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Dall’umano al postumano: incubo o nobile sogno?

Autore


Paolo Sommaggio

Università di Trento

insegna Filosofia del Diritto all’Università di Trento

Indice


  1. Introduzione
  2. I bioconservatori
  3. Il postumano di stato
  4. Il postumano di consumo
  5. I bioinnovatori
  6. Transizioni
  7. Incubo e nobile sogno

 

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S&F_n. 05_2011


Trasumanar significar per verba

non si porìa; però l’essemplo basti

a cui esperienza grazia serba

 

Dante, Paradiso (I, vv. 70-73)

 

  1. Introduzione

La divulgazione scientifica ricorre spesso alla spettacolarizzazione della genetica[1], attraverso una serie di curiose affermazioni tra cui la pretesa scoperta del gene dell'alcolismo, dell'omosessualità e, addirittura, dello shopping compulsivo[2]. Detta impostazione, istituendo relazioni causali dirette tra geni e comportamento umano, è viziata da una “cattiva filosofia”, in quanto ritiene che l'umano si riduca semplicemente a quanto già pre-determinato nel suo genoma. Questo, perciò, è il tema del presente contributo: riflettere brevemente sulle premesse filosofiche della genetica, ovvero sulla considerazione dell’umano come un oggetto (res), come un progetto (actio) o come un principio. Da queste diverse premesse, infatti, deriva un diverso atteggiamento nei confronti della modificabilità del genoma dell’uomo: dai bioconservatori, ai bioinnovatori fino a coloro che tentano di superare il paradigma oppositivo secondo una dialettica della distinzione.

 

  1. I bioconservatori

La prima concezione considera l’umano in termini materici. Secondo i sostenitori di questa filosofia, ciò che caratterizza l’uomo consiste in un oggetto complesso (una res), che ne racchiude gli elementi costitutivi[3]. Il genetista Giuseppe Sermonti conferma la diffusione di questa concezione, secondo cui l’umano sarebbe contenuto tutto nel DNA, nient’altro che nel DNA[4]: un acido che è rappresentabile, secondo Francis Crick e Jim Watson, attraverso il modello della struttura molecolare noto come “doppia elica”[5].

Verso la fine degli anni Ottanta, l’attenzione degli scienziati si è spostata dall’oggetto biologico-materiale a quello informazionale, ossia alla decifrazione e mappatura delle sequenze del genoma umano. Questa operazione, il Progetto Genoma Umano, iniziò nell'ottobre del 1988 con la costituzione della Human Genome Organization (HUGO).

È interessante notare che uno dei promotori del Progetto, Francis Collins, richiese lo sviluppo di un progetto denominato ELSI per cercare di superare le possibili controversie legali conseguenti all'uso di queste nuove conoscenze[6]. Sin da questi primi studi furono chiari i rischi di una possibile deriva ideologica di questa premessa filosofica che sembra, comunque, essere molto seguita.

Eppure, proprio i risultati del Progetto Genoma sembrano smentire questa impostazione: più si procede con l’analisi, più si perde la possibilità di individuare ove risieda l’oggetto ultimativo, poiché esso risulta sempre ulteriore rispetto ai risultati delle analisi.

I bioconservatori, perciò, condividendo la premessa riduzionista che l’umano consista nel genoma, intendono preservare questo “oggetto” da possibili modificazioni germinali considerate sempre in maniera negativa. Le pronunce internazionali, ma anche il diritto italiano, sembrano andare proprio in direzione della conservazione tant’ è che utilizzano la metafora della proprietà, parlando di patrimonio genetico[7].

 

3. Il postumano di stato

Il secondo approccio filosofico è rappresentato dalla seguente equazione: l’umano è l’esito di un progetto (actio). Questa concezione ritiene che l’umano possa essere considerato come uno schema di azione: l’organizzazione di più parti in unità[8]. E qui ha origine forse il più grande dei problemi: la ricerca di un criterio (o modello) per organizzare l’umano, ovvero per raggiungere un nuovo progetto antropologico.

Se i primi studi sull’ereditarietà, come è noto, hanno avuto inizio nel XIX secolo con gli esperimenti di Mendel, è solo con l'inizio del Novecento che gli studi in questo settore si specializzano nella progettazione dell’individuo e della comunità. In questo periodo, l’Europa e gli Stati Uniti assistono al fiorire di entusiastiche società eugeniche finalizzate a colmare, con le loro ricerche, il rapporto tra selezione artificiale e miglioramento della specie umana, privilegiando una prospettiva di intervento diretto attraverso la legislazione degli stati nazionali[9].

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le note commistioni tra l’eugenica e le teorie naziste sulla supremazia razziale sgombrano il campo, nella politica legislativa degli stati, da interventi diretti. Tanto che l’eugenica, forse a causa di gravi implicazioni, muta il proprio nome in genetica umana[10]. Ciò che si tende in genere a non riconoscere è che il regime nazista si servì della eugenica come uno strumento per ottenere una particolare idea di umanità. Credere invece che le ricerche dirette al progresso evolutivo siano un “cattivo patrimonio di cattivi soggetti” è semplicistico e nasconde il fatto che l'eugenica ha continuato a proporre un ideale di “miglioramento” della specie umana ben oltre la fine del regime nazista.

 

  1. Il postumano di consumo

La filosofia secondo cui l’umano viene inteso come progetto è tanto più attuale oggi che la cd. tecnoscienza può fare a meno della politica e della legislazione statale per imporre nuovi modelli antropologici alla società[11]. Sembra, infatti, che la comunità scientifico/tecnologica possa oggi intervenire direttamente nei desiderata del corpo sociale, creandoli e/o modificandoli: in tal modo, attraverso la cd. costruzione sociale dei bisogni, essa aggira il filtro della politica e del diritto selezionando le alternative che poi presenta come preferibili. Così si passa dalla vecchia eugenetica di stato a una nuova eugenetica a base consumistica.

La (pseudo-)scelta del singolo avverrebbe, come per altri prodotti, secondo la soddisfazione di quei desideri che costituiscono la base delle società a cultura consumistica ove i bisogni sono orientati verso particolari opzioni[12]. Potremmo perciò essere di fronte a un progetto di miglioramento che si serve di particolari interventi, quali ad esempio la massiccia diffusione dei test genetici. Sembra, infatti, che la genetica “di consumo”, fornendo test ma non cure, possa indurre il singolo a credere di operare scelte selettive autonome, ma che di fatto a essa appartengono a pieno titolo in quanto finalizzate a trasformare il genere umano.

Appare quindi opportuno denunciare il rischio che, date queste premesse, la genetica possa sviluppare una vera e propria intolleranza alla diversità (o differenza), vista in ogni caso come un errore da eliminare.

Ecco forse il motivo per il quale le organizzazioni internazionali hanno avvertito la necessità di promulgare una serie di statuizioni allo scopo di impedire, anche ai singoli, di intraprendere una strada che culmina nella genetica autoreferenziale, ossia nel suo uso ideologico, che non nasconde le proprie radici eugenetiche.

 

  1. I bioinnovatori

A ben guardare, i progetti sinora evidenziati posseggono un denominatore comune: la tentazione di “miglioramento” della specie umana. Oggi, tramontata una tipizzazione umana legata alla imposizione di una gerarchia tra differenti modelli antropologici, viene da chiedersi quale potrebbe essere il progetto che si auspica per questa nuova umanità. Un nuovo progetto potrebbe consistere, ad esempio, in una maggiore performatività dell’individuo o in una aspettativa di vita prolungata, oppure in una intelligenza superiore al livello medio.

Eppure diversi autori si mostrano critici verso una simile prospettiva: secondo Günther Anders, noto per la sua posizione tecno-scettica, assisteremo a una vera e propria rivoluzione antropologica: dal modello homo faber al modello homo creator[13]. Il nuovo demiurgo, dunque, si ribellerebbe ai propri limiti sino a produrre una sorta di seconda natura, intesa come superamento dell’umano a noi sinora noto[14].

I bioinnovatori, dal canto loro, sono rappresentati dalla cultura cd. trans-umanista.

Si ritiene comunemente che il termine transumano sia stato coniato da Julian Huxley nel 1957 e rappresenta «l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana»[15]. Secondo altri, il termine transhuman (abbreviazione di transitional human) risalirebbe al 1966 e sarebbe dovuto al futurologo Fereidoun Esfandiary, autore, nel 1989, del testo più conosciuto di questo movimento dal titolo Are You a Transhuman?[16].

I transumanisti ritengono che, attraverso lo sviluppo delle biotecnologie e delle nanotecnologie, si possa giungere a una umanità migliorata, che rappresenta il primo passo verso una nuova evoluzione post-darwiniana guidata dalla specie umana stessa. Ottenendo, così, l’eliminazione di quegli aspetti della condizione umana attuale che sono considerati come indesiderabili, tra cui l’invecchiamento e la morte.

La base comune dei transumanisti, per quanto in questa sede ci può essere utile ricordare, è costituita dall’idea che l’umano (e dunque anche il suo genoma) non è una realtà stabile e immutabile poiché non è possibile, in questo stadio evolutivo, reperire un criterio discretivo tra natura e artificio. Essi mirano dunque a una trasformazione radicale della specie homo sapiens: modificazione che segue il carattere esponenziale delle nuove possibilità offerte, soprattutto, dalla sinergia tra informatica e genetica. Questa previsione è confermata da Raymond Kurzweil, il quale ritiene prossima la cd. “singolarità”, ovvero il superamento della intelligenza umana da parte della intelligenza artificiale[17].

 Una forte critica nei confronti di questa concezione proviene dall’americano Francis Fukuyama[18], già presidente del Comitato di Bioetica della Presidenza degli Stati Uniti. La preoccupazione più importante, per costui, è lo spettro di una società illiberale. Sulla base dei principi contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza statunitense, Fukuyama ricorda che gli individui possiedono un valore intrinseco, laddove l’aspirazione del progetto bioinnovatore consisterebbe nella modificazione di questa essenza.

 

  1. Transizioni

Se l’esperimento mentale diretto a individuare quale potrà essere il nuovo modello umano di riferimento appare stimolante, riteniamo che la ricerca di un solo modello antropologico sia ancora troppo legata alla modernità per poter essere davvero attuale. Ritenere che si tratti semplicemente di sostituire un progetto antropologico con un altro è una previsione che deve essere arricchita dalla presenza di un altro dato: l'avvento della postmodernità[19].

Non è qui nemmeno il caso di provare a dare una definizione esaustiva di questo concetto. E' sufficiente, ai nostri fini, ricordare che la postmodernità rompe lo schema moderno: il modello unico viene sostituito da una serie potenzialmente infinita di progetti di volta in volta preferiti in relazione alle contingenze, tanto da far pensare che l’idea stessa di modello di riferimento divenga improponibile. E dunque l’homo creator sembra avere perduto la capacità di prevedere e progettare una nuova forma di esistenza confermando, in parte, alcune perplessità di Anders, soprattutto in tema di effetti imprevedibili delle nuove scoperte. Perciò si verrebbero a costituire tanti tipi di (post)umanità quanti sono i soggetti che hanno la possibilità di accedere a una discendenza “migliorata”[20].

Ciò che accomunerà questi nuovi esseri, frutto di differenti modalità di “miglioramento”, sarà, dunque, il cambiamento. Radicalizzando queste riflessioni, si può giungere a pensare che l'uomo post-umano potrebbe essere caratterizzato da una continua e costante mutazione verso un incessante potenziamento dei suoi caratteri[21].

Ebbene, se questo ragionamento è corretto, ci si deve chiedere in base a quali criteri sarà possibile per un essere umano riconoscere il proprio simile, atteso che la stabilità dei suoi caratteri fondamentali è destinata a perdersi. Radicalizzando ulteriormente questa ipotesi, non è illogico pensare che si arriverà al riconoscimento, e quindi alla tutela sociale e giuridica, solamente di quegli esseri che sono mutanti, ovvero in costante cambiamento. Sembra, dunque, che la progettualità, elemento che caratterizza il contesto razionalistico dell’epoca moderna, possa subire un grave scacco e che, nel suo momento di apoteosi, patisca invece una contraddizione per la quale il suo trionfo si ribalta in una sconfitta. Una sconfitta secondo cui ognuno, data l’impossibilità del riconoscimento dell’altro, diviene un semplice oggetto: il prodotto di una mutazione, tanto costante quanto alienante.

 

  1. Incubo e nobile sogno

La prospettiva che considera l’umano inteso come un progetto potrebbe rivelarsi un incubo caratterizzato dalla violenza in quanto, come ricorda Roberto Esposito, il nobile sogno di organizzare e potenziare la vita potrebbe trasformarsi nell'incubo biopolitico di eliminare il diverso in nome di uno stesso paradigma[22]. Ogni progetto di “nuova” umanità, tanto il più abietto quanto il più filantropico, contiene infatti una pulsione verso la violenta riduzione del singolo allo schema previsto. Francesco Cavalla sottolinea come l’uomo “nuovo” (migliorato) finalmente “liberato” dai propri limiti e padrone di sé «rifiuterà di trovare l’”altro” in qualunque esistenza gli appaia priva anche di uno solo dei caratteri che egli reputa essenziali alla propria soggettività»[23].

Anche Jürgen Habermas sostiene che gli interventi di modificazione genetica potrebbero alterare i rapporti di riconoscimento e quindi la pensabilità stessa di un’etica condivisa. Per evitare questo incubo, anch’egli propone il divieto di modificazione del genoma.

Tuttavia Habermas postula questo divieto al fine di preservare la propria impostazione etica[24]: unicamente nella sua prospettiva, infatti, il riconoscimento dell’altro genera l’agire etico.

In secondo luogo è bene osservare che l’autore si riferisce ai rischi di una eugenica di impianto liberista, ovvero a una eugenica di consumo, in cui l’apparente libertà delle scelte aprirebbe una gamma di possibilità potenzialmente infinita di “progetti postumani”. Habermas sembra riproporre il pensiero di Hans Jonas, secondo cui è realmente necessario stabilire un limite alla trasformazione del genoma umano affinché un ethos sia (ancora) concepibile[25]. Jonas, infatti, ritiene che l’unico criterio-guida per la genetica sia il principio di responsabilità che impone la indisponibilità di ciò che costituisce la natura umana[26]. La responsabilità sarebbe, perciò, quel principio che consente di agire nei confronti del vivente solo in termini conservativi. Come Habermas, quindi, anche Jonas ritiene che nel genoma sia inscritto il progetto del vivente e che l’umano corrisponda a quel progetto.

Tuttavia, proprio il ricorso di Jonas alla espressione principio dischiude la possibilità di enucleare il terzo approccio della genetica nei confronti dell’umano, che sinora è rimasto in ombra. Le biotecnologie, e la genetica in particolare, ci costringono, infatti, a domandarci se le premesse di Habermas e di Jonas siano corrette. È proprio vero che ci troviamo in una società post-metafisica, oppure possiamo sostenere che è tramontato solamente un certo modo di fare metafisica, ovvero di pensare ciò che è oltre i fenomeni, e quindi anche ciò che supera l’umano?

Proprio dal superamento delle contraddizioni contenute negli approcci precedenti si dischiude la possibilità di concepire l’umano come un principio[27]. Sintetizzando, ciò significa considerare la possibilità che l’unità della specie umana non sia solo l’insieme dei modi nei quali la possiamo intendere (o dei progetti che intendiamo proporre o scegliere), ma sia l’insieme di queste modalità più “qualcosa d’altro” che risulta sfuggente, nascosto e che ne custodisce l’intero. Questo modo di pensare è risalente e tuttavia sempre nuovo, in quanto fa emergere, anche attraverso la testimonianza della genetica, che vi è una realtà che ci rende uomini e che sfugge sempre alla possibilità di essere imprigionata in un oggetto o in un progetto determinati.

In questo senso è opportuno ricordare una nozione non contraddittoria di intero, la quale considera, per l’appunto, che esso non è (solo) l’insieme delle sue parti. Allora occorrerà interrogare le scoperte della ricerca genetica senza timori eccessivi per i rischi e i pericoli che potrebbero sorgere ma considerando anche le nuove possibilità che si dischiudono a partire da una riflessione sugli elementi fondativi, ultimativi della natura umana. Tra essi spicca la necessità di pensare che ciò che non è un oggetto o un progetto razionalmente identificabile, e che richiama l’idea di intero, non è negabile (in quanto ogni tentativo in questa direzione è destinato a contraddirsi). Allora, forse, considerare l’aspetto filosofico della genetica si rivela di grande importanza: consente di riscoprire la necessità di pensare che oltre gli oggetti, oltre i progetti vi è un orizzonte che costitutivamente li supera.

Il miraggio che i nuovi profeti del gene vogliono far credere è che, invece, siano un oggetto o un progetto particolari le formule magiche che ci dicono chi siamo: il prezzo di questo inganno è quello, però, di trasformare ogni individuo in uno strumento. Invece nessun altro fuorché il soggetto stesso può realmente conoscersi, anche grazie alle potenzialità della genetica. La genetica, infatti, non offre (se non in casi rari) risposte dirette e immediatamente fruibili ma, come un oracolo, presenta scenari che devono essere rielaborati criticamente dal singolo, il quale rischia di venire travolto da queste informazioni e di procedere a opzioni selettive, funzionali più ad allontanare la difficoltà della scelta che non a realizzare una autentica libertà[28].

Possiamo perciò sostenere che la genetica (o forse la tecnologia biomedica in senso più ampio) sia quel campo dell’esperienza umana in cui si rischia di venire strumentalizzati diventando oggetto di decisioni altrui, ma anche dove si può riuscire a manifestarsi come uomini in senso autentico, ovvero come esseri liberi in grado di trascendere tutte le proprie manifestazioni, tutti i propri progetti. In una sola icastica espressione potremmo affermare che, nel contesto genetico, l’autopoiesi, che pure è necessaria, lascia posto anche all’autotrascendenza.

Il nobile sogno del postumano è, per concludere, questo: ci fa accorgere di una differenza, una distinzione, tra il progetto di sé e ciò da cui questo progetto proviene. Ecco il punto: se la genetica non rifiuta il riduzionismo di chi pensa, contraddicendosi, che l’umano sia un oggetto, o non rifiuta la violenza di chi ritiene, ugualmente contraddicendosi, che esso sia un progetto razionale, si trasforma in ideologia e, perciò, riduce l’uomo a un mero strumento.

Pensare invece l’umano come un principio, che non si esaurisce mai nelle sue determinazioni particolari (tanto oggettive quanto progettuali), impedisce alla genetica di imboccare queste strade contraddittorie e violente. Se questo modo di intendere il rapporto tra umano e post-umano significa “fare metafisica”, allora benvenga questo tipo di filosofia della genetica che ci pungola sempre e nuovamente a interrogare la inesauribilità del problema uomo[29].

Uomo che è differente da ogni sua possibile “immagine razionale”, poiché eccede sempre ogni sua concreta determinazione, in una dinamica di superamento ininterrotto che si pone come un ponte immutabile tra autopoiesi e autotrascendimento. Bioconservatori e bioinnovatori, dunque, partecipano alla edificazione di una cronaca che, in equilibrio tra entusiasta tecnofilia e sospettoso tecnoscetticismo, è epifania di una umanità in rapida transizione verso il proprio Principio.

 


[1] La maggior parte delle informazioni tecnico scientifiche sono tratte da N. Le Dourain, Chimere cloni e geni, Bollati Boringhieri, Torino 2002, in part. la prima parte capp. 1 e 2, alle pp. 23-70.

[2] Vedi S. Rose, L'ascesa del determinismo neurogenetico, in P. Donghi, Il patto con il diavolo, Laterza, Bari 1997, p. 100.

[3] Questa è la prospettiva che caratterizza la sociobiologia, in particolare si veda E. O. Wilson, Sociobiologia: la nuova sintesi (1975), tr. it. Zanichelli, Bologna 1980.

[4] G. Sermonti, Dimenticare Darwin, Rusconi, Milano 1999.

[5]F. Crick - J. Watson, Molecular Structure of Nucleic Acids: A Structure for Desoxyribose Nucleic Acids, in «Nature», 171, 1953, pp. 737-38. Il testo si trova in: http://www.sciencemag.org/.

[6]F.S. Collins, Medical and Social Consequences of the Human Genome Project, in «New Eng. J. Med.», 341, 1999, pp. 28-37.

[7] L’11 novembre 1997, la Conferenza Generale dell’Unesco ha promulgato la Dichiarazione Universale sul Genoma Umano e sui Diritti Umani dove si afferma che il genoma è “patrimonio dell’umanità”.

[8]In questa prospettiva l’intero, l’unicità della vita umana, sarebbe costituito dal criterio con il quale i geni si organizzano in strutture complesse. Questa concezione riprende molti tratti del pensiero di Anassagora. Si veda F. Cavalla, La Verità dimenticata, Cedam, Padova 1996, pp. 89-124.

[9]C. Casonato, Diritto, diritti ed eugenetica: prime considerazioni su un discorso giuridico altamente problematico, in «Humanitas», 4, 2004, pp. 841-856.

[10]Si veda al riguardo A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 246.

[11]M. C. Tallacchini, Scienza, politica e diritto: il linguaggio della co-produzione, in Scienza e normatività. Atti del XXIV Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia del Diritto, Scriptaweb, Napoli 2006, p. 192.

[12]G. Gambino, Il corpo de-formato tra cultura diagnostica e genetizzazione della medicina, in F. D'Agostino (a cura di), Il corpo de-formato. Nuovi percorsi dell'identità personale, Giuffrè, Milano 2002, pp. 39-51, in part. p. 44.

[13] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato (1956), Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[14] Cfr. E. Pulcini, L’«homo creator» e la perdita del mondo, in M. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini, Umano Postumano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori riuniti, Roma 2004, pp. 11-41.

[15] J. Huxley, New Bottles for new Wines, Chatto & Windus, London 1957.

[16] F.M. Esfandiary, alias FM-2030, Are you a Transhuman?, Warnerbooks, London 1989.

[17] R. Kurzweil, The Age of Intelligent Machines, MIT Press, Cambridge 1992; Id., The Age of Spiritual Machines. When Computers Exceed Human Intelligence, New York 2000; Id., La singolarità è vicina (2005), tr. it. Apogeo, Milano 2008.

[18] F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, tr. it. Mondadori, Milano 2002.

[19] In estrema sintesi per postmodernità si intende non solo l’epoca che viene dopo la modernità ma, in un senso più profondo, il suo superamento o il suo compimento. Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.

[20] Vedi S. Cotta, La sfida tecnologica, Il Mulino, Bologna 1968, p.117.

[21] Si veda D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), tr. it. Feltrinelli, Milano 1995. Si veda anche R. Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, Feltrinelli, Milano 2003.

[22] Cfr. C. Fuschetto, Fabbricare l'uomo, Armando Editore, Roma 2004, p. 22. L'autore cita R. Esposito, Biopolitica, immunità, comunità, in L. Bazzicalupo – R. Esposito, Politica della vita, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 126-129.

[23] F. Cavalla, La pretesa indebita alla «società dei perfetti», in E. Opocher (a cura di), La società criticata, Morano, Napoli 1974, pp. 334-346, in part. p. 341 e p. 344.

[24] Si veda A. Nicolussi, Eugenetica e diritto. Il futuro della natura umana tra inviolabilità e indisponibilità, in «Humanitas», 4, 2004, p. 815 e sgg.

[25]Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica (1979), Einaudi, Torino 1990. Si veda anche Id., L’ingegneria biologica: una previsione, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Bologna 1991, pp. 221-256.

[26]Si veda H. T. Engelhardt Jr., La responsabilità come principio guida per le biotecnologie: riflessioni sulla fondazione dell’etica normativa di Hans Jonas, in «Ragion Pratica», 27, 2006, pp. 477- 491.

[27]La nozione di principio che qui intendo utilizzare è mutuata da Francesco Cavalla, in La Verità dimenticata, cit., pp. 17-18. Analogamente, ci sembra, Hans Jonas utilizza il concetto di responsabilità: essa caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) tutte le scelte che potrebbero avere ripercussioni sulle generazioni future: si trova in ciascuna di esse determinandole in unità.

[28] Su questo tema, mi sia permesso rimandare a P. Sommaggio, La consulenza gen(etica). Nuovi miti, nuovi oracoli, libertà della persona, Franco Angeli, Milano 2010.

[29]«A differenza della macchina, l’uomo cerca il criterio del proprio giudizio valutativo al di là del prodotto, anche quando si tratti di produrre se stesso», S. Cotta, La sfida tecnologica, cit., p. 114.

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