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Animali quasi saggi, animali quasi pazzi

Autore


Mario Perniola

Università di Roma Tor Vergata

insegna Estetica all’Università di Roma Tor Vergata

Indice


  1. L’animale quasi saggio
  2. Animali e “anime belle”
  3. Il superanimale
  4. L’animale quasi pazzo
  5. Animali e spiriti forti

 

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S&F_n. 07_2012


  1. L’animale quasi saggio

A differenza di coloro che hanno giudicato la condizione animale come infelice e povera, non sono mancati fin dall’antichità filosofi che hanno considerato gli animali come modelli per il comportamento umano: i più radicali nel proporre come esempio il modo di essere degli animali sono stati i cinici, il cui nome stesso, secondo un’etimologia assai diffusa già nell’antichità, sarebbe da porre in relazione con i cani. Essi suggerivano uno stile di vita il più possibile semplice, disprezzavano la civiltà, l’educazione, le leggi e il pudore, e aspiravano a un ideale di autonomia e di libertà che avrebbe potuto realizzarsi solo attraverso il ritorno alla natura.

Quest’ultima aspirazione costituisce un punto basilare dello stoicismo, che può essere ritenuto uno sviluppo e un approfondimento della problematica cinica. La posizione degli stoici verso il mondo animale è molto importante ai fini del dibattito attuale perché mostra la strettissima connessione tra la questione animalista e la questione antropologica: l’idea di animalità non è indipendente dall’idea di umanità. Ora gli stoici da un lato operavano una divisione nettissima all’interno dell’umanità, tra saggi e stolti, dall’altro avvicinavano la condizione del saggio a quella dell’animale e del bambino, in quanto tutti e tre partecipi della felicità. «Se il vivere secondo natura per gli stoici è vivere bene [...], ne consegue che vivere secondo natura equivale a godere della felicità. Ma il vivere secondo natura è proprio anche degli animali privi di ragione (alógoi) dall’inizio alla fine della vita; è dunque ad essi possibile il godere della felicità»[1]. La differenza tra da un lato il saggio, dall’altro l’animale e il bambino, consiste nel fatto che il primo può arrivare alla felicità solo attraverso la ragione, il lógos, mentre i secondi sono già spontaneamente felici, grazie all’istinto (ormé). Ora la condizione umana è molto più difficile di quella animale e infantile, perché il lógos non è cosi coerente e stabile come l’istinto, ma è soggetto a una deviazione, a una distorsione, a un pervertimento (diastophé), che lo fa saltare qua e là, impedendogli di restare saldo e costante lungo un determinato cammino. È questa appunto l’essenza della stoltezza umana, che dipende dall’incostanza e dall’incapacità di mantenere un legame tra i vari momenti e le varie fasi della vita: perciò ogni colpa deriva da debolezza e incostanza.

La felicità è definita da Zenone il “vivere secondo natura” e “il buon scorrere della vita” (eúroia bíou), perché la natura è appunto il fluire sempre nascente della vita, cui l’uomo viene facilmente sottratto da qualcosa di eccessivo e di pleonastico implicito nella ragione umana, che la rende troppo mobile e difficilmente capace di procedere in modo coerente: l’assenso fermo e costante è perciò, per gli stoici, la condizione di ogni virtù e di ogni gioia. La stoltezza, da cui gli animali e i bambini sono fortunatamente esclusi, è al contrario una specie di zapping life, di granzing life, una pratica impaziente divorata dalla paura di perdere qualcosa di più interessante e di più piacevole. Gli animali invece non sono mai in discordia con se stessi: come i bambini essi sono quasi saggi, e quasi virtuosi. Nel pensiero stoico sull’animalità la parola osaneí (quasi, come se) gioca un ruolo fondamentale e indica una spontanea adesione alla vicenda cosmica, che è analoga a quella della saggezza umana, ma molto più immediata e diretta.

Ciò che caratterizza gli stolti è, secondo lo stoicismo, il dissidio interiore che si manifesta, per esempio, nel mutare di proposito da un momento all’altro: c’è in loro qualcosa di «selvaggio (ágroikon), di feroce (ágrion), di belluino (therióde) che li rende nemici di se stessi»[2]. Lo stolto è «transfuga rispetto alla legge e ignora il contatto con la vita civile [...]; è nemico di ogni vita familiare, umana, comunitaria, e conduce una vita asociale»[3]. Gli animali e i saggi sono al contrario «apparentati con se stessi (prós autó oikeioûsthai[4]. L’essere vivente, appena nasce, dà una specie di assenso a se stesso e a quanto è conforme alla propria conservazione e al proprio modo di essere: Crisippo definisce questa autoappropriazione col termine di oikeíosis (da oíkos, casa, dimora, abitazione), parola che fu tradotta in latino da Cicerone con conciliatio e commendatio. Tutti gli esseri viventi sono spinti da un affetto istintivo verso la loro sussistenza e conservazione che si manifesta appena nati. Solo all’uomo è possibile alienare se stesso e diventare infelice e schiavo delle passioni e dei vizi: il lógos è una facoltà molto delicata, perché è difficile orientarlo bene e mantenerlo sano.

La questione animalista è dunque inseparabile dalla questione antropologica. La contraddizione principale presa in esame dagli stoici non è quella tra animalità e umanità, ma è interna all’umanità stessa; la “bestialità” è una caratteristica esclusiva degli uomini, anzi della quasi totalità degli uomini, perché i saggi sono stati pochissimi (Socrate e forse qualcun altro): i filosofi stoici in ogni caso non si definivano tali. L’uscita da una visione antropocentrica passa attraverso l’esperienza di una profonda frattura interna all’umanità: il riconoscimento della quasi-saggezza animale e infantile implica una visione estremamente critica e conflittuale del mondo umano, che è pressoché interamente sommerso dall’errore e dal male. Ma questa cruda e impietosa diagnosi non porta gli stoici né verso il vagheggiamento di una condizione di innocenza anteriore alla nascita della civiltà, né a un abbandono del mondo storico e politico: anche se il saggio è raro come una fenice, e se tra saggezza e stoltezza non ci sono vie intermedie, resta che ogni identificazione della condizione umana con quella animale è impossibile. Non esistono scorciatoie alla virtù e alla felicità; l’uomo non deve sottrarsi a ciò che conviene e si addice a lui (kathêkon), a ciò che gli appartiene intrinsecamente. Gli stoici hanno introdotto nell’etica la parola “dovere”, intendendolo nel senso di comportamento che ha la propria ricompensa in se stesso, e che proprio perciò consente all’uomo di stare fermo (ametáptotos) e saldo (bébaios) nell’esperienza del presente. Questa fermezza e saldezza si regge su un tónos, su una tensione, cui sono riportabili, secondo Cleante, le quattro virtù principali[5]. L’armonia conduce non all’eliminazione degli opposti, ma al loro mantenimento equilibrato; essa è una legge cosmica a cui è conforme il modo di essere del saggio, come quello degli animali. Se il primo impulso dell’essere vivente è la conservazione (tereìn), questa non deve essere intesa come alcunché di statico, ma come un sorvegliare, un osservare, un fare attenzione. Lo stolto è invece incapace dell’esperienza della tensione, che tiene insieme gli opposti: egli soffre di neurôn atonía[6]. La mancanza di tensione è la causa della debolezza che ci fa cedere all’assalto delle passioni.

 

  1. Animali e “anime belle”

Tra le passioni gli stoici annoverano anche la compassione, che è da loro considerata come un’affezione cattiva e inutile: a loro avviso, non dobbiamo assumere su di noi i dolori degli altri, ma agire per liberare gli altri dal dolore. La compassione ancor più delle altre passioni è da porre in relazione con la mancanza di tensione interiore, con l’incapacità di sopportare e di elaborare il contenuto effettivo della realtà esistente, la quale è sempre conflittuale e contradditoria. Per quanto lo stoicismo giunga a conclusioni che sono in ultima analisi ottimistiche, esso non ignora e non occulta mai l’esperienza di un mondo dominato dall’errore e dalla follia: ciò che caratterizza il suo stile di pensiero è insieme l’essere privi di illusioni sulla realtà effettuale e il pronunciarsi senza riserve per essa. Sotto questo aspetto, il contrario dello stoico è l’“anima bella”, questo modo di essere che tanta importanza ha nella spiritualità occidentale dal neoplatonismo fino ai giorni nostri. Ciò che caratterizza l’“anima bella” è appunto la pretesa di conciliare tutto e tutti facendo appello alla bontà dei propri sentimenti: essa è in fondo un’anima debole incapace di giungere a qualcosa di reale.

Dal momento in cui la questione animalista viene posta separatamente dalla questione antropologica, la ricaduta nelle fantasie dell’“anima bella” sembra inevitabile. La riconciliazione con la natura non può fare a meno di porsi il problema della cultura; il ripensamento della condizione animale è strettamente connesso con l’interrogativo sulla condizione umana; il ricupero della dimensione sensitiva e affettiva dell’esistenza implica il riesame della dimensione logica e razionale. Proprio per avere affermato l’inseparabilità tra il discorso sugli animali e il discorso sugli uomini lo stoicismo costituisce un punto di riferimento fondamentale. Esso mostra come alla superiorità meramente ideale dell’uomo sugli animali fa riscontro la sua inferiorità reale nei loro confronti: «tra gli animali i migliori hanno la sorte migliore, tra gli uomini i peggiori hanno miglior fortuna» dice Menandro (fr. 534) sotto l’influenza della Stoa.

Infine lo stoicismo, radicando la nozione stessa di lógos nell’esperienza sensibile, supera l’opposizione platonica tra l’intelletto e i sensi. La teoria della conoscenza degli stoici ha carattere essenzialmente sensistico; per Zenone, pensare è sentire. L’aísthesis, la sensazione, è sempre vera, perché riproduce qualcosa di reale. Ne deriva che lo stoicismo attribuisce al sentire un rilievo senza paragone più grande e più autonomo di quello assegnatogli dalla tradizione platonico-aristotelica. Essendo un tipo di pensiero essenzialmente monistico e materialistico, non è possibile nessuna ricaduta in un dualismo che opponga la dimensione spirituale a quella animale.

 

  1. Il superanimale

Si può cogliere così una delle ragioni profonde dell’attuale interesse nei confronti della condizione animale. Fintanto che l’essenza dell’umanità è vista nel pensare o nell’agire, il rapporto tra la specie umana e gli animali si configura come un abisso incolmabile. Nell’età delle ideologie e delle burocrazie trionfanti, l’animalità si configura come bestialità e come bêtise, come disumanità e stupidità. Ma oggi nel tramonto dei poteri ideologici e burocratici e nell’emergere di un potere “sensologico”, connesso cioè con la facoltà di esperire stati di piacere e di dolore, crollano quei bastioni che tenevano separata la specie umana dalle altre forme di vita. Se il fulcro della società si sposta dalla sfera conoscitiva e da quella pratica a quella sensitiva, gli animali ci sembrano non essenzialmente differenti da noi.

Ciò ha condotto a partire dagli anni Sessanta al riemergere di modi di vita contestativi che s’ispirano al cinismo antico e che di questo condividono il disprezzo delle convenzioni e della cultura. Ma il problema del sentire si presenta oggi in un modo molto più complesso: il centro della questione animalista non consiste affatto nell’imitare il comportamento animale e nemmeno nell’attribuire agli animali il contenuto soggettivo delle nostre esperienze: il cinismo e il sentimentalismo sono inadeguati a spiegare un fenomeno molto più profondo e inquietante che consiste nell’oggettivazione del sentire, nel fatto che il sentire non è più il luogo per eccellenza di un’esperienza soggettiva, ma qualcosa di anonimo, di impersonale, di esterno, di altro, qualcosa che non ci appartiene più intimamente. Ancora una volta la questione animalista e la questione antropologica sono indissolubilmente legate: noi non possiamo assegnare agli animali i nostri sentimenti per il fatto che noi stessi non abbiamo più sentimenti, o meglio, il nostro sentire è privo di autoidentità. Ne deriva che gli approcci soggettivi al sentire (religioso, psicologico e morale) non sono in grado di render conto di un fenomeno che è irriducibile a categorie quali quelle di sentimento, coscienza, responsabilità e simili. Gli animali diventano il nostro specchio, perché essi costituiscono la manifestazione per eccellenza di quel sentire senza soggetto che a Hegel sembrava massimamente incomprensibile ed enigmatico e che egli riteneva tipico della cultura egizia. Questa oggettivazione del sentire presenta inoltre sorprendenti affinità con la percezione del proprio corpo come qualcosa di estraneo, che partendo da alcune considerazioni di Freud negli Studi sull’isteria, alcuni psicoanalisti considerano un aspetto tipico delle tossicomanie.

Del resto l’idea di una sensibilità artificiale è molto frequente nell’immaginario contemporaneo e nelle sue manifestazioni artistiche: in queste il posto dell’automa e della “macchina che pensa” è stato preso dalla “macchina che sente”. Se le prime due erano una specie di superuomo, la terza è una specie di superanimale, nei confronti del quale nutriamo insieme attrazione e repulsione. Sotto certi aspetti il superanimale è già il modello sulla base del quale si è stabilita la nuova gerarchia: chi è capace di un sentire impartecipe, di un’affettività senza io, di un’emotività senza coscienza, sta su di un livello senza comune misura rispetto a coloro che sentono soggettivamente oppure non sentono affatto. Sotto altri aspetti nel superanimale c’è ancora qualcosa di umano, troppo umano, che, schiacciandolo sul piano dell’effettualità pratica e del successo immediato, lo rende troppo dipendente dal mondo storico e gli fa perdere quella centralità dinamica, quella armonia di tensioni e di forze opposte che la natura dona ai suoi migliori esemplari. Sembra quasi che dal momento in cui l’animalità è accolta nell’orizzonte del mondo storico, in cui il suo sentire enigmatico diventa il più conforme alla riuscita sociale, essa stessa sia contaminata dalla volgarità e dalla meschinità di questo successo; sicché l’eccellenza animale deve essere cercata altrove che nel superanimale.

Nasce così una situazione nuova che conferisce un significato imprevisto alla distinzione stoica tra saggi e animali quasi saggi da un lato, e stolti dall’altro. Infatti , dal momento in cui il saggio non è più un modello di perfezione pressoché irraggiungibile, ma la “macchina che sente”, il superanimale perfettamente integrato nel mondo sensologico contemporaneo, la “moneta vivente” che garantisce la scambiabilità di tutte le sensazioni, affezioni ed emozioni, come non provare un moto di simpatia verso quel resto di animalità che non trapassa nel superanimale, verso quel resto di umanità che è incoercibile al cammino obbligato della saggezza? Se il superanimale è l’intellettuale organico del mondo attuale, come non volgere uno sguardo pieno d’interesse verso una stoltezza divenuta ormai rara come la fenice? Di fronte all’alienazione delle esperienze in un “già sentito” che toglie alla vita ogni gusto e ogni meraviglia, che rende incapaci di ammirazione e di stupori, come non rivalutare la continua agitazione degli stolti? La loro infinita ricettività? Lo stato di allergia permanente in cui vivono? Del resto quanto c’è ancora di lógos e quanto di senso nelle “sensologie” che l’una dopo l’altra contagiano l’intero pianeta?

 

  1. L’animale quasi pazzo

La filosofia antica non si è posta questi interrogativi che invece si possono trovare già all’inizio del pensiero moderno. L’elogio della pazzia[7] di Erasmo rovescia l’asserzione stoica secondo la quale solo il saggio è felice. È vero piuttosto il contrario: la stoltezza, o meglio la pazzia, la cui essenza consiste nella filautía, cioè nell’amore di se stessi, è condizione della felicità. Infatti, dice Erasmo «può voler bene agli altri, chi non vuole bene a se stesso? Può andar d’accordo con gli altri chi non sa trovarsi d’accordo seco stesso? Può recar piacere agli altri chi riesce a se stesso gravoso e molesto?»[8]. Alla base della pazzia sta dunque lo stesso atteggiamento che nel pensiero stoico sostiene il modo di essere dei saggi e degli animali: l’appropriazione di se stessi, l’istinto di autoconservazione, una specie di amor proprio che ci lusinga e ci raccomanda a noi stessi. La differenza rispetto alla saggezza stoica sta nel fatto che la pazzia erasmiana è molto più ambivalente ed enigmatica. Essa introduce nella condizione ricca di tensioni, ma pur sempre identica a se stessa dello stoicismo, un dinamismo che non ha paura di spingersi fino ai limiti estremi dell’esperienza affettiva ed emotiva: “pazzia guida a saggezza”, rende amabili le donne, condisce i conviti, forma le amicizie, dà sapore alla vita, sottrae al suicidio, conduce all’azione. I pazzi assomigliano agli animali, la cui felicità consiste nell’indisciplina: «poco o nulla sono infelici quelli che più si avvicinano al naturale delle bestie, alla loro sconsideratezza, e si guardano bene dal tentar cosa oltre l’umano»[9]. Erasmo dunque condanna ogni aspirazione al sovrumano (e al sovranimale!). C’è nella condizione umana un’animalità che dev’essere preservata: essa garantisce la permanenza nell’uomo del “nativo splendore” delle bestie e conduce a una supersaggezza che incorpora e ingloba la stoltezza e l’animalità.

Gli interrogativi di Erasmo sono sviluppati e approfonditi da Giordano Bruno nel dialogo Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico del 1585[10]. Qui la problematica si sposta nettamente dal discorso intorno alla stoltezza umana a quello intorno alla pazzia animale. Il superanimale, o come dice Bruno, “la bestia trionfante” è ciò cui bisogna “dar spaccio”, vale a dire ciò che bisogna allontanare, eliminare, togliere di mezzo. Questo superanimale, il cavallo pegaseo (cioè volante) era originariamente un asino, anzi un asino malvagio detto Onorio (da ònos e rio), che spinto dall’ingordigia di addentare un cardo cresciuto in prossimità di un precipizio, perde l’equilibrio e cade da un’alta rupe. Manca a quest’asino l’istinto di autoconservazione, l’amore di se stesso. Onorio è tuttavia molto furbo: passando nel regno dei morti fa finta di bere l’acqua del Lete, e conserva così la memoria e le facoltà mentali. Ciò gli consente di ascendere verso il cielo e, trasformato in un cavallo alato e di essere accolto tra le costellazioni. La sua anima non è differente dall’anima umana: perciò da superanimale viene cambiato in superuomo e diventa nientemeno che Aristotele! Così il superasino descrive la propria esperienza umana:

Entrai in presunzione d’essere filosofo naturale, com’è ordinario nelli pedanti d’esser sempre temerari e presuntuosi; e con ciò, per essere estinta la cognizione della filosofia, morto Socrate, bandito Platone, e altre in altre maniere dispersi, rimasi io solo losco intra i ciechi; e facilmente potei aver riputazion non sol di retorico, politico, logico, ma ancora di filosofo. Cossì malamente e scioccamente riportando le opinioni degli antichi, e de maniera tal sconcia, che né manco i fanciulli e le insensate vecchie parlerebbero e intenderebbero come io introduco quegli galant’uomini intendere e parlare, mi venni ad intrudere come riformator di quella disciplina della quale io non avevo notizia alcuna[11].

 

Al polo opposto del cavallo pegaseo, l’essere in cui animalità e umanità si congiungono in uno stesso delirio di presunzione e di tracotanza, sta l’asino cillenico (cioè protetto da Mercurio), che invece non si spaccia per sapiente, ma con l’umiltà e la fermezza socratiche di chi sa di non sapere, chiede di essere ammesso a far parte di un’accademia di pitagorici. Egli invita a non disprezzare nessun aspetto della natura e conclude che «il porco non deve esser bel cavallo, né l’asino bell’uomo; ma l’asino bell’asino, il porco bel porco, l’uomo bell’uomo». Contro il rifiuto dell’accademia interviene Mercurio il quale nomina accademico l’asino e cosi lo esorta: «Parla dunque tra gli acustici; considera e contempla tra i matematici; discuti, domanda, insegna, dichiara e determina tra i fisici; trovati con tutti, discorri con tutti, affratellati, unisciti, identificati con tutti, domina a tutti, sii tutto».

Per Bruno non esistono soltanto due tipi di animalità, il cavallo pegaseo e l’asino cillenico, la bestia trionfante e “l’animalaccio divo al mondo caro”, il superanimale più pazzo dei pazzi e il bell’asino più saggio dei saggi; accanto a queste due forme per così dire alte, di asinità, egli individua altre due possibilità basse e spregevoli: c’è l’ignorante per semplice negazione, cioè il somaro che né sa, né presume di sapere, e c’è l’ignorante “per prava disposizione”, cioè colui che crede davvero di sapere e che perciò, a differenza della bestia trionfante, s’inganna su se stesso. Quest’ultimo sembra a Bruno il peggiore di tutti.

Tuttavia l’essenziale del discorso di Bruno sull’asinità non sta nell’analisi di queste forme di subanimalità e di subumanità (di cui fornisce spesso una rappresentazione comica di grande efficacia letteraria), ma piuttosto nel rapporto ambivalente e ancipite che intercorre tra le due forme alte di asinità, tra la bestia trionfante e l’asino cillenico. Qui appare chiara la differenza tra il pensiero antico, la cui aspirazione è orientata verso il mantenimento a ogni costo della fermezza del lógos, e il pensiero moderno, il cui accento cade proprio sulla enantiodromia del lógos, sulla tendenza a capovolgere le proprie determinazioni opposte le une nelle altre: se per il pensiero antico l’animale è quasi saggio, perché stabilmente fissato nel suo istinto, per il pensiero moderno l’animale è quasi pazzo, perché oscilla tra i due poli di una pazzia che è saggezza e di una saggezza che è pazzia.

 

  1. Animali e spiriti forti

È possibile per l’uomo essere all’altezza dell’animale quasi pazzo? Se i termini opposti della saggezza e della stoltezza si inseguono senza fine e si rovesciano l’uno nell’altro, non corre l’uomo il rischio di essere travolto da questo turbine? Se il cavallo pegaseo e l’asino cillenico non sono poi così radicalmente alternativi come sembrerebbe a prima vista, ma sono tenuti insieme almeno dal rapporto di opposizione che li costituisce, può l’uomo andare oltre la loro saggezza e la loro follia? Anzi, oltre l’insieme indistricabile della loro quasi saggezza e della loro quasi follia?

Si possono rivolgere queste domande all’ultimo dei Dialoghi italiani di Giordano Bruno, De gli eroici furori del 1585, il cui titolo stesso allude a esperienze estreme e irreversibili. Certo il neoplatonismo ha indicato una strada di emancipazione da tutte le forme di animalità in un moto ascensionale ininterrotto verso l’intellegibile, verso l’idea, verso la bellezza divina, di cui la bellezza animale e umana è solo la prefigurazione: questo movimento ascensionale sta alla base anche dell’amor cortese e del petrarchismo. Ma Bruno rifiuta questa strada, perché il neoplatonismo non ha una sufficiente esperienza del conflitto; esso finisce con l’essere non al di sopra, ma al di sotto dell’animale quasi pazzo. Esso da un lato svaluta il mondo sensibile, dall’altro, pensandolo come una metafora del mondo intellegibile, fa a esso troppe concessioni: ne deriva una concezione della condizione animale e dell’animalità nell’uomo troppo edulcorata, troppo debole. Bruno non si sottrae mai al confronto con la durezza e la ruvidità del mondo reale: sotto questo aspetto egli continua lo stoicismo antico e non a caso diventerà il modello degli esprits forts e dei libertini del Seicento. Come spiega nella premessa, il corpo femminile non può mai diventare la metafora di qualcosa di divino, ma conserva la dimensione animale, anzi bestiale: sicché è preclusa la sopraelevazione estetica che trasforma il sensibile in sovrasensibile e fa della bellezza una via di accesso al mondo iperuranio. Le donne «che non hanno altra virtù che naturale» non sono dee, non aprono una via d’accesso al divino maggiore di quella che ci è aperta dalla mosca, dallo «scarafone» o dall’asino. L’“anima bella” neoplatonica non riesce a rispondere alla sfida che proviene dall’animale quasi pazzo, perché vuole conciliare l’inconciliabile e acquietarsi in qualche soave immaginazione; ma l’animale quasi pazzo è sempre in movimento e va ora in una direzione ora in quella opposta, incurante della coerenza e della costanza.

Per Bruno non ci sono che due possibilità per restare all’altezza della sfida dell’animale quasi pazzo: l’atarassia e l’«eroico furore». La prima strada è quella dell’antianimale, cioé del non sentire; la seconda è quella del diventare animale, del sentir tutto. La prima è legata all’insegnamento di Epicuro; la seconda al mito di Atteone.

L’atarassia consiste nel raggiungere un punto intermedio, uno stato d’indifferenza nel quale i contrari non abbiano più la possibilità di sostenersi e di alimentarsi l’un l’altro; a esso si giunge per sottrazione progressiva riducendoli al minimo. Il punto di arrivo è l’essere «minimamente allegro» e «minimamente triste»[12], il «fortemente comportare» senza sentire gli incomodi, il trovare «il meridiano delle cose» che restringe al minimo le determinazioni opposte. L’enantiodromia dell’animale diventa cosi un girare a vuoto intorno a un punto che non si lascia trascinare nel circolo vizioso dell’alternanza. L’antianimale sarà saggio e pazzo in modo minimo. Esso sembra raggiungere il punto in cui la minima saggezza coincide con la minima follia. L’antianimale è insomma chi ha fatto la scelta di non sentire, chi si propone il raggiungimento di una condizione inorganica, chi vuole assimilarsi al modo di essere delle cose.

La seconda possibilità è invece l’«eroico furore». Qui si risponde alla sfida dell’animale quasi pazzo con un rilancio di enorme portata, che consiste nell’esperienza simultanea degli opposti: questa esperienza estrema consiste nel «sentirne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa» nel tendere l’affetto contemporaneamente all’uno e all’altro estremo, nel provare uno stato nel quale posso dire che «in viva morte morta vita vivo»[13].

L’«eroico furore» è differente dalle quattro manie divine di cui parla Platone (la profetica, la liberatoria, la poetica e l’amorosa). Mentre queste possessioni hanno un carattere di passività e consistono nell’offrire la propria lingua a un sapere che proviene da fuori, l’«eroico furore» è attivo e essenzialmente filosofico: esso aguzza i sensi di chi è «avvezzo ed abile alla contemplazione», di chi ha uno spirito «lucido ed intellettuale» e lo induce a parlare, non come mero strumento di qualcosa di superiore, ma spinto dal fuoco del desiderio e dalla propria facoltà conoscitiva divenuta più chiaroveggente dell’ordinario. Perciò mentre le possessioni sono come «l’asino che porta i sacramenti», gli «eroici furori» sono cose sacre in se stesse. Questa chiarezza non riguarda solo l’esterno, ma porta anche a una profonda consapevolezza di se stessi: il furioso è infatti perfettamente cosciente della propria follia, ma non per questo capace di correggersi. Anzi si compiace del proprio dolore e ama «più il fuoco che il refrigerio, più la piaga che la sanità, più i legami che la libertà»[14]. Bruno in tal modo va al di là della saggezza stoica, per la quale è impossibile volere ciò che si giudica vizio, sia della supersaggezza di Erasmo, che pone l’amore di se stessi a base di ogni azione. Il furioso non ama affatto se stesso, disprezza il presente ed è in fondo animato a una pulsione autodistruttiva: a differenza dell’animale quasi pazzo, la cui relativa follia consente un rapporto di consonanza e di complicità con un mondo contradditorio e incoerente, il furioso è veramente pazzo. Egli è il vero esprit fort perché infrange ogni pratica prudenza mondana, ogni calcolo di successo storico e attraverso il sacrificio di se stesso passa in un altro orizzonte, che è quello delle leggi cosmiche della natura. Tuttavia la sua è una vera pazzia fintanto che si guarda con l’occhio del mondo storico: diventa invece vera filosofia a partire dal momento in cui la si considera dal punto di vista dell’ordine naturale, quell’ordine naturale che l’animale quasi pazzo non riesce più a capire, perché è diventato umano, troppo umano.

Il mito di Atteone, il cacciatore che dopo aver visto Artemide nuda, viene trasformato da lei in cervo e dilaniato dai propri cani nella valle del lago di Nemi, racconta nel modo migliore la vicenda del furioso. Atteone è l’uomo che spinto dal proprio desiderio di verità, diventa l’oggetto stesso della sua ricerca: da cacciatore è cambiato in preda. Dal momento in cui vede la divinità nuda, non ascende al mondo sovrasensibile (come sarebbe dovuto avvenire secondo i neoplatonici), ma proprio al contrario precipita nel mondo delle bestie, mutandosi in animale. «Nella natura – dice Bruno – è una rivoluzione e un circolo per cui [...] le cose superiori s’inchinano all’inferiori»[15]. Per forza della vicissitudine delle cose è necessario che esse «vegnano dalla bassezza all’altezza, dall’altezza alla bassezza, dalli oscuritadi allo splendore, dallo splendore alle oscuritadi»[16].

Il nostro lavoro, iniziato col filosofo-cane si conclude così col filosofo-cervo, attraverso la cavallinità aristotelica e l’asinità accademica. Ma il filosofo-cervo non è un superanimale: la sua vita in cui si in cui si sommano la felicità animale e la beatitudine divina, in cui egli contempla lo splendore della natura e la luce della divinità, dura solo un attimo. I cani lo raggiungono e lo straziano di morsi: la sua storia si conclude con il dilaniamento e con lo smembramento, col supplizio e il martirio.

La vicenda mitologica di Atteone preannuncia la vicenda storica di Bruno: Nel 399 a.C. la democrazia ateniese aveva condannato a morte Socrate: Dopo duemila anni il cattolicesimo condanna a morte Bruno. Il primo era ritenuto il più saggio del suo tempo; il secondo probabilmente il più pazzo del suo tempo. Se il primo si fosse attenuto alla quasi saggezza degli animali e il secondo alla quasi pazzia degli animali, la filosofia non sarebbe stata criminalizzata. Ma nemmeno sarebbe apparsa in tutta la sua spaventosa gravità la questione antropologica. Interrogarsi filosoficamente sulla condizione animale serve almeno a capire che la contraddizione più grande sta all’interno dell’umanità.

 


[1] R. Radice (a cura di), Stoici antichi, Tutti i frammenti, edizione italiana condotta su Stoicorum Veterum Fragmenta di Hans Friedrich August von Arnim (1903-1905), Bompiani, Milano 1998, III, 17 (d’ora in avanti, come d’uso, SVF).

[2] SVF, III, 677.

[3] SVF, III, 678.

[4] SVF, III, 183.

[5] SVF, I, 563.

[6] SVF, III, 471.

[7] E. da Rotterdam, Elogio della pazzia (1511), tr. it. Einaudi, Torino 1984.

[8] Ibid., XXII.

[9] Ibid., XXXV.

[10] Cfr. G. Bruno, Dialoghi italiani, I e II, Sansoni, Firenze 1985.

[11] Ibid., II, 2.

[12] Ibid., I, 2.

[13] Ibid.

[14] Ibid., I, 3.

[15] Ibid., I, 3.

[16] Ibid., I, 1

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