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La scienza, la “strategia dello sguardo” e l’abduzione

Autore


Silvano Tagliagambe

Università di Sassari

Già Vicepresidente del CRS4 (Centro di Ricerca, Sviluppo, Studi Superiori in Sardegna) durante la presidenza di Carlo Rubbia, è Professore Emerito di Logica e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari (sede gemmata di Alghero)

Indice


  1. Tutto è cominciato con il Sidereus Nuncius
  2. Scienza e fantascienza: il cinema come strumento di una nuova strategia dello sguardo
  3. La funzione dell’immaginazione e delle rappresentazioni visive nella scoperta scientifica

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Science,“strategy of Sight” and Abduction

With the Sidereus Nuncius of Galilei (1610) begins not only modern science but also “the strategy of sight” of scientific research. This method involves the use of mathematics to show scientific discoveries to the eyes of each one, as well as philosophers and astronomy specialists. The strategy of sight offers, through highly accurate drawings and images, the statement of things literally never seen before, enhancing and extending man's view for the first time in a possibly infinite space, certainly much larger than the enclosed area of ​​the Aristotelian- Ptolemaic system. The truth, in fact, can be seen, not only deduced by abstract logic. The beginning of Einstein's theory of relativity is therefore the extraordinary ability to imagine how the world can be made, namely the strategy of sight from which sprang a hypothesis produced by abductive method rather than inductive method. In hypothetical reasoning or abduction the scientist leads to the conclusion that there is a fact completely different from any other observed, a fact unprecedented, whose strength and whose power of conviction are able to make natural and understandable a dark and impenetrable puzzle of data.


  1. Tutto è cominciato con il Sidereus Nuncius

  2. Il Sidereus Nuncius non segna soltanto la nascita della scienza moderna: esso può essere considerato anche la fase iniziale di quella che possiamo chiamare una “strategia dello sguardo” da parte della ricerca. Pubblicato a Venezia il 12 marzo 1610 in una tiratura iniziale di 550 copie dalla stamperia Tommaso Baglioni è un agile volumetto, di circa sessanta pagine, in cui Galileo presenta e riassume le scoperte effettuate nei mesi precedenti con l’uso di un cannocchiale rivolto al cielo per delle osservazioni notturne.

    Nei mesi precedenti, Galileo si è dedicato prima al perfezionamento tecnico del cannocchiale, ideato nel 1608 in Olanda da Hans Lippershey, sfruttando le competenze dell’Arsenale di Venezia e il sostegno economico del Senato veneziano interessato anche alle ricadute militari delle ricerche galileiane sullo strumento. Nelle prime pagine della sua opera l’autore è assai scrupoloso nel definire le caratteristiche fondamentali del suo strumento:

    si procurino in primo luogo un cannocchiale perfettissimo, il quale rappresenti gli oggetti chiari, distinti e sgombri d’ogni caligine, e che li ingrandisca di almeno quattrocento volte [...] che se tale non sarà lo strumento, invano si tenterà di osservare tutte quelle cose che da noi furono viste nel cielo e che più oltre saranno enumerate[1].

    Quando lo scienziato volge lo strumento così definito al cielo, scopre qualcosa che gli permette di smontare e rivoluzionare la conoscenza del suo tempo. La prima grande novità è relativa alla superficie della luna, che secondo la fisica e la cosmologia tradizionali, ancorate al principio di autorità e all’ossequio alla teoria geocentirca tolemaica, doveva essere liscia e perfetta come una sfera. In realtà Galileo nota, grazie alle macchie e le ombre prodotte dal Sole, che le cose non stanno affatto così: e la cosa interessante ai fini del nostro discorso è che egli correda i resoconti delle sue osservazioni con disegni tratti direttamente dall’osservazione col telescopio: alla comunicazione attraverso la scrittura egli abbina dunque, rinforzandola considerevolmente e rendendola assai più immediata e diretta, quella per immagini, attraverso riproduzioni estremamente accurate, da lui stesso disegnate, della superficie della luna nelle diverse fasi d’illuminazione solare, per dimostrare che la superficie lunare non è «affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima […], ma al contrario aspera et inaequali», cioè, scabra e disuguale, con rilievi di diverse altezze, piena di cavità e di sporgenze non altrimenti che la faccia stessa della terra.

    L’impatto di queste figure è enorme: il lettore secentesco non può non rimanere colpito dalla differenza tra ciò che Galileo ha visto con il telescopio, e che ripropone al lettore in modo immediatamente comprensibile a tutti, e ciò che l’uomo aveva fino a quel momento visto a occhio nudo. Per questo il Sidereus Nuncius può essere considerato l’atto fondativo di un nuovo genere letterario, rendiconto asciutto per immagini, talmente ben congegnato da contribuire a fare del suo autore l’artefice di un metodo totalmente nuovo di rappresentare i fenomeni naturali. Questo metodo prevede l’uso della matematica per comunicare le scoperte al mondo della ricerca con il proposito di mostrare i risultati del proprio lavoro allo sguardo d’ognuno, oltre che dei filosofi e degli specialisti d’astronomia. Dunque, potenzialmente non solo agli esperti, ma a chiunque abbia “occhi nella fronte e nel cervello” e abbia voglia di accostarsi al canocchiale per effettuare in prima persona “sensate osservazioni”.

    A un genere letterario nuovo ed efficace nel comunicare il riassunto di fenomeni fino ad allora ignoti, esposti con una prosa estremamente incisiva, agile nel ragionamento ed economica nell’argomentazione viene così abbinata, come detto, un’inedita strategia dello sguardo che offre, attraverso disegni e immagini estremamente accurate, il rendiconto di cose letteralmente mai viste prima, potenziando la vista dell’uomo ed estendendola per la prima volta in uno spazio forse infinito, certamente molto più esteso di quello chiuso e un po’ asfittico del sistema aristotelico-tolemaico.

    Con questa sua rivoluzione Galileo dunque non solo vede, ma fa vedere a chiunque sia interessato che il mondo è diverso da quella che la conoscenza fino a quel momento disponibile ci proponeva. Il 1610 può quindi essere considerato, come ha sottolineato Pietro Greco[2], l’anno d’inizio della stagione in cui la verità si può vedere, e non solo dedurre con logica astratta, anziché matematizzata. E Galileo è pienamente consapevole della portata universalistica di questa sua rivoluzione, come dimostra il fatto che scrive:

    Parmi necessario, oltre a le altre circuspezioni, per mantenere et augumentare il grido di questi scoprimenti, il fare che con l’effetto stesso sia veduta et riconosciuta la verità da più persone che sia possibile: il che ho fatto et vo facendo in Venezia et in Padova. Ma perché gl’occhiali esquisitissimi et atti a mostrar tutte le osservazioni sono molto rari, et io, tra più di 6 fatti con grande spesa et fatica, non ne ho potuti elegger se non piccolissimo numero, però questi pochi havevo disegnato di mandargli a gran principi, et in particolare a i parenti del S. G. D.: et di già me ne hanno fatti domandare i Ser.mi D. di Baviera et Elettore di Colonia, et anco l’Ill.mo et Rev.mo S. Card. Dal Monte; a i quali quanto prima gli manderò, insieme col trattato. Il mio desiderio sarebbe di mandarne ancora in Francia, Spagna, Pollonia, Austria, Mantova, Modena, Urbino, et dove più piacesse a S. A. S.; ma senza un poco di appoggio et favore di costà non saprei come incaminarli.

    2. Scienza e fantascienza: il cinema come strumento di una nuova strategia dello sguardo

Se abbiamo ricordato la data di avvio di quella che può essere considerata una vera e propria rivoluzione epistemologica, è perché quello che è successo con la conferma della previsione di Einstein dell'esistenza delle onde gravitazionali – sottili increspature nello spazio-tempo prodotte da oggetti massicci che sfrecciano nel cosmo – richiama per diversi aspetti significativi questo illustre precedente.

Quello che è accaduto è noto. Gli scienziati del Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO) di entrambi gli strumenti gemelli a Livingston, in Louisiana, e a Hanford, nello Stato di Washington, hanno annunciato di aver rilevato contemporaneamente, il 14 settembre dello scorso anno, un cinguettio gorgogliante di onde gravitazionali prodotte nell’ultima frazione di secondo del processo di fusione di due buchi neri in un unico buco nero ruotante più massiccio. I due buchi neri originari avevano masse rispettivamente di circa 29 e 36 masse solari e sono collassati uno sull'altro dando origine a un unico buco nero ruotante più massiccio di circa 62 masse solari. Le 3 masse solari mancanti al totale della somma equivalgono all’energia emessa durante il processo di fusione dei due buchi neri, sotto forma di onde gravitazionali che, come uno tsunami galattico, hanno viaggiato alla velocità della luce per più di un miliardo di anni, finendo per investire, indebolite, il nostro pianeta nel settembre scorso, e impiegando appena sette millesimi di secondo per attraversare la distanza tra le due stazioni di rilevazione gemelle di LIGO (Laser interferometer gravitational-waves observatory: osservatorio di onde gravitazionali a interferometria laser), una in Louisiana e l'altra nello Stato di Washington. L’importante risultato, pubblicato sulla rivista scientifica «Physical Review Letters», è stato annunciato dalle collaborazioni LIGO e VIRGO, che fa capo allo European Gravitational Observatory (EGO), fondato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) italiano e dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) francese, nel corso di due conferenze simultanee, negli Stati Uniti a Washington, e in Italia a Cascina (Pisa), nella sede di EGO, il laboratorio nel quale si trova l’interferometro VIRGO, progetto ideato, realizzato e condotto appunto dall’INFN e dal CNRS con il contributo di Nikhef (Paesi Bassi), e in collaborazione con POLGRAW – Polska Akademia Nauk (Polonia) e Wigner Institute (Ungheria).

Alla costruzione di queste antenne hanno partecipato decine di fisici, tecnici, ingegneri, e torme di studenti. Per decenni. Tre sono gli scienziati che hanno fondato, quasi 25 anni fa, il Ligo e hanno quindi avuto un ruolo rilevante nell’ideare l’esperimento che oggi ha permesso di vedere onde di tipo completamente nuovo, che nessuno aveva mai visto prima: Rainer Weiss, del Massachusetts Institute of Technology, Ronald Drever e Kip Thorne del California Institute of Technology. Dei tre, quest’ultimo è il teorico. Collega e amico di Stephen Hawking, è grazie ai suoi studi sulla forza delle onde gravitazionali e su quali indizi possiamo cercare dalla Terra che è stato possibile sviluppare l’esperimento Ligo. A ideare l’apparato sperimentale sono stati gli altri due: Rainer Weiss, che ha introdotto l’idea di utilizzare gli interferometri laser per l’osservazione delle onde gravitazionali, e Ronald Drever, che ha sviluppato il meccanismo con cui vengono stabilizzati i laser del Ligo. È grazie al lavoro di questi due fisici sperimentali che è stato possibile sviluppare uno strumento talmente preciso che può misurare una variazione mille volte inferiore alla grandezza di un nucleo atomico, su una distanza di quattro chilometri.

Se qui concentriamo la nostra attenzione su Thorne, uno dei grandi relativisti del nostro tempo, non è per far torto ai suoi due colleghi, che hanno avuto il grande merito di escogitare una lunga serie di trucchi ingegnosi per ridurre il rumore di fondo e migliorare la sensibilità degli strumenti fino a raggiungere i livelli incredibili che hanno permesso di raggiungere il risultato atteso, ma perché all’attività di ricercatore autorevole e impegnato egli ha abbinato la funzione di rigoroso divulgatore scientifico e, soprattutto, come ha magistralmente spiegato Roberto Battiston in una recente conferenza[3], di attivo ideatore e realizzatore di una nuova forma di “strategia dello sguardo”, basata sull’alleanza di scienza e fantascienza, di ricerca scientifica e cinema.

Nella prima veste ha scritto nel 1994 il saggio di divulgazione scientifica Black Holes and Time Warps: Einstein’s Outrageous Legacy[4], con Prefazione di Stephen Hawking, nel quale descrive con linguaggio accessibile le caratteristiche estreme dello spazio e del tempo tipiche della scienza dei buchi neri e ci presenta il quadro affascinante che ne risulta, fino a prendere in esame l’ipotesi dei cunicoli spazio-temporali, i cosiddetti “buchi di verme” (wormholes), una sorta di "scorciatoia" da un punto dell’universo a un altro, che permetterebbe di viaggiare tra di essi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale.

Già con quest’opera, combinando princìpi fisici comprovati e geniali intuizioni, Thorne intendeva mettere a disposizione anche dei non specialisti una potente fonte di ispirazione dell’immaginario contemporaneo, aiutando chiunque sia interessato a districarsi – tra sbalzi, vicoli ciechi e sforzi di comprensione – nelle complessità dell’Universo. È tuttavia con la sua attiva e decisiva collaborazione con il mondo del cinema, prima come consulente scientifico di Robert Zemeckis per il film Contact (in cui la scienziata Ellie Arroway, interpretata da Jodie Foster, riesce a viaggiare, appunto, attraverso un tunnel spaziotemporale) e poi come mente dietro l’impressionante rappresentazione di viaggi interspaziali, buchi neri, relatività nei piani temporali e molto altro offerta da Interstellar, film di fantascienza made in USA e ambientato in un ventunesimo secolo alternativo in cui la terra è devastata da terribili piaghe atmosferiche.

Questo film era in cantiere già dal 2006, quando la Paramount Pictures l'aveva affidato a Steven Spielberg, per consegnarlo successivamente nel 2013 nelle mani di Christopher Nolan che l’ha portato a compimento nel 2014 vincendo il premio Oscar 2015 per i migliori effetti speciali. Con l’aiuto decisivo di Thorne, Nolan è riuscito a costruire un universo visivamente elegante, straordinario e potente, giocando con cognizione di causa con la relatività generale, le leggi fisiche della gravità e dello spazio-tempo, e fornendo una descrizione estremamente curata di molti dettagli scientifici. Il senso complessivo dell’operazione è stato spiegato da Thorne in un libro con introduzione di Nolan, uscito in concomitanza con il film, dal titolo The science of Intestellar[5], pubblicato solo negli Stati Uniti, dove vengono accuratamente descritte tutte le teorie utilizzate nella sceneggiatura. L’obiettivo è quello di spiegare che gli effetti visivi proposti per la prima volta nella pellicola, soprattutto per quanto riguarda wormholes, buchi neri, i viaggi interstellari, si fondano sulle più avanzate teorie scientifiche di cui disponiamo e ci forniscono una rappresentazione rigorosa delle leggi fisiche che governano il nostro universo e dei fenomeni davvero sorprendenti che esse rendono possibile

Proprio richiamandosi a questa pubblicazione e facendo un consuntivo della sua opera, Nolan può dunque affermare:

I miei film sono sempre legati a standard elevati perché sollevano problemi che non sono presenti nei lavori degli altri registi, il che mi va bene. Kip Thorne, l'astrofisico che ha collaborato alla sceneggiatura di Interstellar, ha scritto un libro sulla scienza del film in cui spiega ciò che è reale e ciò che è mera speculazione, perché ovviamente larga parte del plot è speculazione.

Al di là del valore artistico del film, sul quale si è molto discusso, quello che è importante sottolineare è che con questa collaborazione a un’opera cinematografica comunque ardita e coraggiosa Thorne si propone come erede della “strategia dello sguardo”, inaugurata da Galileo con il Sidereus Nuncius. Il suo proposito infatti è manifestamente quello di dilatare e potenziare la capacità di vedere e di immaginare degli spettatori, contribuendo a metterli in condizione, anche in questo caso, di vedere la verità scientifica, anziché limitarsi a dedurla e a comprenderla con la logica astratta e con la capacità di astrazione della mente.

  1. La funzione dell’immaginazione e delle rappresentazioni visive nella scoperta scientifica

L’operazione complessiva ideate e realizzata da Thorne non è importante solo ai fini della divulgazione scientifica: può risultare di grande rilievo anche ai fini degli sviluppi della stessa ricerca.

A dare sostegno a questa eventualità e a renderla qualcosa di più di una mera e lontana ipotesi c’è l’importanza che l’immagine mentale del mondo, la capacità di immaginare la realtà, ha avuto nella formulazione di quella che lo stesso Einstein ha definito «l’idea più felice della mia vita», che racconta così nella sua Autobiografia:

Stavo seduto in una poltrona nell’Ufficio Brevetti di Berna, quando all’improvviso mi ritrovai a pensare: se una persona cade liberamente, non avverte il proprio peso. Rimasi stupefatto. Questo pensiero così semplice mi colpì profondamente e ne venni sospinto verso una teoria della gravitazione.

Sulla base di questo principio, già nel 1907, Einstein sente di poter elaborare una teoria della relatività più generale di quella formulata nel 1905, perché in grado di spiegare anche il comportamento dei corpi soggetti alla forza di gravità. Detta in altri termini, Einstein comprende di poter elaborare una nuova teoria della gravitazione universale in grado di spiegare, a differenza di quella di Isaac Newton, anche il comportamento dei corpi che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce. A frenarlo negli sviluppi di questa immagine e nella sua traduzione in una forma compiuta tale da dargli la possibilità di annunciare pubblicamente la sua nuova teoria della relatività generale è il suo difficile rapporto con la matematica. Ecco perché, cinque anni dopo, nell’agosto del 1912, si rivolge all’amico matematico Marcel Grossmann, suo collega al Politecnico di Zurigo, chiedendogli aiuto. Grossmann lo indirizza verso il matematico italiano Gregorio Ricci Curbastro, il quale ha già inventato la “nuova matematica” di cui ha bisogno Einstein, il calcolo differenziale assoluto, e l’ha poi sviluppata con l’aiuto del suo discepolo Tullio Levi Civita. Albert Einstein studia questo nuovo calcolo ed entra in contatto – un lungo dialogo epistolare – con Tullio Levi Civita. Non è tuttavia facile tradurre l’immagine fisica dell’uomo in caduta libera che non sente più il suo peso in una formula matematica che contenga una nuova teoria della gravitazione universale. Occorrono ancora molto fatica e molto studio: soltanto tre anni e tre mesi dopo, nel 1915, Albert Einstein, nel frattempo trasferitosi a Berlino, riesce a compiere questo passo decisivo elaborando in maniera formale la sua teoria della relatività generale e riuscendo a scrivere un’equazione –contenente un operatore matematico che, rendendo il dovuto riconoscimento a Ricci Curbastro, si chiama “tensore di Ricci” – che descrive come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo spaziotempo.

All’inizio e alla base di tutto, però, c’era la capacità straordinaria di immaginare come il mondo potesse essere fatto e di svilupparla con coraggio e tenacia pur in assenza di osservazioni, di dati e di esperimenti a sostegno. C’era cioè quella che abbiamo chiamato una strategia dello sguardo dalla quale è scaturita un’ipotesi prodotta per via abduttiva, piuttosto che induttiva. Le differenze tra l’induzione e l’abduzione (o retroduzione, o ragionamento ipotetico) ce le spiega bene Pierce[6] e sono sostanzialmente due: in primo luogo nell’induzione, si conclude che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati (così, per esempio, dal fatto che i corvi finora osservati sono risultati tutti neri si conclude che anche gli altri corvi saranno neri), mentre nel ragionamento ipotetico o abduzione si giunge alla conclusione che esiste un fatto completamente diverso da qualsiasi altro osservato, un fatto inedito, la cui forza e il cui potere di convinzione consistono nel rendere naturale e comprensibile un puzzle di dati altrimenti oscuro e impenetrabile; in secondo luogo, mentre l’induzione classifica, l’abduzione spiega.

Lo schema del ragionamento per abduzione è il seguente:

  1. Si osserva C, un fatto sorprendente.
  2. Ma se A fosse vero, allora C sarebbe naturale.
  3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero.

Ciò che in simile schema si sostiene è che una certa congettura (o ipotesi), cioè che A sia vero, vale la pena di essere presa in considerazione. L’abduzione è pertanto il frutto del momento inventivo, creativo dello scienziato, dell’attimo fortunato dell’immaginazione scientifica che formula ipotesi esplicative generalizzate, le quali, se confermate, diventano leggi scientifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate. Ed è proprio l’abduzione a far progredire la scienza, che avanza da una parte sulla direttrice dell’inglobamento progressivo di fatti nuovi e insospettati che spingono per questo a escogitare nuove ipotesi capaci di spiegarli, e dall’altra su quella di una unificazione assiomatica delle leggi, attuata da quelle che si dicono le grandi idee semplici.

Lo aveva già genialmente intuito Henri Poincaré, il quale più di un secolo fa, con un’originalità e una capacità di anticipazione che ancora oggi non cessano di stupire, osservava, a proposito del comportamento dello scienziato, che egli deve, quando si trova di fronte ai dati e alle osservazioni che costituiscono il suo materiale di lavoro,

non tanto constatare le somiglianze e le differenze, quanto piuttosto individuare le affinità nascoste sotto le apparenti discrepanze. Le regole particolari sembrano a prima vista discordi, ma, a guardar meglio, ci si accorge in genere che sono simili; benché presentino differenze materiali, si rassomigliano per la forma e per l’ordine delle parti. Considerandole sotto questa angolazione, le vedremo ampliarsi, tendere a diventare onnicomprensive. Ed è questo che dà valore a certi fatti che vengono a completare un insieme, mostrando come esso sia l’immagine fedele di altri insiemi già noti. Non voglio insistere oltre; saranno sufficienti queste poche parole per mostrare che l’uomo di scienza non sceglie a caso i fatti che deve osservare [...]. Egli cerca piuttosto di concentrare molta esperienza e molto pensiero in un esiguo volume, ed è per questo motivo che un piccolo libro di fisica contiene così tante esperienze passate e un numero mille volte maggiore di esperienze possibili delle quali già si conosce il risultato[7].

L’uomo di scienza, dunque, non procede accatastando e accumulando fatti e dati, non agisce per sommatoria, bensì per intersezione e per incastro, riscontrando, sotto le diversità che si manifestano, ponti sottili e analogie non rilevabili da un occhio non esercitato ed esperto. Egli riesce, in tal modo, a stabilire collegamenti e a operare trasferimenti e sovrapposizioni che gli consentono di ridurre considerevolmente il volume delle esperienze, sia effettivamente realizzate, sia semplicemente possibili, di cui può disporre.

Dall’abduzione scaturiscono dunque la consapevolezza della funzione dell’immaginazione e del ruolo delle ipotesi nella scienza, e la spiegazione della loro efficacia, il che ci fa capire perché sia così importante quella che abbiamo chiamato la “strategia dello sguardo” e perché possa un domani risultare produttivo, anche ai fini della costruzione di nuove teorie scientifiche, l’immenso lavoro di traduzione dei concetti astratti della fisica contemporanea in rappresentazioni visive, fatto da Thorne con la sua partecipazione al lavoro di sceneggiatura e di suggerimento ed elaborazione di effetti speciali di film di fantascienza come Interstellar.

Per completezza di informazione e di argomentazione ci resta da aggiungere che Peirce, pur prendendo atto della priorità e della specifica funzione svolta dal processo d’inferenza ipotetica, ritiene che l’abduzione sia intimamente connessa con la deduzione e l’induzione. Lo è nel senso che, dovendo giudicare della ammissibilità della ipotesi, occorrerà che ogni vera ipotesi plausibile sia tale che da essa si possano dedurre delle conseguenze le quali, a loro volta, possano essere collaudate induttivamente, vale a dire speri­mentalmente. E a suo giudizio, una tale dipendenza non ha carattere unilaterale, in quanto egli considera l’induzione soprattutto come un metodo per collaudare le conclusioni; e queste conclusioni, a suo parere, sono sempre suggerite, per la prima volta, dall’inferenza ipotetica.

Con l’induzione, pertanto, si generalizzano e si collaudano le conseguenze che si possono dedurre da una data ipotesi; e questo è importante, in quanto ci fa capire che un’ipotesi scientifica può nascere in modo creativo, in virtù della forza dell’immaginazione, ma poi deve comunque essere sottoposta al controllo, imprescindibile, delle osservazioni e degli esperimenti. Come è puntualmente accaduto nel caso della teoria della relatività generale, nata da un’ardita immagine fisica, priva di riscontro osservativo, ma successivamente corroborata da verifiche classiche, proposte dallo stesso Einstein, come la precessione del perielio di Mercurio, la deflessione della luce in un campo gravitazionale e lo spostamento delle linee dello spettro di un corpo, come una stella, in un campo gravitazionale verso il violetto, se esso si sta avvicinando alla Terra, e verso il rosso se si sta allontanando.

A queste prime verifiche negli anni si sono aggiunte la scoperta del quasar, delle pulsar, del sottofondo a microonde, fino all’odierna conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali.

Risultano così chiarite sia la reciproca dipendenza di abduzione e induzione, sia la loro dipendenza comune dalla deduzione. Da queste relazioni scaturisce la precisa consapevolezza del fatto che il mondo e l’infinità dei fatti che lo compongono vengono da noi investiti, per comprenderli, prevederli e manipolarli, con ipotesi o congetture di carattere generale, dalle quali possiamo dedurre proposizioni singolari che, se verificate, confermano quelle ipotesi, che passano così al rango di leggi, comunque sempre rivedibili.

Dalla priorità dell’abduzione e dal suo legame con l’induzione e la deduzione possiamo infine ricavare anche una prima ma già sviluppata idea della asimmetria logica tra conferma e smentita, con conseguente adesione a un approccio non verificazionista.

Convinto che l’abduzione, dopo tutto, non sia altro che formulare ipotesi audaci e sostenitore – in sostanza – dell’induzione intesa come meccanismo di controllo e come analisi di fatti confermanti o confutanti una ipotesi proposta, Peirce non solo parla di fallibilismo, ma è il primo, per quanto se ne possa sapere, a parlare esplicitamente di falsificazione dell’ipotesi.

Molti pensatori, verso la fine del secolo, avevano cominciato a parlare di confutazione, smentita, contraddizione fattuale, rifiuto delle teorie e anche Peirce usa sporadicamente questa terminologia tipica del fallibilismo.

La cosa interessante è che egli non fa soltanto ricorso all’idea di confutazione, ma – forse per la prima volta – utilizza in modo consapevole il termine “falsificazione” come opposto alla “verificazione” delle teorie.

Ecco, infatti, cosa egli scrive nel saggio On the Algebra of Logic: A Contribution to the Philosophy of Notation:

Il problema è quello di vedere il senso che in logica è il più utilmente attribuito ad una proposizione ipotetica. Ora, la peculiarità della proposizione ipotetica è che essa va oltre lo stato attuale di cose […] e dichiara quel che capiterebbe se le cose fossero diverse da come sono o possono essere. Il vantaggio che ne deriva è che essa ci pone in possesso di una regola, cioè che «se A è vero, B è vero», tale che se in seguito dovessimo imparare qualcosa che ora non sappiamo, e cioè che A è vero, noi, in forza di questa regola, troveremmo che sappiamo qualche altra cosa, cioè che B è vero. Non v’è alcun dubbio che il Possibile, nel suo significato primario, è ciò che può esser vero per quanto ne sappiamo, e della cui falsità non sappiamo nulla. Lo scopo è raggiunto, allora, se nell’intero ambito della possibilità, in ogni stato di cose in cui A è vero, anche B è vero. La proposizione ipotetica può pertanto essere falsificata (may therefore be falsified) da un singolo stato di cose (by a single state of things), ma solo da uno in cui A è vera mentre B è falsa[8].


[1] G. Galilei, Sidereus Nuncius, a cura di A. Battistini, Venezia, Marsilio, 1993, p. 8.

[2] P. Greco, L’astro narrante. La luna nella scienza e nella letteratura italiane, Springer, Milano 2009.

[3] La conferenza di Roberto Battiston, dal titolo “Le stelle del cinema”, ha inaugurato, il 14 aprile 2016, la sesta edizione della Festa di Scienza e Filosofia di Foligno.

[4] K.S. Thorne, Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein (1994), tr. it. Castelvecchi, Roma 2013.

[5] K. S. Thorne, The science of Intestellar, Paperback W. W. Norton, New York 2014.

[6] La teoria dell’abduzione ha una sistemazione matura nell’articolo C.S. Peirce, Deduction, Induction, and Hypothesis, in «Popular Science Monthly», 13, 1878, pp. 470-482, ripubblicato in C. S. Peirce Collected Papers of Charles Sanders Peirce, 8 vols, Edited by Charles Hartshorne, Paul Weiss, and Arthur W. Burks, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1931–1958; vols. 1–6 edited by Charles Harteshorne and Paul Weiss, 1931–1935; vols. 7–8 edited by Arthur W. Burks, 1958, vol. II, pp. 619-644. Di particolare interesse sono anche le riflessioni contenute in History from ancient documents, Collected Papers, vol. VII, pp. 162-255; e in Hume on miracles, Collected Papers, vol. VI, pp. 522-547.

[7] J.-H. Poincaré, Scienza e metodo, ed. it. Einaudi, Torino 1997, pp. 14-15.

[8] C. S. Pierce, On the Algebra of Logic: A Contribution to the Philosophy of Notation, voll. III – V, 3.359–3.403, in «The American Journal of Mathematics», 7, 2, 1885, pp. 180–202; reprinted in Collected Papers of Charles Sanders Peirce, Charles Hartshorne and Paul Weiss (eds.), Harvard University Press, Cambridge MA 1960.

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