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Da “qualcosa” a “qualcuno”: il rapporto uomo-animale e gli esseri senzienti

Autore


Barbara de Mori

Università degli Studi di Pavia

insegna Bioetica animale e Bioetica veterinaria e dirige il Corso di Alta Formazione “Bioetica, benessere animale e professione medico veterinaria” all'Università degli Studi di Pavia

Indice


  1. PIG 05049 e il rapporto uomo-animale
  2. Scienza ed etica di fronte alla sensitività animale: una vicenda ancora irrisolta
  3. La sensitività animale
  4. Il punto di vista dei soggetti di una vita
  5. Sviluppi e prospettive: da “qualcosa” a “qualcuno” attraverso la nuova etica per gli animali

 

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S&F_n. 07_2012


Il fatto che gli animali inferiori siano mossi dalle medesime emozioni che muovo noi umani è così chiaro che non sarà necessario tediare il lettore con molti dettagli.

Darwin, L’origine dell’uomo

 

 

  1. PIG 05049 e il rapporto uomo-animale

PIG 05049 è uno dei tanti animali – in questo caso un maiale – che ha attraversato la catena dell’allevamento industriale. Ma la designer olandese C. Meindertsma ne ha seguito le sorti anche dopo la macellazione, attraverso uno studio durato tre anni lungo le infinite vie che oggi la tecnologia e le scoperte scientifiche rendono praticabili. Meindertsma, con precisione e rigore scientifico, ha tracciato l’intero percorso della filiera in cui sono state immesse le parti ricavate da PIG 05049, fornendo documentazioni e quantità precise per ogni utilizzazione[1].

PIG 05049 è così diventato vernice per pareti, collagene per i trattamenti cosmetici, collante per ceramiche, componente per caramelle gommose, pellicole fotografiche e carta da parati. PIG 05049 è divenuto quindi non solo bistecca o protesi cardiaca salvavita, ma anche oggetto per le più disparate attività della nostra vita più o meno quotidiana, di cui non abbiamo quasi o nessuna consapevolezza.

Anche di questo si compone il rapporto uomo-animale oggi, un rapporto a sua volta inserito nel contesto della relazione che si è instaurata con gli oggetti che ci circondano e che utilizziamo nell’era della tecnica. In questa relazione i processi e i meccanismi che abbiamo creato sembrano sfuggire sempre più a uno sguardo d’insieme e alla nostra consapevolezza, in un complesso ingranaggio in cui scienza ed etica, tecnologia e responsabilità non hanno ancora definito a pieno i loro rapporti. E quando ci soffermiamo innanzi alla vita animale, interrogandoci sulla nostra relazione con gli – altri – esseri senzienti, questi rapporti si svelano in tutta la loro fragilità.

 

  1. Scienza ed etica di fronte alla sensitività animale: una vicenda ancora irrisolta

Se per Darwin era ovvio che gli animali – per lo meno la maggior parte – fossero senzienti, per la comunità scientifica che a vario titolo si è occupata della vita animale, sino a tempi assai recenti la sensitività animale è stata – ed è – cosa tutt’altro che ovvia. Come spiegare questo fatto? Rigettando il pensiero darwiniano o ponendo in questione il rigore e l’obiettività della ricerca scientifica che lo ha seguito?

Bernard Rollin, University Distinguished Professor alla Colorado State University e padre dell’Etica Veterinaria, ha dedicato l’intera sua vita professionale, come egli stesso afferma, a occuparsi del rapporto tra scienza ed etica. Così scrive nella Prefazione al suo Science and Ethics, ripercorrendo con la memoria il tempo:

In un certo senso, tutta la mia carriera lavorativa può essere vista come un tentativo di chiarire la legittimità del ruolo dell’etica nel dominio della scienza, a livello sia teorico sia pratico[2].

 

E così prosegue:

Come “difensore degli animali”, impegnato a raggiungere il consenso sulle problematiche relative all’impiego degli animali nella ricerca scientifica, ho avuto un’opportunità unica per testare la teoria nella pratica e per confrontarmi quasi quotidianamente con gli scienziati sulle questioni etiche[3].

 

In questo lungo percorso, durante tutta la sua carriera lavorativa, ciò che Rollin ha ritenuto fosse indispensabile prima di tutto, per incorporare legittimamente l’etica nella scienza, era di mettere a nudo quel meccanismo che ha permesso di ignorare, fino a gran parte del Novecento, l’importanza del riconoscimento della consapevolezza animale come un legittimo oggetto di studio per la ricerca scientifica.

Questo meccanismo lo ha individuato, più di tutto, nell’affermazione del positivismo e del comportamentismo come correnti di pensiero in grado di dare vita a una vera e propria ideologia scientifica, volta a negare la plausibilità di qualsiasi evidenza in merito alla consapevolezza animale e quindi in merito alla possibilità di riconoscere, tra le altre cose, segni di dolore e sofferenza negli animali.

L’ideologia scientifica si è contrapposta al “senso comune ordinario”, al senso comune diffuso tra le persone nella loro vita quotidiana: gli scienziati, letteralmente, si sono svestiti dei panni ordinari e del buon senso comune e hanno aderito all’ideologia scientifica.

Nei loro panni “ideologici” gli scienziati hanno negato evidenza scientifica alle più comuni manifestazioni di sensitività e consapevolezza negli animali, evitando così di porsi qualsiasi interrogativo di carattere etico in merito al rispetto degli animali e del loro impiego, di fronte all’oggettiva negazione scientifica dell’esistenza di qualsiasi manifestazione, ad esempio, di dolore e sofferenza.

La riappropriazione, come l’ha chiamata Rollin, del senso comune ordinario, a partire dalla metà degli anni Settanta, ha rappresentato un passaggio cruciale per cambiare questa situazione[4]. La ricerca scientifica ha iniziato a occuparsi in maniera legittima di quelle capacità che il senso comune ordinario da sempre ha attribuito agli animali utilizzati abitualmente nei più diversi ambiti, a partire dalla capacità di essere consapevoli di ciò che accade loro.

Questo ha dato vita a un percorso, di cui stiamo ancora assistendo gli sviluppi, che non può che portare a un miglioramento della scienza stessa, oltre che del trattamento degli animali coinvolti.

Un tale miglioramento, in primo luogo per chi si occupa di animali (siano essi ricercatori, biologi, medici veterinari), passa inevitabilmente attraverso l’educazione all’etica. Ogni impiego degli animali dotati di sensitività – gli esseri senzienti – pone interrogativi etici che è necessario comprendere e sapere affrontare.

Diversi studiosi si sono occupati di riflettere analiticamente su questa questione. M. J. Reiss, dell’Istituto di Educazione dell’Università di Londra, ha posto alcune domande specifiche. Si è chiesto, ad esempio, «perché gli scienziati dovrebbero studiare l’etica» e ha risposto individuando diversi fattori, tra cui il fatto che studiare l’etica può accrescere la sensibilità individuale – “non ci avevo mai pensato prima da questo punto di vista” è spesso la reazione degli scienziati posti di fronte alle sollecitazioni etiche -; oppure il fatto che tramite questo studio è possibile accresce la competenza etica di chi si occupa di scienza e quindi la capacità di riconoscere le questioni etiche che si pongono; o ancora, il fatto che tramite l’educazione è possibile migliorare la capacità di giudizio e di argomentazione, aumentando, in tal modo, anche la percentuale di scelte morali corrette[5].

Allora, si chiede sempre Reiss, che tipo di studio dell’etica dovrebbero affrontare gli scienziati?

Prima di tutto, egli afferma, l’etica che approfondisce le questioni etiche fondamentali, a prescindere dalla loro rilevanza per chi si occupa di scienza. Formando i giovani durante il periodo universitario e poi garantendo una formazione continua sui temi etici durante gli anni di vita professionale, l’acquisizione progressiva di una competenza etica permette, ad avviso di Reiss, di comprendere e giudicare in maniera appropriata sia le questioni che emergono in maniera specifica nel campo scientifico sia le questioni incorporate nei codici etici delle professioni.

Dato infatti – scrive sempre Reiss – il continuo aumentare di nuove questioni etiche che gli scienziati devono affrontare, e dovranno affrontare nel futuro, è particolarmente importante fornire tramite l’educazione quegli strumenti che permettano di elaborare in maniera autonoma l’analisi e il giudizio etico via via che nuove situazioni si propongono. Dopo tutto, dieci anni fa ben poche questioni etiche venivano affrontate sull’etica degli xenotrapianti o sulla clonazione terapeutica. Tra dieci anni vi saranno sicuramente nuove e inimmaginabili questioni etiche su cui gli scienziati dovranno esprimersi[6].

 

Ma quando è avvenuta quella che Rollin ha chiamato «riappropriazione del senso comune ordinario»?

Anche dopo gli sviluppi dell’etologia classica, è necessario attendere sino agli anni Settanta del Novecento e la comparsa di un nuovo indirizzo di studi come l’etologia cognitiva per iniziare a osservare cambiamenti significativi. Inaugurata con la celebre conferenza che D. Griffin tenne a Parma, in Italia, nel 1975, sugli stati soggettivi animali (e con la pubblicazione del suo libro Menti animali, del 1976), l’etologia cognitiva apriva finalmente la strada per riconoscere in Darwin il primo cognitivista aneddotico e il primo ad aver posto le basi anche per l’attuale etologia comparata.

All’insegna di questo processo di riappropriazione e del senso comune e del rapporto tra scienza ed etica, negli ultimi decenni la discussione attorno alla questione degli stati soggettivi animali ha catalizzato sempre più l’attenzione dei ricercatori e degli scienziati del comportamento. Anche se non ha portato a una qualche soluzione unanimemente condivisa, la discussione ha però prodotto una volontà crescente di impiegare metodi rigorosamente scientifici per giungere, in qualche modo, a un suo chiarimento, allo scopo non solo di arricchire le conoscenze, ma anche di promuovere il miglioramento delle condizioni di trattamento degli animali.

In questa prospettiva, il ricorso al termine “senziente” – progressivamente comparso anche in un numero crescente di dettati legislativi – rappresenta in primo luogo il tentativo di rendere, per così dire, operativa la discussione sugli aspetti soggettivi implicati nella tutela degli animali, incorporando nella ricerca e nella gestione della vita animale anche il sentire comune e le richieste dell’opinione pubblica.

 

  1. La sensitività animale

Senzienti sono gli animali in grado di provare, cioè di sentire, una gamma di stati soggettivi che vanno dalle emozioni, alle percezioni alle sensazioni e in grado, in misura variabile a seconda delle specie coinvolte, di averne consapevolezza e quindi di farne esperienza. Sensitività, afferma J. Webster, professore emerito di benessere e gestione animale all’Università di Bristol, ha a che fare con i «feelings che contano»[7], i feelings cioè di cui l’animale ha in qualche modo consapevolezza, dato che, a partire dalle emozioni, gli organismi viventi – compresi gli esseri umani – manifestano anche tutta una gamma di reazioni agli stimoli interni ed esterni che è non consapevole, è inconscia.

Cosa significa il termine feelings? Per comprendere la complessità che caratterizza la sensitività come caratteristica saliente di un numero elevato di organismi viventi è importante tradurre il termine feelings conservando la ricchezza di significato che lo contraddistingue. Feelings include infatti una gamma diversificata di stati soggettivi e non solo le sensazioni, per cui tra l’intera gamma delle reazioni agli stimoli interni ed esterni di un organismo, i feelings che contano saranno le emozioni, le sensazioni, le percezioni in qualche modo consce, di cui, come si è detto, l’organismo ha una qualche forma di consapevolezza.

Avere consapevolezza, se pure in modi diversi e diversificati, dei propri feelings può determinare prima di tutto uno stato di soddisfazione oppure di disagio e sofferenza e ciò comporta immediate e rilevanti ricadute non solo sul piano gestionale, ma anche sul piano etico. Se gli animali, infatti, possiedono esperienze soggettive e abilità mentali in continuità con le nostre, ne consegue, ad esempio, che possano sperimentare forme di sofferenza non meramente collegate alle sensazioni fisiche di disagio, ma di natura complessa e influenzate dalle diverse condizioni psicologiche che, se pure in misura differente, vengono sperimentate anche dall’uomo. La sofferenza, anzi, per un animale non dotato delle nostre capacità razionali, non in grado quindi di avere, tra le altre cose, capacità di previsione a lungo termine, ad esempio sulla possibilità che la sofferenza abbia un termine, può essere avvertita con maggior intensità e rappresentare tutto ciò che è presente all’individuo in relazione alla sue specifiche capacità di consapevolezza.

È prima di tutto la crescente e ineludibile responsabilità etica di fronte a questo a richiedere un impegno nuovo nelle ricerche e nelle pratiche relative al trattamento e al benessere animale, in cui sempre più la sfida data dallo sguardo sulla sfera della soggettività divenga una ricchezza e un progresso e non un ostacolo alla gestione degli animali.

Certo è che le difficoltà che ancor oggi si ritrovano nella comunità scientifica e tra gli addetti ai lavori circa la possibilità di riconoscere sensitività e vita mentale agli animali si devono prima di tutto al pesante influsso esercitato dall’imporsi del positivismo, a partire dalla fine dell’Ottocento. Dopo Darwin infatti, nonostante la forza prorompente della sua ipotesi continuista e gradualistica, prevalse, per lo più, un atteggiamento di rifiuto e di negazione della possibilità, sulla base dell’osservazione scientifica, di riconoscere agli animali stati mentali soggettivi e di poter dunque indagare i contenuti della “scatola nera”. Secondo il positivismo, la scienza ha a che fare con fatti empirici e verificabili e tutto ciò che non è accertabile oggettivamente non è scientifico.

A lungo – perlomeno sino alla metà del Novecento – soprattutto per effetto dell’influenza esercitata dal positivismo, l’importanza di Darwin e del suo metodo di indagine della vita mentale animale è stata trascurata o negata. Con il positivismo, inoltre, ha trionfato in psicologia il behaviorismo, la linea di pensiero che più di ogni altra ha portato a relegare come non verificabili le questioni relative alla coscienza e agli altri stati soggettivi negli animali e a bollare come non scientifico l’approccio darwiniano. Neppure la comparsa dell’etologia classica, con i lavori di K. Lorenz e di N. Tinbergen, ha modificato la prospettiva sulla questione degli stati soggettivi animali. Lo stesso Tinbergen ad esempio, anch’egli come Lorenz influenzato dal behaviorismo, aveva suggerito di non occuparsi degli stati soggettivi animali, poiché, non essendo osservabili in maniera oggettiva, la domanda sulla loro esistenza non poteva ricevere alcuna risposta.

Anche il rapporto tra scienza ed etica è stato segnato da un identico destino, anzi è proprio dall’idea positivistica secondo cui la scienza sarebbe “libera” dai valori – science is value free – che hanno preso origine le varie posizioni che hanno condizionato lo studio della vita animale.

Certo è che, nei vari modi in cui viene definito, il termine senziente conserva diverse ambiguità. Come osserva anche M. Stamp Dawkins, zoologa di Oxford e tra i pionieri nella ricerca sugli stati soggettivi animali, a dispetto dei modi molto chiari in cui ne ha parlato Darwin, riconoscere sensitività agli animali rimane un problema assai arduo – forse il problema più arduo con cui deve confrontarsi la biologia – ed è necessario impegnarsi con estrema serietà per risolverlo, prima di tutto nei confronti delle posizioni più scettiche, se veramente vogliamo rispettare gli animali e fare in modo che “la loro voce venga udita”[8].

 

  1. Il punto di vista dei soggetti di una vita

I feelings, in quanto stati soggettivi, non sono direttamente osservabili e – questo è importante – non potrà mai essere accertato in via definitiva che cosa un individuo (anche umano) sia in grado di provare e dunque se veramente sia un essere senziente. Tuttavia, nella valutazione del trattamento e del benessere animale non è necessario determinare cosa esattamente un essere vivente stia provando e sperimentando. Per poter valutare se le sue condizioni di vita siano buone o no è infatti sufficiente avere indicazioni sul tipo e sull’intensità delle esperienze che il soggetto in questione viene sperimentando. L’approccio dei feelings così, sin dalle sue prime formulazioni, ha posto il problema di elaborare dei metodi per avere indicazioni “indirette” sugli stati soggettivi animali. Come è possibile “ascoltare la voce animale”?

Stamp Dawkins, nell’ambito della ricerca applicata al benessere animale, è stata tra i pionieri nell’identificare metodi per rispondere a questi interrogativi: i suoi studi sui test di preferenza e motivazione, sulla possibilità di creare le condizioni affinché gli animali possano “dirci”, in maniera indiretta tramite il comportamento, che cosa vogliono, hanno aperto una prospettiva nuova in tema di indagine del comportamento animale, in cui si cerca di focalizzare l’attenzione sul “punto di vista” dell’animale, una via d’indagine privilegiata per far sì che gli esseri senzienti possano divenire “soggetti della propria vita”.

Con l’espressione “soggetti di una vita”, Tom Regan, filosofo dei diritti degli animali e tra i padri del pensiero animalista contemporaneo, intende gli esseri che, in qualche modo (secondo gradazioni diverse, ma lungo un percorso di continuità evolutiva), sono consapevoli di quanto accade loro. Gli esseri senzienti, dunque, in grado di percepire soddisfazione e piacere o dolore e sofferenza e capaci di fare esperienza di questo, possono essere considerati soggetti di una vita. Gli esseri che sono consapevoli, in qualche modo, di quanto accade loro sono soggetti di una vita perché «quel che succede loro è rilevante per loro, indipendentemente dal fatto che ciò importi o meno ad altri»[9].

L’espressione, come si vede, è ricca di potenzialità e può essere utilizzata anche al di là del richiamo ai diritti degli animali. Anziché spingersi ad affermare, come fa Regan, che i soggetti di una vita sono titolari di diritti in quanto dotati di un valore intrinseco, è possibile mantenere il nucleo originario della nozione e innestarla in un quadro di comprensione della sensitività che sia in funzione della discussione sul benessere animale. Tale nozione si esprime infatti nell’idea che gli esseri in grado di essere soggetti della propria vita avranno una vita che potrà essere migliore o peggiore per loro, dal loro punto di vista, a prescindere da cosa ne pensiamo noi. Se un animale, dunque, è in grado di sperimentare sofferenza o soddisfazione (e lo evidenzierà tramite le risposte comportamentali e le reazioni somatiche, vegetative e neurovegetative) la sua vita sarà differente dal suo punto di vista. E per valorizzare il punto di vista dei soggetti di una vita è necessario, in qualche modo, porsi dal “loro” punto di vista.

I test di preferenza tentano di tradurre operativamente questo intento. Essi pongono al centro dell’attenzione del ricercatore e dell’osservatore che cosa vogliono gli animali, offrendo loro l’opportunità di esprimere preferenze e motivazioni tramite le risposte comportamentali. Uno dei primi tentativi scientifici di indagare ciò che gli animali desiderano in relazione all’ambiente in cui vivono fu fatto dallo zoologo di Oxford Homan Thorpe negli anni Sessanta del Novecento, il quale aveva osservato che alcuni animali selvatici posti in cattività mostravano di preferire la protezione ambientale, la sicurezza e la disponibilità di cibo alla vita selvatica. Thorpe aveva cioè rilevato che gli animali erano in grado di fare una scelta sulla base di criteri logici, offrendo così lo spunto per approntare dei test di scelta.

Nel corso degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, l’impiego dei test di scelta si diffuse principalmente allo scopo di identificare le preferenze degli animali in ambiente confinato. Il principale aspetto di debolezza di questi test era però dato dal forte condizionamento determinato dalle circostanze di vita e ambientali sui risultati identificati: le esperienze pregresse, le condizioni del momento in cui viene effettuato il test e gli stati emozionali correlati alle scelte portano gli animali a scegliere tendenzialmente l’opzione meno avversa, anziché a esprimere le proprie preferenze di lunga durata. Col tempo, questo tipo di test è stato per lo più abbandonato o, al più, utilizzato unicamente per discriminare tra molteplici possibilità.

L’introduzione, a partire dagli anni Ottanta, dei criteri “economici” – sul modello delle ricerche attorno alle richieste dei consumatori – negli studi sul benessere animale da parte di Stamp Dawkins ha determinato cambiamenti di vasta portata nell’approccio allo studio delle preferenze animali. Anziché misurare gli effetti avversi delle condizioni di confinamento, gli animali vengono posti nella condizione di scegliere riguardo all’accesso ai beni e alle risorse, avendo a disposizione un budget limitato ed elevando via via i “costi” – ad esempio in termini di tempo ed energia – per ottenere un determinato bene.

In tal modo, gli studi hanno evidenziato che gli animali si comportano come “consumatori” che agiscono in base a criteri di razionalità strategica (per analogia con l’ambito umano, secondo il principio della domanda e dell’offerta e dell’ottimizzazione delle risorse), rinunciando via via ai beni “voluttuari” a favore dei beni ritenuti più essenziali, permettendo così ai ricercatori di stilare liste di priorità relativamente alle preferenze espresse nelle diverse circostanze.

Gli studi di Stamp Dawkins pertanto, oltre a inaugurare un approccio allo studio del benessere a partire dal punto di vista dell’animale, hanno permesso altresì di incorporare nella valutazione delle preferenze la loro correlazione con il grado di motivazione – identificata operativamente come la tendenza a esprimere un dato comportamento, ma intesa nella sua essenza come espressione dell’intensità del desiderio sotteso al comportamento. Gli originari test di scelta sono stati così trasformati in test in grado di porre in evidenza gli stati soggettivi degli animali relativamente ai loro bisogni, alle loro aspettative e alla percezione delle condizioni effettive di vita.

 

  1. Sviluppi e prospettive: da “qualcosa” a “qualcuno” attraverso la nuova etica per gli animali

Secondo questo percorso di approfondimento, che sempre più vede mettere a punto metodi di studio del comportamento degli animali focalizzati sul loro punto di vista, sono stati chiamati in causa anche concetti come quello di individualità o di “personalità” animale. Se per temperamento si intende solitamente l’insieme delle tendenze che, interagendo con l’ambiente, costituiscono la base biologica per lo sviluppo della personalità, comprendiamo come nella definizione di una personalità animale entrino in gioco sia le reazioni alle dinamiche ambientali, sia il substrato genetico su cui tale quadro si innesta. Personalità animale, pertanto, può significare l’insieme dei tratti risultanti da una sintesi tra dotazione genetica ed esperienza di interazione con le variabili ambientali.

Si tratta di una definizione semplificata, in cui vengono trascurate altre variabili, come la storia personale o le motivazioni, variabili che solitamente entrano in gioco in una definizione riservata all’ambito umano. Per il contesto animale, tuttavia, il riferimento a un insieme di tratti caratteristici rappresenta una via pratica per rendere misurabile e in qualche modo oggettivabile l’idea che gli animali siano dotati non solo di un temperamento, ma anche di una specifica personalità.

Parlare di personalità animale, al di là delle sfumature nelle definizioni, ci permette di tracciare una via privilegiata per uno sguardo “dall’interno” del mondo soggettivo animale, tramite l’identificazione di un profilo che ci dia informazioni sui modi in cui emozioni, percezioni e cognizioni individuali entrano in gioco nelle circostanze in esame.

Gli animali osservati, lungo questa via, smettono, in qualche modo, di “avere” un comportamento, per divenire degli “agenti” di comportamento. Divengono soggetti senzienti che esprimono un determinato comportamento secondo modalità specifiche e differenziate che caratterizzano un preciso linguaggio corporeo, il quale esprime lo stato emotivo del soggetto in una certa circostanza e in un dato ambiente.

Certo, interpretare gli animali, genuinamente, come individui dotati di personalità propria rischia di avere un profondo effetto sul modo in cui li percepiamo. Gli animali di cui ci serviamo smetterebbero di essere qualcosa – organismi o sistemi complessi di sopravvivenza – per diventare qualcuno. E questa è la sfida che la nuova etica per gli animali propone alla scienza e alle nostre coscienze.


[1] Cfr. C. Meindertsma, PG 05049, Flocks 2007.

[2] B. Rollin, Science and Ethics, Cambridge University Press, New York 2006, p. XI.

[3] Ibid.

[4] Cfr. B. Rollin, Il lamento inascoltato, tr. it. Sonda, Casale Monferrato 2011.

[5] Cfr. M.J. Reiss, Educating Scientists About Ethics, in J. Turner, J. D’Silva (eds.), Animals, Ethics and Trade. The challenge of Animal Sentience, Earthscan, London 2006, p. 55.

[6] Ibid., p. 66.

[7] J. Webster, Animal Sentience and Animal Welfare: What is to Them and What is to Us?, in «Applied Animal Behaviour Science», 100, 2006, p. 1.

[8] Cfr. M. Stamp Dawkins, Through Animal Eyes: What Behaviour Tells Us, ibid., p. 9.

[9] T. Regan, Gabbie Vuote, tr. it. Sonda, Casale Monferrato 2008, p. 92.

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