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La “neuroscienza della razza”. Note sparse tra natura, cultura e ideologia

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. Cos’è la “neuroscienza della razza”?
  2. Natura, cultura e ideologia: alcune note sulla “neuroscienza della razza”
  3. I “sé neurochimici”. Una conclusione

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


The “Neuroscience of the Race”. Remarks on Nature, Culture and Ideology


In this paper we intend to analyse the topic of the “Neuroscience of the race” and the relationship between “nature” and “culture” in this respect. After analyzing an important paper on the topic by Jennifer T. Kubota, Mahazarin R. Banaji and Elizabeth Phelps, the key issue is here identified as the mechanism that produces the relationship between nature and culture in late modernity. The path that will be followed is divided into three stages: first, we will analyze the relationship between the "Neuroscience" and the so-called "human nature"; second, we will approach the relationship between "Neuroscience" and "medical device" by analyzing the theoretical, practical and political roles of the medical concept of "prevention"; finally, will touch upon the “centrifugal” aspect of human being that emerges from such studies.


  1. Cos’è la “neuroscienza della razza”?

Nel 2012 è stato pubblicato su un’autorevole rivista statunitense un articolo ad opera di Jennifer T. Kubota, Mahzarin R. Banaji e Elizabeth Phelps dal titolo evocativo The neuroscience of race[1]. Si tratta di uno studio che parte da un problema eminentemente sociale, il fatto che la composizione razziale delle società moderne cambia costantemente e che dunque le interazioni tra rappresentanti di gruppi etnici differenti sono tendenzialmente e necessariamente in crescita[2]. L’articolo, dunque, è giocato su due elementi fondamentali: da un lato, centrale è il problema dell’interazione tra gruppi differenti – problema che riguarda quello che con una formula consolidata in ambito anglo-sassone viene definito decision-making e che afferisce immediatamente all'ambito degli scambi economici come modello per ogni altra forma di "scambio umano e culturale"; dall’altro – e proprio a favorire un’interazione economico-sociale “sana” ed “equilibrata” – fondamentale risulta essere l’analisi di tutte le parti del cervello umano che sarebbero implicate nella relazione tra la percezione della razza e dell’appartenenza ad un determinato gruppo e i dispositivi e le dinamiche che portano a prendere una determinata decisione all’interno di un determinato contesto. L’elemento assolutamente innovativo che l’articolo presenterebbe sarebbe proprio questo, il fatto che nei processi cerebrali che riguardano il riconoscimento, la percezione e il pregiudizio nei confronti dell’appartenenza razziale siano pienamente implicati i processi che riguardano il decision-making: in parole semplici, nel momento in cui dobbiamo prendere una decisione per agire in un determinato contesto interetnico, allora si attiverebbero una serie di risposte (più o meno) automatiche che riguardano il pregiudizio o, in generale, la percezione della propria e dell’altrui appartenenza ad un determinato gruppo etnico; tutto questo – e soprattutto l’elemento pregiudiziale – rischierebbe di impedire un’interazione normale.

Senza entrare troppo nello specifico dei dati riportati dagli autori dell’articolo, basti sapere che si tratta di una sorta di summa di tutti gli studi dedicati alla questione della “razza”, dal punto di vista delle neuroscienze cognitive, svoltisi negli ultimi due decenni, e che si presenta come un tentativo di porre degli elementi-base di comprensione del problema e di aprire nuove possibilità di studio e di intervento preventivo per il futuro. Gli studi che vengono analizzati e di cui si cerca di “tirare le conclusioni” sono stati tutti svolti mediante la tecnologia del fMRI e quindi rientrano pienamente nelle pratiche neuroscientifiche e, proprio in questo senso, un altro elemento piuttosto interessante riguarda la relazione tra quanto sembrano indicare le risposte “automatiche” (e, su questo automatismo, occorrerà poi soffermarsi) dei cervelli degli intervistati e le risposte “consapevoli” ai questionari sulla percezione della razza che, in chiave sociologica, negli USA sono piuttosto frequenti e analizzano l’evoluzione (o, a volte, l’involuzione) dei meccanismi che regolano, dal punto di vista sociale, la dinamica del pregiudizio.

Volendo sintetizzare al massimo alcuni risultati di questo studio, è possibile dire che sono almeno quattro le “porzioni” cerebrali interessate dal problema della percezione della razza, per cui la questione è molto più “complessa” e “aperta” di quanto si possa ritenere. Le quattro parti del cervello raccontano una grande complessità di risposte agli stimoli razziali e tali risposte si posizionano su due piani differenti della questione.

Innanzitutto, ad intervenire immediatamente è l’amygdala, il cui attivarsi, secondo le evidenze degli esperimenti, avrebbe una funzione fondamentale, quella di raccontare la “mente di colui che percepisce” più che una reazione consapevole agli stimoli della “razza”: in parole semplici, l’amygdala permette di scoprire un primo elemento, quello che, usando un linguaggio antropologico, potrebbe essere definito come una “automatica” preferenza endogruppale, laddove l’aggettivo fondamentale è proprio “automatico”, in quanto, nell’attivazione dell’amygdala, non interviene alcuna operazione connessa all’elaborazione di messaggi introiettati di carattere culturale e sociale. La seconda “porzione” del cervello che si attiva durante gli esperimenti di neuroimaging quando si lavora intorno alla percezione della razza è la FFA (si tratta di una “regione” del fusiform gyrus), grazie alla quale si dimostrerebbe che, per il cervello e in maniera “automatica”, è più rapido il riconoscimento del volto di un appartenente al proprio gruppo etnico e che è la generalizzazione a guidare la percezione dei volti di coloro che non appartengono alla propria “razza” (si tratterebbe di un meccanismo di categorizzazione e di essenzializzazione ancora una volta “automatico”). Questi due primi elementi rappresenterebbero la percezione “naturale” e immediata che ognuno avrebbe per quanto riguarda il problema dell’appartenenza razziale.

I secondi due momenti, invece, raccontano come avviene l’incontro/scontro tra le tendenze implicite razziali (diciamo: preferenza endogruppale) e le intenzioni consapevoli di non voler essere “uno che ha pregiudizi”. L’attivazione della zona del cervello denominata dorsale ACC, durante l’esperimento mediante il quale vengono mostrate volti di persone nere a persone bianche e l’inverso (lo studio è rivolto soprattutto alla situazione degli USA)[3], dimostrerebbe il conflitto esistente tra la volontà di uguaglianza (e il crederci “realmente” all’uguaglianza tra bianchi e neri) e l’attivarsi della determinazione sotterranea dei pregiudizi razziali. C’è infine la parte del cervello denominata DLPFC, la quale si attiverebbe proprio quando sorge il conflitto nella dorsale ACC e interverrebbe per regolare le associazioni mentali non volute e automatiche che portano proprio a quel conflitto: si tratterebbe di una sorta di dispositivo di auto-controllo messo in moto dal cervello per evitare che la dimensione pregiudiziale impedisca un’interazione efficace.

Riassumendo, è possibile dire che:

1) la scoperta, la categorizzazione e, se si vuole, la naturalizzazione e la valutazione automatica di ciò che rappresenta la razza per ogni singolo individuo sarebbe dato dall’attivarsi dell’amygdala e della FFA;

2) la complessità dell’interazione e della relazione interetnica, nonché il nodo del conflitto socio-culturale tra pregiudizio automatico e necessità di agire in un mondo interculturale, sarebbe dato, invece, dall’attivarsi della dorsale ACC e del DLPFC – risulta essere, dal punto di vista epistemologico, poco chiaro, all’interno del discorso, se anche questa seconda dimensione, e nel caso fino a che punto, sia del tutto e assolutamente “automatica”.

Un elemento aggiuntivo, però, e che non deve essere tralasciato, è quello che riguarda la “malleabilità” (malleability) in quello che viene definito il circuito della razza: significa che, anche la dimensione “automatica” della percezione razziale, può essere modificata, può essere resa più "malleabile" a partire dalle eventuali richieste connesse a un contesto specifico[4].

E così – e con questo si conclude lo studio – si arriva alla domanda centrale: perché è importante analizzare attraverso le neuroscienze la questione della razza e del pregiudizio? Si tratterebbe, allora, di costruire un ponte tra l’analisi di laboratorio e ciò che accade nella realtà: in parole semplici, occorre chiedersi in che modo la razza (la percezione di essa) possa influenzare il processo del decision-making, soprattutto per quanto riguarda l’ambito economico, ma anche per l’ambito legale e l’ambito medico.

 

  1. Natura, cultura e ideologia: alcune note sulla “neuroscienza della razza”

Occorre, a questo punto, analizzare alcune questioni concernenti la “neuroscienza della razza” a partire da una serie di riflessioni che le stesse neuroscienze impongono. Il primo elemento che può essere oggetto di analisi è come si compia la relazione tra natura e cultura all’interno di questo regime discorsivo: l’antropologia culturale ha dimostrato, seppur con differenze di approcci, che la natura e la cultura, all’interno del fenomeno umano, intrattengono rapporti molto più complessi di qualsiasi riduzionismo che tenda a schiacciare la riflessione su una soltanto delle due dimensioni. Secondo Lévi-Strauss, ad esempio, il rapporto è facilmente analizzabile, se si confronta il divieto fondamentale dell’incesto all’interno di molteplici (e lontani e differenti) gruppi umani[5]: la questione è che l’incesto sembra raccontare un’“invariante” naturale nell’organizzazione sociale dei gruppi umani, ma il fatto stesso che il divieto si esplichi in ogni gruppo in maniera differente, farebbe propendere per l’idea che quanto di naturale vi sia nell’uomo è sempre legato alla percezione culturale che, di questo “naturale”, ogni gruppo umano possiede. Su questo punto – la relazione natura/cultura – si situa la complessità dell’analisi di carattere neuroscientifico, ma questo punto segnala anche la differenza con un approccio ottocentesco del rapporto tra mente e cervello: l’interesse di questo studio, infatti, sta tutto nella maniera attraverso la quale, studiando le reazioni del cervello, si analizzano non soltanto le presunte dimensioni naturali del “pregiudizio razziale” (la preferenza endogruppale), ma anche i conflitti che si sviluppano tra questa “tendenza naturale” e i bisogni sociali e culturali che vanno in direzione opposta, rendendo anche questi ultimi analizzabili scientificamente come "naturali". La neuroscienza, insomma, sembra promettere non soltanto la possibilità di comprendere la dimensione “automatica” della mente umana, ma anche di evidenziare la dimensione culturale e i conflitti che si generano tra queste due dimensioni, incorporandole entrambe nella scena complessa del cervello. Il “culturale”, lungi dall’essere una semplice “applicazione” del “naturale”, sarebbe invece qualcosa capace di influire sulle stesse reazioni “cerebrali” (malleability). Lo studio che stiamo analizzando, dunque, procede in una direzione molto precisa: da un lato, l’analisi del funzionamento del cervello nel momento in cui si sviluppa un conflitto tra “tendenze naturali” e “imposizioni socio-culturali”, mediante un regime discorsivo che le riconduce comunque ad un dispositivo interpretativo che ha al proprio centro la fisiologia dell’organo cerebrale; dall’altro, l’idea che, per intervenire contro il pregiudizio (che, come abbiamo visto può “bloccare” e “falsificare” l’interazione sociale su più livelli, economico, legale e medico), si debbano mettere in campo procedure che riguardano la dimensione fisiologica della questione e non quella “culturale”. Insomma, si tratterebbe di una sorta di circolo vizioso: la “cultura” e il "sociale" producono determinate variazioni nell’attivazione di determinate parti del cervello (nel caso analizzato e cioè quando si delineano relazioni di carattere interetnico), dunque implicherebbero "cambiamenti" nella natura e nella fisiologia del soggetto umano, ma per affrontare la dimensione conflittuale e culturale occorre intervenire sulla dimensione “naturale”. Il problema, dunque, sembra riguardare la dimensione della prevenzione e della previsione ed è qui che, probabilmente, si annida una delle contraddizioni fondamentali della neuroscienza della razza e, forse, dell’intero statuto delle neuroscienze cognitive.

Il dispositivo “medico” è quello che, nella modernità, si basa, non soltanto nella sua dimensione di "prassi" ma anche dal punto di vista teoretico ed epistemologico, sulla prevenzione: se si ha una determinata tendenza verso un determinato sviluppo patogeno, la medicina dovrebbe intervenire preventivamente per evitare che tale “possibilità” possa attualizzarsi e dare corso all’evento patologico. La medicina è scienza della prevenzione e, seguendo il suo statuto scientifico così come è stato inaugurato da Claude Bernard[6], cerca di lavorare sul principio della predittività in maniera molto particolare: si tratta di determinare la relazione tra la dimensione delle “condizioni di possibilità” e la dimensione della “manifestazione” – l’esperimento bernardiano, infatti, mostra non la “necessità” dello sviluppo di un determinato stato patologico, ma la “possibilità” che esso avvenga in determinate circostanze: l’esperimento, dunque, avrebbe la funzione di delineare queste condizioni di possibilità, per evitare che esse poi si manifestino realmente.

È necessario analizzare il dispositivo della medicina moderna proprio perché l’attitudine fondamentale delle neuroscienze è quella di lavorare sulla dimensione della prevenzione: il suo “statuto”, in parole semplici, sembra rientrare pienamente nella dimensione del dispositivo medico. Se il fine del saggio di Jennifer T. Kubota, Mahzarin R. Banaji e Elizabeth Phelps è quello, esplicato sin dall’abstract, di “intervenire” su un problema socio-culturale e cioè come modellare l’interazione interetnica in società “complesse” come quella americana (ma, di rimando e ovviamente, riguarda anche le nostre società sempre più multietniche), è chiaro come si possa andare in direzione di una “discreta” patologizzazione di ogni comportamento che non persegue il medesimo fine. Ovviamente, non si tratta di una “patologizzazione” che interviene immediatamente sul versante medico: non si sostiene che determinate reazioni siano “malate”, ma l’approccio e la possibile soluzione richiamano da vicino questo dispositivo e l’impostazione medica sembra essere oltremodo chiara e presente. Le neuroscienze, infatti, non sembrano lavorare soltanto sulla patologia in senso stretto (come, ad esempio, in ambito psichiatrico), ma anche sull’intera mappatura delle possibili reazioni cerebrali agli stimoli provenienti dagli ambienti e dai contesti: il suo intento sembra essere, a volte, quello di normalizzare, costruendo quella confusione tipicamente moderna tra “fatto” e “valore” e tra “normalità” e “normatività”. Se con Claude Bernard si è determinato il dispositivo fondamentale, secondo il quale tra “stato normale” e “stato patologico” vi è una differenza quantitativa ma non di natura, allora è chiaro che, partendo da questa impostazione, l’elemento determinante è l’intervento preventivo. Ma se partiamo sempre da Claude Bernard e si mostra come, all’interno della distinzione normale/patologico in campo medico, si trova una contraddizione tra “fatto” e “valore”, allora tutto si complica maggiormente: lo “stato patologico” (dunque, una variazione in un coefficiente ritenuto oggettivo e misurabile) è allo stesso tempo un “fatto”, cioè avviene così e lo possiamo misurare a partire da determinate condizioni di possibilità, ed è un “valore”, cioè avviene così ma sarebbe meglio che non avvenisse e che non si producessero quelle determinate condizioni di possibilità. Il concetto di prevenzione, dunque, si inserisce all’interno di un dispositivo che richiama da vicino una delle più grandi problematiche della filosofia tout court, il rapporto tra potenza e atto (per dirla con Aristotele) o tra possibilità e realtà. La prevenzione lavora proprio a far in modo che una determinata “potenza” non raggiunga l’atto e la complessità del discorso neuroscientifico è che lavora proprio sulla gestione delle “potenze” a partire dal “controllo” delle manifestazioni che avvengono a livello cerebrale. Si tratta di una problematizzazione che riguarda la duplicità fondamentale dell’umano: quando si parla di “automatico” si intende un qualcosa che afferisce a una reazione immediata tra stimolo e risposta, ma, in senso freudiano, si potrebbe anche immaginare che questo “automatico” afferisca a un altro ambito, quello dell’inconscio – insomma, se si definisce una determinazione come “automatica”, si intende un funzionamento assolutamente meccanico, all’interno del quale non rientrano considerazioni di altro genere; se si legge invece come “inconscia”, allora si apre una complessificazione tra dimensione naturale e culturale che eccede di molto la reazione cerebrale e che sprofonda in dimensioni altre.

Insomma, cosa ci dice realmente il fatto che, stando alla lettura di alcuni dati connessi ad alcuni esperimenti, un’attivazione particolare dell’amygdala dimostra l’automatismo della preferenza endogruppale? Ci dice realmente qualcosa di nuovo oppure, nel momento in cui rivela oggettivamente un qualcosa di misurabile e sperimentabile – un “fatto”, non suggerisce anche una dimensione che appartiene all’ambito del “valore”? La questione del pregiudizio razziale, insomma, deve essere affrontata dal punto di vista “fisiologico” o “culturale”? Ma se il “culturale” si manifesta (in maniera centripeta) nel sé, ha ancora senso questa stessa distinzione?

La prevenzione, dunque, lavora sia sulla dimensione del “fatto” che sulla dimensione del “valore”: il problema è che la naturalizzazione dell’umano, caratteristica fondamentale dell’intera modernità matura, non riguarda più (appunto!) soltanto la sua dimensione naturale e una derivazione necessaria dei suoi atteggiamenti da una condizione “fisiologica” (il “momento Lombroso”, per intenderci), ma anche la sua dimensione culturale[7]. Un punto da tenere fermo sembra essere il seguente: la cultura, qualunque sia la sua “origine” (poco importa a livello neuroscientifico) può essere gestita al livello fisiologico e “naturale”; se il sapere medico è stato visto da qualcuno come il dispositivo fondamentale della dimensione biopolitica della seconda modernità, è chiaro come, con le neuroscienze, si possa arrivare dove non si era mai osato realmente: la prevenzione in vista di una programmazione. Ed è esattamente su questo punto che le seduzioni delle neuroscienze incontrano la loro possibile applicazione “ideologica”.

 

  1. I “sé neurochimici”. Una conclusione

La definizione di “sé neurochimici” è di Nikolas Rose, autore di un libro importante sulla questione della “politica della vita”, e può essere d’aiuto per provare alcune parziali conclusioni al nostro discorso[8]. L’elemento determinante di una lettura del sé in termini neurochimici è che l’immagine dell’umano che ne viene fuori è totalmente centripeta. In parole semplici, tutto quello che avviene all’uomo nella sua storia personale e individuale, avviene al suo interno: si determina, così, la scena fondamentale della soggettività tardomoderna (o, forse, mai come in questo caso, potrebbe dirsi post-moderna), e cioè la realtà e la verità del cervello umano. L’idea fondamentale è che l’ultima propaggine dell’errore di Cartesio (diciamo: dei “cartesiani” o del “cartesianesimo” della scienza/metafisica moderne) risieda proprio nell’aver delineato una distinzione tra “organico” e “funzionale”, laddove per “funzionale” si deve intendere l’ultima dimora di ogni residuo metafisico nella lettura dei fenomeni umani: il cartesianesimo starebbe nel fatto che si lascia ancora intendere che possano esistere relazioni mentali (la dimensione del normale) o disturbi di natura psichiatrica (la dimensione del patologico) non di origine immediatamente fisiologica (cioè: organica), potendo esse risiedere, invece, in non immediatamente oggettivabili e piuttosto sfuggenti e inafferrabili facoltà psicologiche del soggetto. In questo senso, tutto ciò che appartiene, invece, ad una dimensione centrifuga dell’umano, la cultura, come ciò che è non soltanto interno ma anche esterno, che si produce negli interstizi tra l’interiorità e la soggettività e l’esteriorità e l’oggettività di ciò che ci precede e, per certi versi, ci “obbliga”, non avrebbe alcuna “funzione” produttiva. Anzi: tutto ciò che è sempre stato pensato come “esterno” (o come matrice di relazione tra interno ed esterno) è già sempre interno: tutto è interiorità, ma non interiorità psichica (si rischia la spiritualità) ma interiorità neurochimica, cerebrale, misurabile e oggettivabile (mantenendo, nella cosiddetta “oggettività”, la confusione tra “fatto” e “valore”). L’elemento determinante, dunque, è la relazione che si instaura tra uomo e mondo: il mondo non è il limite dell’uomo né la sua gabbia, non rappresenta la scena del suo mettersi alla prova né ciò che lo determina in ogni scelta, il mondo è soltanto una “funzione” del “sé neurochimico”, una delle tante variabili da gestire in vista della costruzione di un “sé” sano e adatto. L’individualismo tipico della modernità raggiunge un livello assolutamente parossistico: in ultima istanza, il mondo non esiste se non in funzione delle reazioni cerebrali e il mondo può “cambiare” se si gestiscono determinare reazioni cerebrali. Si potrebbe, dunque, giocare con una serie di categorie filosofiche, come ad esempio sottolineare uno strisciante idealismo nel profondo della concezione dei “sé neurochimici”, ma quello che forse potrebbe essere più utile sottolineare è che, lungi dall’aver abbattuto ogni residuo di cartesianesimo, le neuroscienze sembrano comunque promettere una rinnovata “metafisica” del sé: la descrizione di una soggettività a base neurochimica non può che essere fondatrice di una speciale “ontologia” e, come ogni ontologia, portare con sé una dimensione complessa a partire dalla relazione tra immagini fattuali e doveri valoriali. Se il nostro cervello (cioè: il “sé neurochimico”) è malleabile (come sostenuto nel saggio) significa anche che è perfettamente “manipolabile” (la distinzione tra “malleabilità” e “manipolabilità” in campo umano è molto labile), e se è perfettamente manipolabile vuol dire che, nel nostro immaginario, la consistenza della nostra “anima” diviene qualcosa allo stesso tempo di inafferrabile e di misurabile, qualcosa che deve essere costantemente rideterminato in chiave biomedica, qualcosa in parole semplici sul quale “intervenire” in chiave clinico-preventiva. Senza eccedere i limiti di queste brevi note, è chiaro come si possa andare verso un’utilizzazione del tutto “ideologicamente” orientata del sapere neuroscientifico, una dimensione di “biopotere” realizzato e onnicomprensivo[9]: un “uomo nuovo” si avanza, insomma, ma forse un po’ di malinconia per la pluridimensionalità “centrifuga” dell’umano è possibile ancora sentirla. Anche per quanto riguarda la dimensione della (cosiddetta) razza.

 


[1] J. T. Kubota, M. R. Banaji, E. Phelps, The neuroscience of race, in «Nature Neuroscience», 7, 2012, pp. 940-948.

[2] Lo studio analizza, nello specifico, la situazione statunitense, ma è chiaro come la sua portata possa essere universalizzabile.

[3] Molto interessante – ma non possiamo occuparcene in queste brevi note – un dato: i bianchi avrebbero una preferenza più o meno assoluta per i rappresentanti del proprio gruppo, mentre per i neri la questione è molto più complessa. Circa un 40%, infatti, mostra di avere un pregiudizio positivo nei confronti dei bianchi, circa un altro 40% un pregiudizio positivo per gli appartenenti al proprio gruppo, circa un 20% nessun pregiudizio o preferenza. È chiaro, insomma, come tali dissonanze nella percezione della popolazione bianca e della popolazione nera, a partire dall'analisi dei "pregiudizi" diretti e incrociati degli appartenenti ai due "gruppi", mostrino quanto pesante sia stata la costruzione razziale e la sudditanza (materiale e psicologica) delle popolazioni nere negli USA. Questo dato, comunque, risulta essere poco enfatizzato all’interno dello studio, nonostante, a nostro avviso, rappresenti un elemento determinante nell'analisi dei dispositivi razziali attivi nella società americana. Quanto può la cultura, insomma, implicare risposte automatiche dal punto di vista "cerebrale"? Cosa racconta la nuova scena dell'umano, scena che si determina nella consistenza neurologica del cervello?

[4] Si intravede, all’interno del discorso intorno alla malleability, la dimensione della necessità di pensare un intervento preventivo; tale studio, infatti, non nasconde che intende sviluppare riflessioni ed eventualmente soluzioni per quanto riguarda la realtà concreta dei soggetti che entrano all’interno dell’interazione sociale.

[5] Cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1947), tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, pp. 37-67.

[6] Si rinvia, per l’analisi delle contraddizioni dello statuto della medicina moderna così come lo ha inaugurato Claude Bernard e così come si è determinato nella pratica clinica, a C. Bernard, Un determinismo armoniosamente subordinato. Epistemologia, fisiologia e definizione della vita, tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2014; in particolar modo, ci permettiamo di rinviare alla nostra introduzione al volume: D. Salottolo, Claude Bernard e lo strano caso del suo “determinismo armoniosamente subordinato”, pp. 7-41. Per altri approfondimenti sulla complessità dell’epistemologia della medicina moderna e, soprattutto, su alcune seduzioni metafisiche che la abiterebbero, si consenta di rinviare a D. Salottolo, De-complessificazione della vita e “costruzione” del metodo tra condizioni fisico-chimiche e manifestazioni vitali. Alcune note sulla fisiologia di Claude Bernard, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 12, 2014, consultabile liberamente su www.scienzaefilosofia.it.

[7] Cfr. É. Balibar e I. Wallerstein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue (1988), tr. it. Edizioni associate, Roma 1991.

[8] Cfr. N. Rose, La politica della vita (2007), tr. it. Einaudi, Torino 2008.

[9] Il mito dell’efficienza della prestazione lavorativa in ambito neoliberista rappresenta, senz’altro, la base da cui partire per una declinazione in chiave (bio)politica del regime discorsivo neuroscientifico.

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