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Conoscenza ed empatia. L’animalità e il disagio dell’antropocentrismo

Autore


Silvia Caianiello

“Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno” (ISPF -CNR)

Primo Ricercatore presso l’“Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno” (ISPF), del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), sede di Napoli

Indice


  1. Disagi
  2. Il ritorno della mente animale
  3. Scienza ed empatia

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S&F_n. 07_2012


  1. Disagi

La panflettistica insorta contro l’Origine dell’uomo di Darwin nel 1871, con il suo corredo di feroci vignette raffiguranti la bestialità dell’autore stesso dell’opera, ci ricorda quanto impervio sia stato il percorso del riconoscimento dell’animalità dell’uomo: una delle devastanti ferite narcisistiche inferta, secondo Freud, all’umanità dallo sviluppo della scienza[1].

Nel volume Il disagio dell’antropocentrismo, un titolo non a caso freudiano, Gary Steiner ha tratteggiato efficacemente le principali declinazioni dell’antropocentrismo nella cultura occidentale[2]. Il suo affresco evidenzia la continuità soggiacente alle diverse strategie di distanziamento che hanno caratterizzato i paradigmi filosofici dominanti. Sia la linea che da Aristotele agli Stoici, ad Agostino e Tommaso a Cartesio sancisce una differenza di natura tra l’uomo e gli animali, che quella che ravvisa piuttosto una differenza di grado, come nella tradizione empirista e poi utilitarista, appaiono coese nella costruzione del grand récit di un dominio dell’uomo sul mondo naturale, che legittima la sua subordinazione a fini e interessi esclusivamente umani.

La ricostruzione di Steiner, pur attenta alle voci dissonanti nel grande affresco del pensiero occidentale (come Plutarco, Montaigne, Schopenhauer), arriva a esiti persino più estremi del provocatorio articolo scritto da Lynn White nel 1967, agli albori del movimento ambientalista. Se White ammetteva all’interno del pensiero cristiano l’eccezione dell’“animalismo” di San Francesco, Steiner mostra che neppure esso resiste all’agguato dell’interpretazione allegorica[3]. Bastano, d’altronde, episodi recentissimi, sulla nostra scena nazionale, come l’esternazione di don Antonio Mazzi contro la beneficienza devoluta alle associazioni animaliste invece che per scopi umanitari[4], a renderci sensibili alla tesi di Steiner che l’animalismo non può radicarsi nella tradizione cristiana senza accettare di stravolgerla.

Un filo ininterrotto sembra così caratterizzare la scala ascensionale del valore nel processo della sua secolarizzazione in occidente: dalla configurazione teologica, che muove dal corpo allo spirito, a quella sempre più naturalistica che divide l’animazione meramente meccanica dalla triade linguaggio-ragione-coscienza nel mondo post-cartesiano.

Tutto sembra indicare, insomma, che è un fenomeno qualitativamente nuovo per il mondo occidentale, quello che a partire dai movimenti di liberazione animale degli anni ’70 ci convoca con intensità crescente a estendere «l’impronta della compassione»[5] al vivente non umano, e convocarlo nella sfera dei diritti. Un fenomeno inedito, come lo è il disagio dell’antropocentrismo sotto il peso crescente di una responsabilità dalle inusitate proporzioni planetarie – ma che, nel rapporto con il vivente non umano, sembra assumere specificamente gli aspetti di una colpa. Una colpa che attiene al lato meno patente dell’antropocentrismo nella rappresentazione degli animali non umani: quello di ridurre l’animale a specchio inquietante di un’umanità denudata, facendo della difettività la sua essenza.

Più che in altre declinazioni correnti della sensibilità ecologista, dove l’urgenza delle considerazioni bioetiche consegue dalla necessità di fondare dei criteri normativi in risposta al trauma dell’insostenibilità ambientale dei modelli di sviluppo vigenti[6] – la questione animalista si è posta difatti sin dall’inizio come un problema squisitamente morale, di natura fondamentalmente affine al razzismo, al sessismo, e alle altre strategie di discriminazione dell’alterità: la colpa di aver mistificato la differenza in difettività.

Tuttavia, nel rivolgimento di prospettiva che ha consentito di restituire la dignità di altro all’animale non umano, l’influsso del pensiero scientifico è stato potente.

 

  1. Il ritorno della mente animale

Un punto di convergenza sostanziale nel variegato panorama del dibattito sullo statuto etico degli animali è l’attribuzione a essi di una “mente”, una forma di soggettività che, per quanto variamente articolata, li abilita, come enfatizzato nel movimento degli animal rights, a essere titolari di alcuni diritti fondamentali[7].

La biforcazione remota che ha reso possibile questo mutamento radicale nella concezione dell’animale si colloca evidentemente nella spinta impressa alla naturalizzazione dell’uomo da Darwin, che aveva scioccato il mondo vittoriano attribuendo agli animali non solo capacità cognitive della stessa natura di quelle umane, ma anche un vero e proprio senso estetico, e ponendo il senso morale umano in un’unica genealogia con gli istinti sociali animali[8]; un’apertura sostenuta ancora dalla prima psicologia evoluzionistica[9].

Ma la svolta esplicita verso la considerazione scientifica della soggettività animale è assai più recente, e non a caso coeva con la genesi del movimento di liberazione animale promosso. Nel 1976, l’anno successivo al celebre manifesto di Peter Singer, Donald Griffin lanciava infatti il problema della “consapevolezza” (awareness) animale, ponendo le basi per il programma di ricerca dell’etologia cognitiva: lo «studio empirico, evolutivo ed ecologico delle menti animali»[10].

Lo studio della mente animale fu infatti vittima, come e più dello studio delle strutture cognitive umane, della rivoluzione metodologica operata dal comportamentismo. La scelta di circoscrivere l’ambito dell’indagine scientifica al solo comportamento osservabile aveva come intento non secondario di allontanare l’ingerenza dell’antropomorfismo; ma anche questa istanza puramente metodologica poteva occultare posizioni di principio svalutative, come dimostra il fatto che, per il padre del comportamentismo John Watson, operazioni mentali come il ragionamento e l’immaginazione restassero subordinate alla comparsa del linguaggio, conformemente al paradigma cartesiano[11].

Nonostante le scoperte della psicologia della Gestalt, che a partire da Köhler aveva dimostrato le elevate capacità di problem solving delle scimmie antropomorfe[12], anche l’etologia classica di Lorenz e Tinbergen escluse dall’indagine gli stati mentali animali. L’ostacolo principale non risiedeva soltanto nell’adesione all’ethos scientifico comportamentista, ma anche e soprattutto nella differenza neurofisiologica che faceva apparire impenetrabile la percezione soggettiva del loro mondo-ambiente (Umwelt): una visione “monadica” che risaliva al pioniere dell’etologia, Jakob von Uexküll. L’alterità della mente animale, sebbene non più difettiva come per certi versi ancora in Uexküll[13], appariva di principio inattingibile. Che «gli animali superiori fanno con certezza esperienze soggettive che sono qualitativamente diverse ma essenzialmente simili alle nostre» appariva predicabile per Lorenz solo sulla base delle «similarità e analogie nei processi nervosi degli animali e degli uomini»[14].

Ma il già esiguo potere di questa analogia veniva messo radicalmente in discussione nel contesto cognitivista. Thomas Nagel, nel celebre saggio del 1974: Che cosa si prova ad essere un pipistrello?, confutava il residuo ottimismo secondo il quale una conoscenza esaustiva del “cervello” (la descrizione fisica del sistema neurofisiologico) animale avrebbe potuto dischiudere una comprensione della sua “mente” (stati mentali e coscienza)[15].

Ma la difficoltà posta dai qualia diventava per Nagel una sfida, quella di «trovare nuovi concetti e ideare un nuovo metodo: una fenomenologia oggettiva non dipendente dall’empatia o dall’immaginazione»[16].

 

  1. Scienza ed empatia

Il programma di una tale scienza delle altre menti, o “eterofenomenologia”[17] caratterizza oggi l’etologia cognitiva: un campo di studi interdisciplinare, forte della crescita di osservazioni e risultati sperimentali sulle capacità animali, dell’armamentario dei concetti mentalistici riportati in auge dalle scienze cognitive, come anche delle nuove acquisizioni delle neuroscienze. Ne sono un esempio le tecniche di brain imaging, che rilevano in vivo le funzioni cerebrali, registrando le attivazioni cerebrali tanto di fronte a compiti cognitivi, che di fronte a situazioni che elicitano emozioni. Il forte sviluppo recente delle “neuroscienze affettive” ha così coadiuvato lo sviluppo di una etologia non solo cognitiva ma anche “affettiva”[18].

Questi sviluppi recenti corrispondono ad alcune delle principali posizioni teoriche che si sono polarizzate nel dibattito sullo statuto morale degli animali, che privilegiano la considerazione alternativamente delle caratteristiche cognitive o “senzienti” degli animali.

Al primo tipo appartiene l’opzione giusnaturalistica di Tom Regan, per il quale condizione della detenzione di diritti è la presenza di uno statuto soggettivo in senso forte, contrassegnato da capacità cognitive (autocoscienza, credenze, capacità di scelta e progettazione del futuro). Pur riconoscendo in teoria a tutti i viventi un “valore intrinseco”, la teoria “inerentista” finisce nella pratica a imporre come criterio diagnostico lo statuto del «mammifero a partire dall’età di un anno»[19].

Dal secondo tipo di approccio discende il concetto di “sentience” enfatizzato da Singer, che riprende la tradizione utilitaristica in cui il discrimine riconoscibile non risiede nelle capacità cognitive, ma nella capacità di provare dolore e piacere, sulla scia della celebre formulazione del problema proposta da Bentham: «Il problema non è: possono ragionare? Possono parlare? Ma: possono soffrire?»[20]. Ma le ricadute del concetto di sentience sono complesse, oltre che nella loro applicazione alla bioetica umana[21], anche nella identificazione dei soggetti animali detentori di determinati diritti. Un caso esemplare è emerso nella legislazione per la sperimentazione animale britannica, che ha rivisto l’estensione di diritti oltre i soli vertebrati, introducendo nel 1993 un’eccezione per il polpo, in virtù delle sue note capacità non solo di ricordare esperienze spiacevoli ma di progettare azioni strategiche per evitarle[22]

Queste posizioni non esauriscono certo lo sfaccettato dibattito sullo statuto morale degli animali[23], e non determinano univocamente il discrimine tra le due posizioni politiche che si confrontano oggi sui diritti animali: quella più radicale, esemplificata dal movimento della liberazione animale di Singer, armata contro qualsiasi forma di “speciesism” nell’attribuzione di diritti fondamentali[24]; e quella dell’animal-welfarism, che si limita a propugnare la sottoscrizione di un codice etico volto a prevenire il più possibile la sofferenza inflitta dall’uomo agli animali[25].

Risalta, tuttavia, un elemento comune a tutti i tentativi di regolare il comportamento umano verso gli animali, che si innesca non appena la presa di posizione etica viene a farsi prescrittiva e fautrice di una normazione sistematica: la dipendenza dalla conoscenza che la scienza è in grado di attingere sulle loro caratteristiche emozionali e cognitive. Per convertirsi in norma, anche il senso secondo alcuni primario della consanguineità (kinship) con gli altri viventi deve infine dotarsi di scale di similitudine, che richiedono innanzitutto il contributo di «una buona scienza»[26].

Potrebbe sembrare un paradosso che nel sorgere di questa nuova frontiera della critica etico-politica al dominio tecnologico della terra da parte dell’uomo, la scienza stessa abbia e continui ad avere un ruolo di primo piano. Ma il paradosso si scioglie, a mio avviso, se alla consapevolezza crescente del radicamento storico e contestuale del lavoro degli scienziati, si riconosce la persistente capacità della scienza – nel raggio intrinsecamente plurale della sua estensione – di incarnare voci divergenti e propulsive del proprio tempo e non meno audaci che in passato nello sfidare paradigmi secolari, e costringerci alla loro revisione. Anche nel nuovo compito che la questione animale impone, di elaborare «nuove teorie per vagliare i nostri giudizi, perché essi sono inficiati e pervasi di incoerenze venate di ipocrisia»[27], la scienza promette di giocare un ruolo decisivo nella ridefinizione del rapporto tra animali e uomo, oggetto del nuovo campo di studi della “antro-zoologia”[28].

 


[1] Cfr. S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi (1916), in Opere, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1977, vol. 9, p. 660 sgg.

[2] G. Steiner, Anthropocentrism and Its Discontents: The Moral Status of Animals in the History of Western Philosophy, Pittsburgh University Press, Pittsburgh 2005.

[3] Cfr. L. White Jr., The Historical Roots of Our Ecological Crisis, in «Science», 155, 3767, 1967, pp. 1203-1207.

[4] Intervista rilasciata al settimanale “Chi”, 11 aprile 2012.

[5] M. Bekoff, The Animal Manifesto: Six Reasons for Expanding Our Compassion Footprint, New World Library, Novato (CA) 2010 – dove evidentemente l’assonanza è con il “carbon footprint”, la misura dell’impatto dell’azione umana sull’ambiente in termini di produzione di CO2.

[6] L’allarme sui “limiti dello sviluppo” fu lanciato in modo sistematico, e con la corroborazione di documentazione scientifica imponente, a partire dagli anni ’60; per una sintesi dello sviluppo storico dell’etica ambientale cfr. A. Brennan - Yeuk-Sze Lo, Environmental Ethics, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 20082 (http://plato.stanford.edu/entries/ethics-environmental/). Cfr. anche M. Oksanen - J. Pietarinen (ed. by), Philosophy and Biodiversity, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

[7] Per un elenco esaustivo delle iniziative legislative relative ai diritti animali, cfr. Chronology of Historical Events in Animal Rights and Animal Welfare, in M. Bekoff (ed. by), Encyclopedia of Animal Rights and Animal Welfare, Greenwood Press, Santa Barbara (CA) 20102, p. 635 sgg.

[8] R.J. Richards, Darwin and the Emergence of Evolutionary Theories of Mind and Behavior, University of Chicago Press, Chicago-London 1987, cap. 5; C. Allen - M. Bekoff, Il pensiero animale (1997), tr. it. McGraw-Hill, Milano 1998, gratificano Darwin di una anticipazione dell’etologia cognitiva, nella forma di un “cognitivismo aneddotico”.

[9] Cfr. G.M. Burghardt, Animal Awareness. Current Perceptions and Historical Perspective, in «American Psychologist», 40, 8, 1985, pp. 909-919.

[10] P. Singer, Liberazione animale (1975), tr. it. Mondadori, Milano 1991; Donald Griffin, The Question of Animal Awareness: Evolutionary Continuity of Mental Experience, Rockefeller University Press, New York 1976; C. Allen – M. Bekoff, op. cit., p. XI.

[11] J. B. Watson, Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, H. Holt and company, New York 1914, p. 334.

[12] W. Köhler, L' intelligenza nelle scimmie antropoidi (1917), tr.it. Editrice universitaria, Firenze 1960.

[13] Nonostante il suo approccio “monadologico”, Uexküll poneva in una scala ascendente l’estensione delle capacità percettive animali e dunque la ricchezza progressiva dei mondi-ambiente (cfr. J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin 1909, pp. 248-253); egli poté non a caso ispirare anche concezioni come quella di Heidegger, che attribuiva agli animali una “povertà di mondo” (cfr. B. Buchanan, Onto-Ethologies: The Animal Environments of Uexkull, Heidegger, Merleau-Ponty, and Deleuze, SUNY Press, Albany 2008, p. 71 sgg.).

[14] K. Lorenz, L’aggressività (1963), tr. it. Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 267.

[15] T. Nagel, Che cosa si prova ad essere un pipistrello? (1979), in Questioni Mortali, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1986.

[16] Ibid., p. 499.

[17] Secondo la definizione di D. Dennett, Heterophenomenology, in Consciousness Explained, Penguin Press, London 1991.

[18] Cfr. M. Bekoff (ed. by), Encyclopedia of Animal Rights, cit., p. 5: «Affective ethology refers to the behavioral study of one’s affective states, emotions, feelings».

[19] T. Regan, The Case for Animal Rights, University of California Press, Berkeley 1983, p. 121.

[20] Cfr. P. Singer, Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 19992, cap. 3.  

[21] Nel caso di Singer, aspre polemiche sono sorte negli Stati Uniti sulla sua giustificazione dell’aborto in base al principio che il feto non possiede ancora le piene caratteristiche della “sentience”.

[22] Cfr. M. Bekoff, Encyclopedia of Animal Rights, cit., p. 140.

[23] Cfr. ad esempio l’“approccio delle capacità” proposto da M.C. Nussbaum, Beyond “Compassion and Humanity”: Justice for Nonhuman Animals, in C.R. Sunstein - M.C. Nussbaum (ed. by), Animal Rights. Current Debates and New Directions, Oxford University Press, New York 2004, p. 298.

[24] Cfr. M. Bekoff, Encyclopedia of Animal Rights, cit., pp. 528-533.

[25] Le linee guida di questo movimento sono sintetizzate in M. Bekoff, The Animal Manifesto, cit.

[26] N.C. Nussbaum, Animal Rights: The Need for a Theoretical Basis, in «Harvard Law Review», 114, 5, 2001, p. 1548.

[27] Ibid.

[28] Cfr. M. Bekoff, Introduction: Why animal rights and animal welfare matter, in Encylopedia of Animal Rights, cit. p. XXX.

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