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Sui diritti dell’infanzia e la libertà che comincia

Autore


Mariangela Caporale

Università degli Studi di Napoli Federico II

ha svolto attività post-doc presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e svolge tuttora attività di ricerca tra lo stesso Ateneo Federiciano e l’Università degli Studi della Basilicata

Indice


  1. I diritti degli adulti ai bambini
  2. I bambini non sanno di essere bambini: gli adulti di fronte all’autorità dell’infanzia
  3. Un esempio del naufragio dei diritti dell’infanzia
  4. I diritti sono una promessa dei bambini

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S&F_n. 11_2014

Abstract


The present article deals with children’s rights. It focuses on the problematic aspect regarding all the documents – included the Convention on the Rights of the Child - that only support adults’ point of view about life and world without considering the peculiarity of the reason and freedom of childhood, that is its autonomy.


E un angelo arrivò con una chiave lucida e aprì le loro bare, li rese tutti liberi.

William Blake

  1. I diritti degli adulti ai bambini

Nel 1989 le Nazioni Unite ratificano la Convenzione sui diritti del fanciullo, preceduta dalla Dichiarazione dei Diritti del Bambino adottata dalla Società delle Nazioni nel 1924.

Tra i due documenti si colloca la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e, prima ancora, nel 1946, l’istituzione del Fondo Internazionale di Emergenza per i Bambini, rinominato Unicef nel 1953.

Al di là della differenza di contenuto e dello spirito proprio dei due documenti, al di là della distanza nel tempo che li separa, quello che emerge come il dato più significativo è l’assunzione del bambino come contenuto specifico di un documento che è stato concepito come strumento internazionale vincolante per garantire ai bambini i diritti civili, culturali, economici, politici e sociali riconosciuti agli adulti. Dunque una Convenzione che rafforza i diritti umani degli adulti, proprio esigendo che a essi corrispondano altrettanti doveri, i quali sono, poi, i diritti degli altri, doveri per i quali ai diritti, cioè, è garantita universalità di valore e di applicazione, doveri per i quali ai diritti spetta di valere come la struttura di quella reciprocità che descriviamo in termini di uguaglianza. Ma la Convenzione sui diritti del fanciullo amplia questa struttura, imponendo che ai diritti degli adulti corrispondano quelli del bambino e che, dunque, agli adulti spettino doveri non soltanto nei confronti di altri adulti, ma nei confronti di un’umanità considerata altra, un’umanità, quella dei bambini, rispetto alla quale deve rompersi l’equilibrio della corrispondenza, deve essere sospeso il criterio della reciprocità: i bambini non hanno doveri nei confronti degli adulti, nessun obbligo vincolante nel modo in cui ogni diritto dell’adulto lo vincola allo stesso diritto degli altri adulti e dunque a un dovere[1].

Quest’ordine asimmetrico chiarisce qual è il modo nel quale il diritto dei bambini è stato concepito: essi non sono nella condizione di esercitare la medesima personalità morale di un adulto e, dunque, sono inclusi nell’ordine giuridico, stabilito dalle dichiarazioni dei diritti, in quanto destinatari dell’agire degli adulti. Essi, dunque, non sono considerati ancora pienamente capaci di autonomia morale, non solo perché non hanno ancora acquisito la consapevolezza necessaria ad agire realizzando un sistema ordinato di intenzioni, ma, prima ancora, non sono educati a esprimere se stessi così come è ritenuto necessario che facciano, ossia acquisendo il modo e il contenuto della volontà e delle azioni degli adulti, quella volontà e quelle azioni considerate morali dagli adulti. A essi, dunque, non è ancora riconosciuta la possibilità che esercitino da loro stessi la creatività che istituisce mondi e significati e dà forma alla vita.

La tutela a cui la soggettività individuale dei bambini è sottoposta, non va certo interpretata come una diminuzione della loro dignità, ma rende conto della convinzione diffusa che sia un processo e una costruzione articolata l’identità morale e l’esercizio consapevole della ragione che compete a tale identità.

La libertà dei bambini aspetta ancora di cominciare ma si impone da subito con l’autorevolezza di un evento il cui avvenire è desiderato nel modo nel quale l’adulto ritiene debba essere: libertà che costruisce i medesimi spazi e avvera le medesime scelte che vuole per sé il mondo cresciuto, libertà che deve acquisire la stessa misura dell’immaginazione degli adulti, i quali proteggono questa libertà, che non sa nemmeno ancora parlare, per farla divenire come la loro.

Siamo di fronte a una posizione condivisa dal senso comune e dalla pedagogia e dalla filosofia che hanno trattato specificamente il tema. Posizione che, dunque, assume in modo affatto problematico che i bambini, la libertà di cui sono titolari e la ragione loro propria, siano di là da essere e che spetti loro di divenire.

Questo divenire è possibile nella misura in cui esso muove nella direzione del mondo al quale gli adulti vogliono dare forma, un divenire spinto da un modello di umanità che, attraverso quei valori che si ritiene traducano l’essere ideale della dignità umana in realtà infrastorica, sia il modello compiuto di ogni libertà.

Assumiamo come punto di riferimento per accennare alla forma che deve avere la vita dei bambini e il mondo che devono abitare, la serie e i contenuti dei diritti che la Convenzione del 1989 ratifica.

La Convenzione stabilisce in 54 articoli e due protocolli opzionali, i diritti del bambino, che sono quelli alla sopravvivenza, al pieno sviluppo, alla protezione da influenze dannose, dall’abuso e dallo sfruttamento, i diritti alla partecipazione alla vita familiare, culturale e sociale.

Quattro sono i principi dichiarati come principi di fondo della Convenzione: la non discriminazione, la dedizione all’interesse superiore del bambino, il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo integrale della sua persona.

Anche solo questa breve descrizione rende conto delle ragioni forti del documento e non può che suscitare consenso e approvazione immediate, al punto che la Convenzione è stata sottoscritta da quasi tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, paesi che hanno deciso di sottoporre i propri governi e la propria legislazione a quegli organi di controllo, deputati a verificare la coerenza del dettato della Convenzione con la politica dei singoli stati a essa aderenti[2].

Molti articoli di questo documento fanno esplicito riferimento alla libertà del fanciullo, la cui espressione costituisce uno dei doveri più spesso richiamati come imprescindibili, laddove si voglia obbedire alle ragioni per le quali la Convenzione è stata pensata e scritta.

È necessario ricordarlo proprio in quanto gli articoli a cui ci riferiamo (nn. 12, 13, 14 in particolare) paiono smentire l’idea di partenza, secondo la quale anche la Convenzione considera i bambini destinatari soltanto di quel paradigma di umanità verso il quale si ritiene che debbano essere accompagnati, paradigma che il riconoscimento e la difesa della loro soggettività giuridica, attraverso tutti i documenti che li riguardano, devono consentire loro di raggiungere.

La titolarità dei diritti e l’affermazione della identità morale e giuridica dei fanciulli, sulla cui obiettività poggia l’impianto della Convenzione e di tutte le politiche dell’infanzia, sembra significare tutt’altro orientamento. Ma se la dignità personale dei bambini è un dato obiettivo e fondamentale, per il quale sono considerati imprescindibili il suo riconoscimento e la sua difesa in ogni contesto umano, altrettanto obiettiva è la considerazione che questa dignità risponde dello sguardo proprio degli adulti sul mondo e sull’umanità in quanto tale. Essa è dignità pensata dagli adulti per i bambini: questi sono definiti e riconosciuti soggetti perché la loro esistenza sarebbe l’atto del divenire adulti, esistenza tutta definita dal movimento di questo processo, soggetti perché possono acquisire la forma dell’adulto e perché sono impegnati in questa formazione, perché la loro vita consisterebbe in questa formazione, soggetti pienamente tali, pienamente se stessi perché smetteranno di essere fanciulli.

Il buon senso suggerisce di considerare indiscutibile questo punto di vista. E certo non è in questione l’evidenza della dignità dei bambini.

Può essere discussa, invece, la stessa convinzione che la dignità di un individuo debba dipendere da quella che gli adulti chiamano soggettività e dalla certezza che questa si configuri come tale sullo stesso piano intellettivo, morale e giuridico sul quale gli adulti riconoscono se stessi. Può essere discusso che la ragione e la lingua degli adulti costituiscano il criterio per riconoscere e nominare la dignità del bambino, il valore dei comportamenti che li riguardano e, prima ancora, prima di tutto, può essere discusso che la ragione degli adulti costruisca l’architettura del loro mondo.

Cosa è lasciato ai bambini di loro stessi?

La libertà che comincia è già subito tutta intera.

  1. I bambini non sanno di essere bambini: gli adulti di fronte all’autorità dell’infanzia

Mi ero alzato presto quel mattino, e camminavo lungo la riva del mare. Mi capita spesso di fare così quando la mia mente non riesce a comprendere cose più grandi me: con la sola forza della mia intelligenza cercavo di spiegarmi tante cose di Dio. Ero così preso dai miei pensieri che quasi non mi ero accorto che di fronte a me, a quell'ora dell'alba stava giocando un bambino. Aveva fatto una buca nella sabbia e continuava a correre da lì fino a riva, avanti e indietro, trasportando ogni volta un po' d'acqua.

“A che gioco stai giocando a quest'ora?” gli chiesi. Il bambino mi rispose che non era affatto un gioco, e che voleva solo riversare tutto il mare in quella buca. Sorridendo per la sua impresa cercai di farlo ragionare, dicendogli che non ci sarebbe mai riuscito, perché il mare è troppo grande per essere contenuto in una piccola buca nella sabbia. Anche lui mi sorrise, ma continuò nel suo gioco[3].

Un filosofo cammina in riva al mare: dice che quello è il contesto adatto per raggiungere la concentrazione necessaria a comprendere tutto, a essere filosofo, a tenere in mente Dio. Incontra un bambino, lo vede giocare e non capisce che gioco sta facendo, non lo capisce perché per il bambino non è un gioco versare il mare nella buca, è la sua azione e il suo fine. Oppure è un gioco, sì, un gioco, perché no? Un gioco che distrae il filosofo, che è lì per ragionare e non per giocare.

Se giocasse il filosofo, d’altronde, non sarebbe quello il suo gioco. Quello è il gioco del bambino, il gioco dell’andare e tornare dal mare alla spiaggia, un gioco di traduzione delle grandezze, un gioco che al bambino riesce, un’esperienza.

All’adulto non è più possibile un’esperienza come questa.

Egli si impegna per le certezze e le certezze sono della scienza, la quale ha mutato di segno l’esperienza, le ha sottratto autorità, consegnandola alla conoscenza che deduce, misura e prevede, a quella conoscenza che ha un soggetto soltanto e che ha condotto la molteplicità individuale della realtà che ha di fronte, e il vissuto che le corrisponde, all’unità della materia psichica e del sapere noetico.

«Riferire conoscenza ed esperienza a un soggetto unico, che non è altro che la loro coincidenza in un punto archimedico astratto: l’ego cogito cartesiano, la coscienza»[4], ecco in cosa è consistita la rivoluzione scientifica e come è avvenuto che al posto della separazione tra conoscenza ed esperienza si sia determinata la loro coincidenza nel luogo teorico dell’esperimento e che la medesima coincidenza abbia riguardato i soggetti di questi due atti del sapere: da un lato gli individui che riescono ad avere esperienza di sé e del mondo a partire da loro stessi; dall’altro l’intelletto “impassibile” e “divino”, soggetto aristotelico della conoscenza scientifica, che nell’individuo singolo trova il proprio sub-jectum, e conosce fuori dall’uomo[5].

Prima della consegna all’evidenza dell’esperimento e alla misura geometrico-matematica, l’esperienza senza metodo vale in quanto conoscenza del limite che separa e distingue il mare dalla spiaggia, l’intelletto del processo infinito della conoscenza, da quello che impara, invece, il tempo compiuto.

L’esperienza senza metodo è «qualcosa che si poteva avere e non soltanto fare. Ma, una volta che l’esperienza sia riferita al soggetto della scienza, che non può giungere a maturità, ma solo accrescere le proprie conoscenze, essa diventa al contrario, qualcosa di essenzialmente infinito, un concetto “asintotico”, come dirà Kant, cioè qualcosa che si può solo fare e mai avere»[6].

L’esperienza della coscienza è una scienza, dice Hegel, che ne spiega il divenire, che spiega, cioè, che essa coscienza è movimento verso la scienza e la sua assolutezza, e che questo movimento, ossia l’esperienza (ex-per-ientia, provenire da e andare attraverso) è già esso stesso scienza. Si tratta del movimento dialettico per cui l’esperienza, in quanto esperienza della coscienza, fa di questa una realtà negativa, che giunge a sé solo divenendo infinitamente, non avendosi mai se non nel modo di un’ interezza in divenire: l’esperienza sempre si fa, è sempre da farsi, ed è per questo processo che essa diventa la forma della coscienza, esperienza che spumeggia al sapere assoluto la sua infinità[7].

Avere esperienza, invece, portare l’acqua dal mare alla spiaggia, ecco l’infanzia sconosciuta.

«La verità non è un disvelamento che distrugga il mistero, bensì una rivelazione che gli rende giustizia», dice Benjamin[8].

Mi sembra che si possa considerare questa affermazione adeguata alla comprensione del vero che è propria dell’infanzia, un’affermazione adeguata a illuminare il movimento dell’intelletto del fanciullo e della sua azione nel mondo. E non è certo la mia una comprensione di ordine pedagogico. Se fosse così, non sarebbe valsa la pena di rivendicare la necessità di lasciare spazio alla riflessione su questa soggettività che non è adulta e sui diritti che le appartengono e che da essa dovrebbero venire, se fosse lasciata a se stessa, quei diritti che da essa possono venire, se a essa guardiamo prima che venga educata, prima che venga condotta fuori di sé.

Poca cosa potrebbe essere considerata la frase di Benjamin sulla verità, contenuta nella premessa al Dramma barocco tedesco.

Agli occhi di alcuni sembrerebbe una delle affermazioni che mirano al gusto filosofico e non alla ragione sistematica, e, dunque, un’affermazione che sarebbe specchio della brevità del valore teoretico che molti ritengono abbia la scrittura di Benjamin. Ma a noi questo filosofo appare sotto tutt’altra luce. Così seguiamo per un tratto la sua traccia. E ricordiamo, allora che Benjamin, oltre al numero assai significativo di pagine dedicate all’infanzia, non mancò di tenere insieme nella riflessione sulla storia e il suo angelo, il rapporto tra queste due realtà. Egli dice, infatti, che i bambini sono i rappresentanti del paradiso. L’angelo della storia che guarda alla realtà del mondo con tenerezza e profondità, è un bambino e ha lo stesso sguardo del fanciullo che non si curò delle correzioni di Agostino: il filosofo avrebbe voluto distoglierlo dall’intenzione di portare tutto il mare nella buca di sabbia, avrebbe voluto correggerlo, insegnandogli come guardare alle cose[9].

Ma «L’infanzia, come suo movimento fondamentale, ha quello di inserire nuovamente gli oggetti che destano la sua attenzione nello spazio simbolico e, quindi, anche storico-ideologico. Una capacità, questa, che gli adulti hanno perduto, una possibilità che essi non percepiscono più ogni volta che incontrano le cose, le osservano, le usano»[10].

Per incrociare lo sguardo dei bambini e nel tentativo di coglierlo, è necessario non solo rivolgersi alle cose, ma lasciare che questo sguardo ribalti lo spazio nel quale le collochiamo e il tempo a cui le attribuiamo noi adulti. Bisogna toglierle dalla visione della certezza della loro posizione e lasciare che si muovano lì dove comincia l’incertezza di ogni dimensione, e quella della conoscenza tutta. Se a questo movimento di fluttuazione, che rende spontaneamente instabile la percezione del mondo del bambino, fosse lasciato accesso nella considerazione del reale da parte degli adulti, accadrebbe che le cose potrebbero acquistare un significato altro, e con il significato delle cose, tutt’altra consistenza potrebbe assumere la vita individuale e la comprensione del tempo storico con il suo definirsi in epoca.

Un altro luogo e un altro spazio, dunque, una dimensione che irrompe silenziosa, ricombinando eventi e oggetti, nella quale l’esperienza è salva. Così si rende giustizia alla verità, grazie a questo atto di trasposizione che vediamo compiere dal bambino, dal mare alla spiaggia.

Il bambino racconta il mondo, senza sapere di essere narratore, senza sapere di interrompere la relazione consueta tra il significato e il significante, dentro la quale la realtà si assesta: i bambini provocano in questa relazione sonorità nuove, lasciando aperta la strada di quella comprensione che ci fa ancora avere esperienza del mondo.

Quello che accade, dunque, ha a che fare con la capacità di trattenere il sapere non ancora saputo di tutto ciò che è stato già, di sottrarre al sonno la realtà vissuta, di condurla a ciò che essa custodisce e nasconde: a partire da questa riserva, a cui hanno accesso i bambini, nella quale essi sono tali, ogni storia, e la storia tutta, può tornare ad accadere di nuovo, può svegliarsi alla vita, nuovamente.

L’interruzione del significato, infatti, implica la rottura di ogni ordine storico: non si tratta di un ribaltamento, ma dello scioglimento dei legami di continuità tra il passato, il presente e il futuro. Questa pausa nel divenire accade per il tramite imprevisto di un istante nel quale il mondo è affidato alla conoscenza di quanto l’intelletto ha lasciato ai margini del suo procedere ininterrotto nella direzione della sintesi compiuta di tutta la molteplicità, che all’intelletto viene incontro. Sintesi che è dell’adulto, che è di colui che ha spiegato e fissato i significati di questa molteplicità, rinunciando allo stato in cui gli oggetti gli andavano incontro, volando[11].

Frammenti, li chiama Benjamin, pietre di scarto, cioè, voci inespresse, segreti mantenuti, presso i quali i bambini sanno indugiare. Questo istante, che coglie nel frammento la pienezza dell’intero, trova nel momento del risveglio la sua rappresentazione verosimile: è il risveglio quel momento, infatti, «identico all’adesso della conoscibilità in cui le cose assumono la loro vera – surrealistica – espressione»[12].

Gli adulti possono imparare questo momento, possono imparare a modularlo, tenendolo da parte, perché d’improvviso ricollochi il vero, fuori dai confini dell’unicità ideale. Gli adulti possono imparare a portare nella veglia del giorno quel momento del risveglio: è compito dei bambini insegnarlo agli adulti, è compito loro insegnare a prendere quello che è stato e che abbiamo ordinato nella memoria e nel sapere, a prenderlo e a collocarlo nel presente come fosse la lente con la quale la realtà è affidata alla libertà della significazione, al suo ondeggiamento, al malintendere.

«Il malintendere mi deformava il mondo. Ma in modo positivo: mi additava le strade che portano al suo intimo […] Se io deformavo in questo modo me stesso e la lingua, facevo solo ciò che dovevo fare per mettere radici nella vita»[13].

Ma i bambini possono insegnare soltanto prima che sappiano di esserlo, prima, cioè che smettano di essere bambini. Essi stanno al mondo nel modo del passaggio, cogliendo nella realtà intera quello che vuole e può venire a essere ma non deve farlo di necessità.

I bambini non sanno di insegnare a riconoscere questa assenza, eppure se riuscissimo a guardare alla loro soggettività come a una soggettività altra ma autonoma, rispetto a quella dell’uomo adulto, sapremmo che essi soli, essendo liberi dal dato di fatto, sanno indicare la via che porta lì dove non si è ancora stati, lì dove vivono, contratte e invisibili, le figure della speranza. Nel mondo l’agire dei bambini è l’agire nel modo del gesto, quel gesto che insieme recepisce, distrugge e crea. Lo stare al mondo del bambino, infatti, non ha forma se non nell’improvvisazione, che è la risposta alla realtà in cui è collocato, è la distruzione dei confini e dei contenuti di questa posizione e la creazione di quello che la forma della realtà, il cui profilo corrisponde alla soggettività trascendentale e sistematica dell’adulto, non può lasciare che accada. Dal gesto del bambino, dalla sua rappresentazione del mondo, può venire alla storia questo accadere mai venuto a essere prima.

«Veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire che parla dal gesto infantile», scrive Benjamin in Programma per un teatro proletario dei bambini[14].

È questa la condizione nella quale la coscienza non è più sovrana, ma è posta in questo passaggio, come dal sonno alla veglia, passaggio occupato dai bambini e che consente loro di cogliere tutto quello che vive in mezzo a noi muto e marginale.

«Si giunge così al nucleo originario dell’esperienza, salvandone e trattenendone ciò che è perduto»[15].

Il volto della storia può avere i tratti del momento umano dimenticato, la cui memoria è nello sguardo inconsueto delle cose di cui sono destinatari i bambini.

Ma la soglia che essi occupano e dalla quale possiamo tornare ad affacciarci sul mondo, non deve essere consumata.

L’adulto deve passare oltre questo varco, deve decidere di consegnare alla storia l’immagine di essa che ha imparato a condividere con i bambini, immagine dell’infanzia, senza parola ancora, certo, che non deve avere parola, se del mondo l’uomo adulto deve tornare ad avere esperienza.

«Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora infante, questo è l’esperienza. […] Ma dal momento che vi è un’esperienza, che vi è un’infanzia dell’uomo, la cui espropriazione è il soggetto del linguaggio, il linguaggio si pone allora come il luogo in cui l’esperienza deve diventare verità»[16].

Ma di che verità si tratta? e di quale parola? Certo non di quella dalla quale riesce a sottrarre la metamorfosi dell’infanzia, verso cui l’adulto può essere sospinto.

Al contrario: si tratta della verità che testimonia l’esperienza dell’essere bambino, verità la cui parola è quella decisione che traduce nella società umana la realtà di coloro che ascoltano ciò che è muto, rappresentano ciò che è sepolto, costruiscono con le rovine. Benjamin dà il nome di contegno e di grazia a questa realtà. «Esiste la grazia dei bambini, ed esiste soprattutto come correttivo della società; è una delle indicazioni dateci in direzione della “felicità non disciplinata”»[17].

Verità che ha mutato la storia in speranza, ecco questa felicità, di cui può caricarsi l’adulto che ha saputo sostenere questo tirocinio dell’innocenza.

«Ciò che ha nell’infanzia la sua patria originaria, verso l’infanzia e attraverso l’infanzia deve mantenersi in viaggio»[18].

 

  1. Un esempio del naufragio dei diritti dell’infanzia

Vorrei portare un esempio della difficoltà di mantenersi in viaggio verso l’infanzia.

Il viaggio più frequente di cui siamo artefici ci fa navigare sul mare di internet e internet è uno dei primi luoghi abitati dai bambini. Cosa accade all’esperienza e alla comunicazione dei bambini che vivono come realtà quello che noi chiamiamo mondo virtuale? Cosa accade al bambino che gioca sullo spiaggia? Che ne è del fanciullo che sposta i pezzi sulla scacchiera?[19]

Certo è che siamo stati noi a creare per loro lo spazio virtuale, siamo stati noi a insegnare loro a collocarsi in esso e siamo stati noi a costringere i loro comportamenti all’abitudine di questa posizione: vogliamo tenerli impegnati per poterci dedicare “alle nostre cose”, alla nostra vita. dalla quale, dunque, inevitabilmente e consapevolmente, escludiamo i bambini. Così essi ormai occupano quello che solo noi chiamiamo ancora spazio virtuale, ma che è vissuto da loro senza distinzione con l’effettività reale.

Ma è uno spazio reale anche per gli adulti, in fondo, questa virtualità, visto che vale un business straordinario, prima di tutto l’industria dei videogiochi. Si calcola infatti che nel 2012 il fatturato annuo di questa produzione sia stato di 50 miliardi di dollari, superando l’industria del cinema prima e della musica poi.

È questa la colonizzazione più invasiva della identità del bambino, sottratta a se stessa nel momento della più potente manifestazione di sé, che è il gioco.

Gli esperti dicono che i bambini, con un’espressione assai truce chiamati nativi digitali, «sviluppano grande familiarità con forme di learning by doing e di problem solving in ambiente virtuale, dove ha minor peso la posta emotiva del fallimento e della sconfitta perché, contrariamente a quanto accade nel mondo reale, si può sempre ricominciare daccapo. Ciò comporta l’abitudine a ricerche ed esplorazioni coinvolgenti e dinamiche, interdisciplinari e multitasking, proiettate a una pronta esternalizzazione della conoscenza acquisita, attraverso elaborazioni creative e comunicazione dei contenuti prodotti, prima nella forma del file salvato per essere nuovamente aperto e modificato, inviato e condiviso; poi nella forma della comunicazione on line o sulla pagina personale del social network preferito»[20].

È questa, descritta nel modo della precisione dello slogan, la cultura definita partecipativa, partecipativa soltanto perché la diffusione straordinaria dei nuovi media e la fruizione capillare dei contenuti di internet, renderebbe facile l’esperienza della realtà tutta e la sua condivisione. La condivisione, cioè, si sarebbe tradotta in una tecnica, che è quella della diffusione di dati secondo il modello del coinvolgimento di cerchie concentriche di contatti, che possono estendersi inverosimilmente, in proporzione inversa all’intimità reale delle relazioni, che i contatti descrivono. E l’esperienza sarebbe divenuta il tempo dell’interfaccia, il tempo tra la faccia dell’utente e la faccia del computer.

Gli esperti dicono che siamo di fronte a una nuova forma di intelligenza del mondo e di sé.

Si intende sottolineare, cioè, come l’interazione del bambino con il computer e il web, determina alterazioni significative nel campo della percezione e delle emozioni, del ragionamento e della memoria. L’assunzione del modello reticolare e interattivo dell’ipertesto, proprio del web 2.0, comporta, infatti, un carico cognitivo che riesce a colmare fino a ostruire la memoria di lavoro, una quantità di stimoli che rende assai difficile la concentrazione profonda, e così risultano compromessi i processi di consolidamento dei ricordi a lungo termine, l’elaborazione critica delle informazioni ricevute, l’immaginazione e la riflessione. È, poi, sempre meno sviluppata la capacità di raccontare e di raccontare approfonditamente, di argomentare in modo lineare e in modo complesso e più ancora di costruire modelli originali di elaborazione del dato di fatto e della comprensione relazionale del proprio vissuto. Ma questo cambiamento non avrebbe connotazione alcuna, significherebbe soltanto l’ampliamento del paradigma di Gardner delle intelligenze multiple[21]. L’intelligenza digitale, una delle forme della mente, sarebbe connessa all’abilità cognitiva detta dell’opzione click, quell’attitudine, cioè, a utilizzare l’alternativa sì/no, acceso/spento, una competenza pratica, che consiste nell’analisi elementare di una molteplicità di informazioni e nella decisione rapida di fronte a un’opzione semplice, rapida fino a essere irriflessa[22].

Se comincia, poi, dalla prima infanzia, l’apprendimento digitale esige quel modello di intuizione imitativo degli adulti, che, evidentemente, smantella la solidità dell’autonomia conoscitiva del bambino perché indirizza la conoscenza nell’unica forma adeguata allo strumento con il quale l’apprendimento può determinarsi[23].

«E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo per sua essenza in atto»[24].

Davvero, dunque, unicità e separatezza dell’intelletto agente, di quell’intelletto di cui ciascuno è soggetto, al quale ciascuno diventa soggetto, intelletto che, più che mai nella forma del web e del calcolatore, è agente senza la vita dell’uomo.

E la pratica di crescere di fronte a questo intelletto è indotta dagli adulti nei bambini perché gli adulti possano vivere la loro vita senza i bambini, occupati da tutte le forme di distrazione e di decostruzione della loro soggettività specifica. I bambini, infatti, sempre più impiegano il loro tempo di fronte al medesimo strumento col quale gli adulti impiegano il loro, e con questo strumento costruiscono loro stessi e il mondo nel quale vivono da subito: è lo stesso strumento col quale gli adulti costruiscono se stessi e il mondo nel quale vivono loro, quello strumento, cioè, che loro hanno costruito e con il quale, dunque, costruiscono la soggettività dei bambini.

Soggetti, i bambini, non più interpellanti, allora, adulti anch’essi.

 

  1. I diritti sono una promessa dei bambini

Non dovremmo guardare all’infanzia per includerla nel nostro spazio storico, nel quadro della nostra conoscenza e della nostra considerazione morale e giuridica del mondo e delle relazioni interumane. L’attenzione nei loro confronti finisce, così, per essere uno dei modi con i quali difendiamo i nostri interessi.

Noi, che abbiamo lasciato il silenzio del bambino e non siamo più infanti, dobbiamo ancora imparare le parole che mantengono intatta l’esperienza del mondo che è dei bambini: è questa l’autorità dell’infanzia, a cui non ci sottoponiamo. E i diritti, invece, devono sottoporsi alla persona per la quale emergono come tali. I diritti non guardano a essa dall’alto, né girano lo sguardo all’indietro verso di lei, come fanno gli adulti che, attraverso i loro diritti, chiamano a sé i bambini. I diritti si sollevano, questo è il loro movimento, si innalzano dalla persona a cui appartengono.

Questo non vuol dire che l’attenzione della comunità internazionale alle condizioni dell’infanzia sia vuota di significato, né che le dichiarazioni che la riguardano, scritte con l’intenzione di tutelarla, vengano meno a questa intenzione. Ma qual è il significato di cui parliamo e qual è il modo di questa tutela?

«La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi della scacchiera: reggimento di un fanciullo»[25].

L’affermazione contenuta nel frammento di Eraclito, secondo la quale la vita è un fanciullo, suggerisce di considerare l’infanzia non come una fase della vita ma come il modo appropriato di viverla, come quella possibilità, che nella vita è inscritta, di giungere alla vita stessa, di raggiungerla.

Aών è la parola greca che è stata tradotta con vita. Il termine si riferisce al tempo collocato oltre la continuità cronologica, per cui αών è spesso giustamente tradotto come eternità[26]. Ma il riferimento a un momento sottratto alla consequenzialità storica, a cui il termine greco rimanda, e più che mai nel frammento eracliteo, riguarda anche l’inadeguatezza di questo momento rispetto al fluire del tempo, la sua sconvenienza: si tratta, infatti di quel momento il cui accadere riesce a interrompere la linearità dell’estensione cronologica, per cui è un momento fuori dal tempo perché inappropriato al suo svolgimento.

Se, con Eraclito, possiamo descrivere l’infanzia come tempo inadeguato alla linearità storica e non come una stagione della vita, sottraendoci all’interpretazione per la quale l’infanzia va collocata nella progressione sequenziale della storia cronologica, riconosceremo la forza costruttiva di tale dislocazione.

L’infanzia, concepita come tappa di un’esistenza, è l’infanzia della macropolitica, l’infanzia maggioritaria, per usare le espressioni del filosofo e pedagogista Kohan, infanzia oggetto di educazione, «in conformità con i modelli della formazione, quell’infanzia che ha a che fare con le politiche pubbliche, gli statuti, i parametri dell’educazione infantile, le scuole, le case di accoglienza per i minori. Esistono anche altre infanzie, le quali abitano altre temporalità, altre linee, infanzie minoritarie. Infanzie affermate come esperienza, come avvenimento, come rottura della storia, come rivoluzione, come resistenza e come creazione. […] Infanzie che si fanno possibili negli spazi in cui non si fissa ciò che qualcuno può e deve essere, in cui non si anticipa l’esperienza dell’altro»[27].

La vita è reggimento di un fanciullo ed egli è sovrano spostando i pezzi sulla scacchiera: il frammento di Eraclito esprime efficacemente anche l’evidenza dell’autorità e del potere della soggettività dei bambini, di coloro in relazione ai quali agli adulti può tornare in mente il momento umano dimenticato.

Per tale memoria, bisogna spostare i pezzi sulla scacchiera, dunque, bisogna infrangere la legge che dà forma alla soggettività adulta, la stessa legge che ha costruito l’iniquità del mondo e costringe i bambini nel correttivo del suo diritto.

I diritti dei bambini, scritti da una società adulta che non si mantiene in viaggio verso l’infanzia, sono diritti senza realtà, diritti privi della potenza creatrice di quella profezia del bene, che appartiene al gesto sempre sovversivo dell’infanzia. Sono diritti colpevoli, perché smentiti dall’ingiustizia nella quale, nella realtà concreta, la vita dei bambini è condotta. Smentiti dall’attualità della loro assenza dalla storia politica che ha scritto di loro. Proprio a partire, cioè, dalle carte e dalle dichiarazioni per i bambini, scritte senza di loro.

«E un Angelo arrivò con una chiave lucida e aprì le loro bare, li rese tutti liberi».

 


[1] Secondo alcuni, il concetto che i diritti siano applicabili ai bambini è filosoficamente incoerente poiché i diritti consistono nel poter determinare gli obblighi che gli altri hanno verso di noi, e un bambino non ha la capacità di imporre la sua volontà in quel senso, cfr. S. Marks-A. Clapham, Lessico dei diritti umani, tr. it. Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 67. Ho fatto questo breve riferimento alla posizione di Marks e Clapham per meglio evidenziare che l’interesse della presente riflessione non riguarda la questione che essi prendono in esame, per quanto il tema della volontà dei bambini rimane un tema decisivo, rispetto alla questione dei loro diritti.

[2] I paesi che non hanno tuttora aderito alla Convenzione sono gli Stati Uniti e la Somalia.

[3] Il racconto va avanti con le parole di commento del bambino «Così proseguii il mio cammino. Non avevo fatto nemmeno dieci passi che il bambino alle mie spalle rispose. “Forse hai ragione Agostino, ma sappi che è più facile per me travasare qui le acque dell'intero Oceano che alla tua mente scorgere i confini dell'amore di Dio”». L’episodio, che godrà di molta fortuna nella iconografia agostiniana e nella letteratura medievale in genere, per alcuni è soltanto una leggenda, per altri una storia raccontata dal santo al vescovo di Gerusalemme Cirillo in una lettera considerata apocrifa. Questa leggenda è riportata dagli autori Alberto da Siena, Alberto di Padova, Giacomo Gherardi detto il Volterrano, Martin Antonio Del Rio, oltre ai resoconti dei Registri dell’Ordine Agostiniano e delle visite pastorali dei Vescovi di Corneto. Il fatto avrebbe avuto luogo nei pressi dll’Eremo della SS. Trinità de Centumcellis presso Allumiere.

[4] G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, nuova edizione accresciuta, Einaudi, Torino 2001, p. 13.

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 17.

[7] Il riferimento è ai versi di Schiller che chiudono la Fenomenologia dello Spirito. Vedi G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. Bompiani, Milano 2000, p. 1065.

[8] W. Benjamin, Dramma barocco tedesco, tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 7.

[9] Vedi Id., Sul concetto di storia, tr. it. Einaudi, Torino 1997; e Id., Angelus Novus. Saggi e Frammenti, tr. it. Einaudi, Torino 1995.

[10] F. Cappa-M. Negri, Introduzione a W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 13.

[11] Si veda R. Musil, L’uomo senza qualità, 2 voll., tr. it. Einaudi, Torino 1972.

[12] W. Benjamin, I “passages” di Parigi, tr. it. Einaudi, Torino 2007, 2 voll., p. 922.

[13] Id., Infanzia berlinese. Intorno al millenovecento, tr. it. Einaudi, Torino 1973, pp. 54-57. Vedi anche Id., Strada a senso unico, nuova edizione accresciuta, tr. it. Einaudi, Torino 2006.

[14] Id., Programma per un teatro proletario dei bambini, in Figure dell’infanzia, cit., p. 226.

[15] R. Infelise Fronza, La saggezza dell’infanzia e il mondo intermedio, in «Aut Aut», 191-192, 1982, p. 174.

[16] G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, cit., p. 49.

[17] W. Benjamin, Lettere. 1913-1940, tr. it. Einaudi, Torino, 1978, p. 403.

[18] G. Agamben, Infanzia e storia, cit. p. 51-52.

[19] Il riferimento è al frammento di Eraclito DK 22 B 52.

[20] G.Del Missier, I bambini e i media, in S. Zamboni (a cura di), Etica dell’infanzia. Questioni aperte, Lateran Univerity Press, Roma 2013, p. 163.

[21] Vedi H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, tr. it. Feltrinelli, Milano 2010.

[22] Cfr. S. Mantovani-P. Ferri (a cura di), Digital Kids. Come i bambini usano il computer e come potrebbero usarlo genitori e insegnanti, Etas, Milano 2008.

[23] Cfr. L. Caronia-A.H. Caron, Crescere senza fili. I nuovi riti dell’interazione sociale, Raffaello Cortina, Milano 2010.

[24] Aristotele, Anima, tr. it. Bompiani, Milano 2001, p. 219.

[25] Eraclito, Frammento DK 22 B 52, in G. Colli, La sapienza greca, vol. III, Adelphi, Milano 1993, p. 89.

[26] Non approfondisco in questa sede il valore concettuale e gli innumerevoli rimandi filosofici di questa parola, la cui ricchezza necessità dell’ampiezza propria di altri contesti di riflessione.

[27] W.O. Kohan, Note filosofiche sull’educazione dell’infanzia, in Infanzia e filosofia, tr. it. Morlacchi Editore, Perugia 2006, pp. 52-53.

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