi della struttura neotenica e exattante che è possibile rendere conto dell’anomalia umana: se l’uomo ha una struttura neotenica per cui è particolarmente sottoposto a influenze esterne – ambientali, culturali, simboliche – e se le sue risposte a questo deficit di specializzazione consistono proprio nello sviluppo di un mondo culturale e simbolico (genesi exattante della stessa cultura) «sarà allora altrettanto vero che tra le spiegazioni oggettive e in “terza persona” della scienza e le ricostruzioni intenzionali e in “prima persona” della filosofia, non esiste un’inevitabile antinomia, subordinazione o esclusione reciproca, ma piuttosto una complementarità circolare e comunicativa, che va al di là di una “semplice” metafora o analogia»[22].   

Lo scritto di Gualandi rappresenta, forse, un tentativo di risposta alla domanda che – si potrebbe dire – ossessiona la modernità e ne costituisce l’orizzonte dai tempi di Kant: was ist der Mensch? e se Foucault invita a destarsi dal “sonno antropologico” proprio della modernità, questo non vuol dire altro che la domanda sull’umano rimane sempre opaca e la sua strutturale opacità permette di pensarne e di complicarne il senso e la densità; ma proprio questa opacità fa sì che la concettualizzazione dell’umano a partire dalla (sua) vita sia inscindibile da una questione di gestione politica, sia all’interno di un orizzonte scientifico e tecnocratico-progressivo sia all’interno di un orizzonte religioso ed etico-conservativo; anzi verrebbe da dire che, di fronte alla nozione di vita, il progresso e la conservazione istituiscono un’alleanza inedita nella necessità di gestione politico-amministrativa dell’umano.

 


[1] Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.

[2] Ci riferiamo – e ne consigliamo vivamente la lettura – a «Discipline Filosofiche», XVI, 2, 2006 e «Discipline filosofiche», XIX, 1, 2009.

[3] M. Cammelli, L’errore innato. Note sull’archeologia di Canguilhem, in «Discipline Filosofiche», XVI, 2, 2006, p. 237.

[4] Cfr. G. Canguilhem, Logica del vivente e storia della biologia, ibid., XIX, 1, 2009, pp. 9-18.

[5] Cfr. M. Cammelli, L’errore innato. Note sull’archeologia di Canguilhem, cit., pp. 237-256.

[6] A. Cavazzini, Nota al testo di G. Canguilhem, Un’epistemologia concordataria, ibid., XVI, 2, 2006, p. 33.

[7] G. Canguilhem, Un’epistemologia concordataria, cit., p. 29.

[8] Sulla complessità di questa ricostruzione cfr. in «Discipline Filosofiche», XVI, 2, 2006, L. Fedi, Le critiche al razionalismo ristretto. Un filo conduttore nella tradizione epistemologica francese, pp. 35-54; A. Cavazzini, Razionalità e storia nell’opera di Auguste Comte. Per un’archeologia dell’epistemologia francese, in pp. 75-113; e in «Discipline filosofiche», XIX, 1, 2009, F. Worms, Il problema del vivente e la filosofia del XX secolo in Francia, pp. 61-74.

[9] Cfr. E. Gagliasso, Baupläne e vincoli di struttura: da ostacoli a strumenti, ibid., XIX, 1, 2009, pp. 93-110.

[10] Ibid., p. 98.

[11] Ibid., p. 97.

[12] Ibid., p. 100.

[13] Ibid., p. 102.

[14] Cfr. T. Pievani, Exaptation: la logica evolutiva del vivente, ibid., pp. 137-152.

[15] Ibid., p. 139.

[16] Ibid., p. 142.

[17] Ibid., p. 143.

[18] Ibid., p. 144.

[19] Cfr. A. Gualandi, L’individuazione neotenica umana e la genesi exattante e comunicativa del «senso», ibid., pp. 117-136.

[20] Ibid., p. 119.

[21] Ibid., p. 129.

[22] Ibid., p. 134.

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