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Psychiatry Today

Autore


Fabrizio Gambini

Associazione Lacaniana Internazionale

Fabrizio Gambini Psichiatra e psicoanalista membro (A.M.A.) dell’Associazione Lacaniana Internazionale. Vive e lavora a Torino dove dirige il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Mauriziano “Umberto I”

Indice


  1. Intro
  2. Psichiatria
  3. Psicoanalisi 
  4. Das Ding, ovvero la ricorsività del Reale
  5. Ricorsività e condizioni di terminazione
  6. Psicoanalisi e filosofia

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    S&F_n. 14_2015

Abstract


Psychiatry Today

The conception of psychiatry in neuroscience is a blind alley that leads to the loss of all that is human beyond diagnostic calcification and the designation of behaviour. On the other hand, psychoanalysis has failed in its potential for giving new life to psychiatry, and has created a false dichotomy between scientific blindness and fictional speculation. The article offers no third way but rather offers an interpretation of Freud and Lacan that entails a solid conception of language, and one that respects and accounts for the variables in subjective expressions through which all human expressiveness is necessarily made manifest. This means it is essential for psychoanalysis to interact with philosophy and, in particular, with so-called negative philosophies.

  1. Intro

Va in un certo senso da sé che l’inglese del titolo indichi già, ma solo in parte, ciò di cui si tratta, ovvero l’asservimento della psichiatria a un paradigma trionfante su scala planetaria che trova nel DSM, Manuale Statistico e Diagnostico pubblicata dall’Associazione degli Psichiatri Americani e giunto ormai alla quinta revisione, la sua più completa affermazione. Si tratta di un processo che ha incontrato, e tutt’ora incontra, molte resistenze. Tutte perdenti.

Quella che segue è dunque la storia di una sconfitta, la mia. Mi piacerebbe dire la nostra ma, per ragioni che spero risulteranno chiare alla fine di questo scritto, esito a farlo. Come spesso succede, è però una sconfitta che ha in sé i germi di una speranza e, dunque, di una ancora attiva forma di resistenza. E anche di questo vorrei dare una forma di testimonianza.

  1. Psichiatria

A mio modo di vedere il punto centrale della psichiatria del terzo millennio è che non è attrezzata per riconoscere il suo limite e concepisce l’altro, il suo paziente, come un oggetto da ridurre alla forma della sua supposta curabilità. Intendiamoci, non è che non esistano limiti, anzi! Semplicemente ci siamo trovati a fare i conti col fatto che ciò che è supposto incurabile, ovvero quello per cui riteniamo di non poter fare niente, non viene trattenuto dentro una relazione bensì espulso attraverso l’idea di una sorta di campo continuo che è quello delle Neuroscienze. Nell’attesa dei progressi futuri che renderanno farmacologicamente aggredibile il comportamento di ognuno e che ridurranno l’anima all’epifenomeno di un funzionamento neuronale indagato sempre più in profondità e senza alcun limite, qualcosa bisogna pur fare di coloro che non rientrano nei criteri della curabilità psichiatrica. Lo diceva bene Broussais (1834) in un epoca in cui gli psichiatri sapevano ancora scrivere e non si vergognavano di esprimere opinioni piuttosto che nascondere l’insipienza del loro sapere dietro lo schermo dell’evidence based: «Se talora i cadaveri ci sono parsi muti, è perché ignoriamo l’arte di interrogarli»[1]. È così che si crea un movimento atroce sostenuto dai meccanismi contigui dell’abbandono e della delega. Non è questa la sede per parlarne ma, di fatto, dalla chiusura dei manicomi e dalla recentissima chiusura degli OPG, molto rapidamente si sono create, di nuovo, delle isole concentrazionarie e di deportazione. Per altro questo avviene in un paese in cui gli operatori della psichiatria sono gli stessi, o sono gli eredi degli stessi, che hanno prodotto lo sforzo che è stato fatto in Italia a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso. Sforzo che è stato quello di permettere la libera circolazione di uno psicotico nella città in una situazione che non fosse d’abbandono, bensì, al contrario, in una situazione nella quale le sue difficoltà, assieme alle difficoltà della famiglia, degli amici e della città, venissero considerate, analizzate e trattate da un’équipe curante. Si è trattato di uno sforzo titanico, a tratti grandioso e non privo dei suoi momenti propriamente esaltanti, che ha prodotto straordinarie pratiche d’intervento nella psichiatria d’allora. Sfortunatamente nessuna di queste è stata seguita da un’elaborazione in grado di descriverle, conoscerle, analizzarle, formalizzarle e, infine, trasmetterle. E, di questo sforzo, oggi, su tutto il territorio nazionale, registriamo il completo fallimento. Una delle ragioni di questo fallimento è certamente da situare nell’origine delle esperienze di “psichiatria democratica” che sono state condotte in Italia negli anni ‘60 e ‘70. Non si è trattato, mai, di esperienze anche soltanto simili a quella di Kingsley Hall a Londra, o della Clinica di La Borde in Francia. Piuttosto in Italia abbiamo avuto a che fare con situazioni amministrative complesse che hanno sempre e, direi prima di tutto, assunto la forma propria a manifestazioni della presenza dello Stato nel tessuto vitale della società civile. Dall’inizio si è trattato cioè di pratiche della liberazione che miravano direttamente a una trasformazione massiva dell’insieme della città. Nel quadro della situazione politica e culturale dell’Italia in quegli anni, le esperienze alle quali ho fatto riferimento, sono diventate, in pratica senza significative resistenze, il prototipo di un cambiamento legislativo nazionale, la Legge 180 del 15 maggio 1978, ripresa in seguito nella legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Per quel che mi è dato osservare nel mio lavoro quotidiano di psichiatra, al fallimento che ho cercato di delineare nei suoi tratti essenziali siamo giunti principalmente per due strade. La prima possiamo un po’ brutalmente descriverla come l’impossibilità di un movimento, che si voleva rivoluzionario, di fronteggiare con strumenti adeguati il fenomeno della follia; la seconda possiamo indicarla, con pari brutalità, come il risultato dell’incapacità della psicoanalisi di temperare una psichiatria che a tutt’oggi non trova di meglio che far pesare il suo potere istituzionale ed economico come garanzia della sua “scientificità”.

  1. Psicoanalisi

Per quanto riguarda questo secondo punto, la psicoanalisi si dà come un discorso che aspira a risolvere tutto quello che è dell’ordine del particolare, ma è lontana dal poter fare lo stesso con ciò che è di ordine generale e, come sappiamo, Freud stesso aveva il suo daffare ad articolare i sintomi detti individuali con quelli detti tipici. Questo vuol dire che una cosa è tracciare il percorso d’un significante, come il morso d’un cavallo o un rubinetto smontato, ma che altra cosa è dire in cosa consista una fobia. È proprio qui che gli psichiatri e gli psicoterapeuti ci danno, danno cioè a noi psicoanalisti, un aiuto avvelenato, ci aiutano infatti a dimenticare il problema. Per loro il cammino individuale attraverso il quale si è fatto il montaggio individuale unico e irripetibile del sintomo è, dall’inizio, privo d’importanza. È sufficiente leggere il DSM o il PDM[2], poiché esiste perfino una versione psicodinamica del DSM, e lo trovate scritto a lettere cubitali: una fobia è una fobia, inutile sapere se si tratta di ragni, di topi o di cavalli. Nello stesso modo, una psicosi è una psicosi; inutile sapere se si tratta di essere l’imperatore del terzo pianeta di Alpha Centauri, la reincarnazione di Gesù Cristo o se si passi la propria vita a guardarsi la pancia riconoscendola come un corpo estraneo.

Proprio da qui possiamo riprendere la questione della psicoanalisi e del suo fallimento nel fecondare le pratiche psichiatriche concrete: dall’incapacità di risolvere la contrapposizione che sembrerebbe esserle consustanziale tra universalità e clinica individuale. È qui, a questo punto, che la lettura che Lacan fa di Freud si fa sostanziale. È sostanziale cioè la nozione che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, con tutto ciò che questo comporta: il gioco costante e ineliminabile tra il Reale della lettera e il Simbolico che, istituendo la parola come significante manca però la corrispondenza biunivoca tra il significante e ciò a cui il significante stesso si riferisce e, infine, l’Immaginario che supplisce, attraverso la rappresentazione, a ciò che il simbolico manca di determinare. Un gioco che riguarda tutti i parlanti ma che la psicoanalisi tratta a partire dall’articolazione concreta, individuale, unica e irripetibile con la quale il gioco si fa corpo vivente per ognuno di noi.

La clinica che Lacan propone verso la fine della sua vita è infatti una clinica dei nodi, ovvero una clinica degli annodamenti che Simbolico, Reale e Immaginario possono arrivare a costituire tra loro. In questa sede non si tratta di fornire un sunto di clinica lacaniana anche se, guardate dove va a ficcarsi il significante, un anagramma possibile di Gambini è Bignami, come mi fece notare molto tempo fa una mia paziente. Piuttosto quel che mi propongo di fare è distinguere la modalità di funzionamento della psicoanalisi da quella del discorso scientifico che, almeno per quanto riguarda la psichiatria, la psicoanalisi non ha saputo fecondare; e questo non avverrà senza un qualche sconfinamento nell’ambito proprio della filosofia.

  1. Das Ding, ovvero la ricorsività del Reale

In fondo si tratta del rapporto alla cosa, alla cosa freudiana, a das Ding. Nel discorso della scienza lo scarto tra la parola e ciò a cui la parola si riferisce o è supposta riferirsi esiste, ma è, per così dire, relegato sullo sfondo. La parola scientifica ha da essere falsificabile, pena la caduta della sua scientificità, ma, una volta stabilità la sua falsificabilità in linea di principio, ce ne se può servire, scusate il bisticcio di parole, affidandosi alla sua affidabilità. Un marinaio che avesse navigato nell’antichità da Alicarnasso a Sidone poteva affidarsi alle stelle nello stesso modo in cui noi ci affidiamo al navigatore satellitare essendo convinto che le stelle fossero una specie di torce infilate sulla volta celeste in posizioni fisse o mobili su binari entro cui potessero scorrere. Da questo punto di vista il discorso dell’atrabile e tutta la teoria umorale della follia non ha una consistenza poi tanto diversa dalla nozione dei mediatori sinaptici su cui si basa la moderna psicofarmacologia. E, sempre da questo punto di vista, esiste una psicologia che tratta le parole nello stesso modo: una posizione schizoparanoide, un orgone, un complesso d’inferiorità, un investimento libidinale narcisistico, come un elettrone o un recettore per la dopamina. Diverso è il discorso della psicoanalisi. Qui lo spazio tra la parola e la cosa ha un altro statuto, un’altra pregnanza e un diverso modo della sua presenza.

Si tratta del fatto che il Reale a cui la parola si riferisce, e che è in sé irraggiungibile in quanto proprio lo schermo della parola che lo contempla ce ne allontana, è anche il Reale di cui a sua volta la parola è fatta.

Possiamo affrontare questa proposizione o, se si preferisce, questo stato di cose, a partire dalla nozione platonica di stoikeion, dove l’elemento minimo, l’unità componente il mondo è anche l’elemento minimo costituente il linguaggio, la lettera dunque, che proprio questo mondo consente di contemplare. E qui incontriamo la prima difficoltà: l’oggetto del nostro lavoro è anche lo strumento col quale lavoriamo. I greci, diversamente da noi, lo sapevano benissimo, tanto è vero che, come ho appena detto, la parola στοιχείον (elemento) che designa gli elementi fondamentali, i mattoni con cui è costruito l’universo, designa anche la lettera, l’elemento minimo del linguaggio, che quell’universo ci consente di provare a conoscere. Questo significa che c’è un punto in cui l’oggetto della conoscenza e lo strumento per conoscere sono la stessa cosa. Anima che conosce l’anima. Converrete che non è un terreno molto solido sul quale sostenersi e non sorprende che la medicalizzazione della psichiatria abbia il successo travolgente che ha nel nostro tempo. Qui infatti l’oggetto è chiaro e, soprattutto, è altra cosa dal soggetto conoscente. Basta una PET dell’encefalo, un farmaco e un manuale generosamente fornito dall’associazione degli psichiatri americani e la divisione è fatta: soggetto prescrittore e, dall’altra parte, oggetto d’indagine o di cura.

Ma possiamo anche affrontare questa stessa proposizione a partire da una nozione, diciamo così, meno platonica. Si tratta delle funzioni che in matematica sono dette ricorsive e che sono funzioni del tipo: y=f(x,y). In questa scrittura la variabile y è funzione di x, ma anche di se stessa. Dal punto di vista strettamente matematico una funzione ricorsiva primitiva è ad esempio quella che contiene la funzione base “successore”: S(x)=x+1. La condizione di funzionamento di questa scrittura è che l’algoritmo che richiama se stesso, generi una sequenza di chiamate che ha termine al verificarsi di una condizione particolare che viene chiamata condizione di terminazione. In assenza di questa condizione ci troviamo a constatare che, quando il numero di ripetizioni tende all’infinito, la funzione tende all’inconsistenza. Ma la funzione ricorsiva non è un errore logico, è semplicemente una procedura di procedura. La condizione in cui ci troviamo è la seguente: esiste un Reale della parola che si riproduce all’infinito nel tentativo della parola di afferrare se stessa.

Ora per la filosofia si tratta di una condizione perfino banale a dirsi; lo diceva Platone e, da allora, mi pare che ci si sia fatto il callo. Mi pare cioè che ci si sia messi l’anima in pace col fatto che la cosa non si lascia agguantare per la coda. La cosa è una imperfezione alla periferia del campo visivo, rompe le scatole, dà fastidio e non si riesce a metterla a fuoco. Quando si sposta lo sguardo cercando di afferrare la macchia, di vedere bene cos’è, la macchia si sposta con il movimento dello sguardo, resta, uguale a se stessa, alla periferia del campo e continua a esser fonte di fastidio. Allora qual è la novità della psicoanalisi? In che cosa essa può continuare a rappresentare una speranza nel discorso dell’uomo sull’uomo? È che questa infinita rincorsa ha un punto d’arresto: un terreno sul quale si possono saldamente appoggiare i piedi. È Freud, prima di Lacan, che ha un’intuizione geniale e, a mio avviso, propriamente folgorante: il motore della storia non è l’idea del bene comune o il progresso della razionalità trionfante, bensì il sintomo, il modo sintomatico, e dunque Reale, che hanno gli esseri umani di far legame tra loro, la loro politicità sintomatica che è, ovviamente, anche la loro essenza, qualsiasi cosa questo termine, in questo contesto, significhi. La loro essenza è quella di una cipolla che si sfoglia fino a perdere la propria consistenza e, con questa, la propria stessa essenza. In fondo, della cipolla, non resta che il pianto, reale, che si genera dal fatto di venire sfogliata. Ora, il punto d’arresto di cui si tratta, il terreno solido sul quale noi e i nostri pazienti ci possiamo, o meglio, ci potremmo appoggiare è un terreno, per così dire, bipartito. O, come ho appena detto, si tratta del sintomo, oppure si tratta della funzione che Lacan indica come il Nome-del-Padre.

  1. Ricorsività e condizioni di terminazione

Ora, sarà per la mia irrefrenabile tendenza all’ipersemplificazione, ma, per quanto mi riguarda, direi che si tratta di qualcosa di estremamente semplice. Se la condizione di terminazione è dell’ordine del sintomo, vi trovate ad avere a che fare con una condizione di questo tipo:

Seh… seh… ha un bel dire lei, dottore, che non c’è ragione alcuna di aver più paura di volare in aereo che di traversare la strada, ma quando la paura prende, prende… non ci posso fare niente. Mi dico che è una stupidaggine, ma mi si stringe la gola e sento il cuore battere all’impazzata…

Questo significa che qualcosa si scrive tra il reale e il simbolico, non è niente, è qualcosa che è lì, scritto e presente nei suoi effetti.

Se la condizione di terminazione è invece dell’ordine della nominazione, vi trovate ad avere a che fare con una condizione di questo tipo:

- Papà, stasera vado mangiare una pizza con gli amici.

- Va bene ma torna alle undici.

- No, dai, tornano tutti più tardi, facciamo le undici e mezzo.

- Va bene.

- Anzi siccome mi accompagna Francesco che abita vicino, facciamo mezzanotte.

- Non esageriamo, facciamo le undici e mezzo.

- Perché le undici e mezzo si e mezzanotte no, che differenza vuoi che ci sia.

- Va bene… mezzanotte.

- Ma, se non c’è differenza tra le undici e mezzo e mezzanotte, non c’è neanche differenza tra mezzanotte e mezzanotte e mezzo… o tra mezzanotte e mezzo e l’una…

Volete che a un certo punto, al povero papà del piccolo sofista, non scappi qualcosa del genere:

- Va bene, allora niente pizza!

- Ma perché?

- Perché lo dico io!

Evidentemente non è che un modo come un altro, perfino un po’ banale, di rappresentarla, e di questo mi scuso ma, d’altra parte, è bene di queste banalità che è fatta la nostra vita di parlanti. In ogni caso il punto sostanziale che qualifica questa funzione come tale è la tautologia “sono io che (io) lo dico”. È qui che la nominazione è in sé una condizione d’arresto dell’infinito scivolamento metonimico. Alla fine per dire qualcosa di sensato su chi, o su cosa, sono, non posso che arroccarmi a dire una stupidaggine del genere: “Io sono io”, o Fabrizio, o qualunque altro nome mi sia capitato di aver ricevuto. Capite come questo sia solido e fino a che punto questa certezza simbolica, questa certezza di esistenza nel simbolico, ovvero nel ricevuto, possa costituire una provvidenziale pietra d’inciampo per l’infinito scivolamento dei significanti. E l’altra forma di arresto, l’abbiamo detto, è il sintomo. Non avete che da osservare con che rabbia, con che accanimento, con che disperazione un soggetto si aggrappa al suo sintomo. È la sua condizione d’esistenza, è l’unica forma materiale d’esistenza che gli sia consentita. Sfido io che quando il sintomo manca, che quando manca il fantasma attraverso il quale per noi si rappresenta l’oggetto in cui ci riconosciamo, si apre il baratro dell’angoscia. Angoscia che, giustamente, lo stesso Freud articola col sintomo. Dunque, in entrambi i casi è di un arresto, di una condizione di terminazione che si tratta ed è quest’ultima che da consistenza al nodo, che lo fa tenere, che non gli consente di funzionare con un infinita e sofistica circolazione di significanti.

Per gli psicoanalisti si tratta di una situazione per qualche verso imbarazzante e che pone qualche problema di non poco conto. Ad esempio questo: se un’analisi, per quanto condotta a lungo, con impegno e bene, non può che trovare sul sintomo la sua condizione d’arresto, ovvero la sua fine, ed essendo il sintomo anche la condizione di partenza che spinge a rivolgersi a un analista, ma perché diavolo uno dovrebbe fare un’analisi per ritrovarsi lì dove ha cominciato? Oppure questo: se un’analisi, per quanto condotta a lungo, con impegno e bene, non può che trovare nel Nome-del-Padre e dunque, in qualche modo, nel transfert all’analista la sua condizione d’arresto, valeva la pena di mettere su tutto questo popò di roba per ritrovarsi alla fine a funzionare come un direttore di coscienza e, volente o nolente, a operare a forza di colpi di suggestione?

Quando lo stesso Jacques Lacan si è trovato di fronte a questa questione, perché è proprio lì che si è trovato verso la fine della sua vita, per provare a saperne di più non ha potuto far altro che far appello alla buona volontà degli analisti e proporre la farraginosa procedura della passe. Non serve dire che non ha funzionato. Invece, quando, nel corso del suo insegnamento, Jacques Lacan ha preso di petto la questione del transfert è a Socrate che si è rivolto, alla sua posizione nei confronti di Alcibiade. Sarà per questo che, per provare a uscire dall’impasse che ho appena indicato, ho pensato di rivolgermi, di nuovo, a Socrate. In particolare penso al discorso che egli fa a Critone prima di morire, alla sua paradossale apologia delle leggi ingiuste in base alle quali era stato condannato a morte. Il ragionamento è in sostanza il seguente:

se fuggissi sottraendomi così alla legge, negherei l’importanza della legge nell’avermi consentito di crescere e di pensare nella città fino al punto di aver potuto parlare contro la legge stessa. Riconoscere questo carattere fondante della legge significa riconoscerne la funzione, anche, e forse soprattutto, quando la legge sbaglia. Si può discuterla, e io l’ho fatto, si può cambiarla, e ho cercato di farlo, ma non si può infrangerla.

Per svolgere questo ragionamento Socrate ricorre all’espediente retorico di materializzare le Leggi di Atene e immagina che esse si presentino davanti a lui per sostenere le loro ragioni. Qui non c’è Nome-del-Padre che tenga. Non c’è Nome-del-Padre. Non c’è appello alla Giustizia bensì rispetto per la lettera della Legge, che è convenzione, patto tra gli uomini, unica modalità di funzionamento nella città. Non c’è un ex-sistenza supposta di qualcosa in nome del quale c’è una legge. Per Socrate, almeno per il Socrate che parla a Critone nelle circostanze che ho indicato, è un nodo perfetto che funziona. Simbolico, Immaginario e Reale si tengono tra loro: tre consistenze, che sono di fatto una che possiamo immaginare, consentono di affrontare il Reale della morte, ma anche il Reale tout-court, nel suo essere legato al Simbolico che, generato dal legame tra gli uomini, genera questo stesso legame. Nel Socrate che si rivolge a Critone la Legge è il suo Reale, ovvero è il Reale della Legge stessa, è il suo funzionare come Sintomo, è il suo essere espressione e, insieme, causa della Polis; generante la Polis è generata dalla Polis. Sembra di ascoltare Dante Alighieri per il quale l’uomo ha cominciato a parlare rispondendo.

Paradossale? Si, penso di sì, ma non è forse paradossale che si vada a cercare, o meglio, che si riconosca l’unica verità nelle menzogne che gli uomini dicono su se stessi? Mi capita con una certa frequenza di trovarmi all’ascolto di qualcuno che si ritiene perseguitato dagli extraterrestri. Bugia? Verità? Delirio? Lo straordinario è che l’unica risposta che non dice niente e che non ci aiuta è quella della psichiatria: è un delirio. Qualificare di delirante quella proposizione o meglio, quella posizione, implica infatti la sua connotazione sul piano semantico ed è una connotazione che ha l’unica funzione di arrestare la domanda. Un delirio è un delirio è un delirio. Inutile andare a cercare oltre. Ma quella menzogna è verità. È menzogna relativamente a ciò a cui si riferisce, diciamo così, relativamente all’ex-sistenza degli extraterrestri, ma è verità soggettiva, l’unica verità. Freud lo dice come meglio non si potrebbe: nel riconoscimento del nucleo di verità (Anerkennung des Wahrheitskerns) del delirio si trova il punto d’incontro (gemeinsamen Boden) sul quale il lavoro terapeutico potrebbe svilupparsi. Leggete bene questa frase, gemeinsamen Boden è tradotto come punto d’incontro ma in realtà Boden significa “terreno” e gemainsam significa “comune”. Ebbene, questo terreno comune non è quello della rappresentazione spazializzata che a partire dall’immaginario corporeo abbiamo della mente, piuttosto è del terreno comune a cui la clinica del nodo si riferisce che si tratta.

  1. Psicoanalisi e filosofia

Inoltre c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare e sottoporre alla vostra attenzione perché mi pare ugualmente un aspetto centrale: Lacan non è un filosofo e il modo di Lacan di stare con i piedi per terra, il suo tentativo riuscito di non delirare per eccesso di senso senza cominciare a delirare per mancanza di senso in nome dell’infinite connessioni offerte dal gioco del significante e dal reale della lettera, è un modo che domanda una sorta di continuo appello al padre. Non si tratta neanche lontanamente del padre immaginario del romanzo biografico, del padre reale che ha inciso in modo che dire non si può o del padre simbolico che affonda le sue radici nel parricidio primordiale e nella nascita della legge. Si tratta del Nome-del-Padre, della funzione alla quale mi sono più volte riferito, funzione e che resta da indagare nelle sue più recenti trasformazioni. Lacan, dicevo, non è un filosofo, come non lo era Freud:

Freud, non aveva niente di trascendentale, era un povero medico, che, mio Dio, faceva quel che poteva per ciò che si chiama guarire, il che non va tanto lontano…[3]

Io penso che questo, questo essere un povero medico, si possa applicare a Lacan stesso come forse a ognuno di noi, il che ci riporta a non essere filosofi e forse a dover essere giustamente terrorizzati dalla filosofia in effetti, dagli effetti della filosofia tradotta in pratica. Diversamente da Deleuze e Guattari, non possiamo permetterci un anti-Edipo. Esplicitamente, in anni a noi più vicini, Pier Aldo Rovatti si pone la questione se la filosofia possa curare, e scrive:

Lui [il curando] chiederà benefici, qualcosa che lenisca le sue paure, infine un aiuto terapeutico, se pure di una terapia “pulita” e per niente medicalizzata. Tuttavia il cosiddetto consulente, se avrà guadagnato una qualche consapevolezza critica della cultura terapeutica in cui oggi siamo, non dovrebbe fornirgli alcuna consolazione. Anzi, si troverà nella condizione di smontare o decostruire [rieccoci a Deleuze, Derrida e compagnia decostruendo] pazientemente le sue attese, in vista – forse – di un nuovo scenario in cui parole come “rischio” e “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sinonimi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi. D’altronde, quando mai la filosofia ha accettato se stessa come qualcosa di normalizzante? Bisognerà pur ricordarsi che se chiami a casa tua un “filosofo” che sia degno di questo nome (ma qui sta il punto), ti sei messo in casa un insetto fastidioso che di mestiere punge, e non un qualche servitore del potere[4].

Che non ci si possa permettere un anti-Edipo, che non ci si possa sottrarre alla nostra responsabilità di curanti, significa per me che non ci possiamo permettere di non riconoscere una delle due condizioni di terminazione del lavoro analitico, che è lavoro di analisi, di lisi, di scioglimento infinito. Se è vero, come è vero, che essendo parlanti, noi abbaiamo dietro all’Altro che non risponde, è però anche vero che abbiamo inventato Dio padre che, col suo silenzio, a qualcosa risponde; consentendoci così di continuare ad abbaiare e, dunque, a domandare. Detto in altre parole, è la funzione del Nome-del-Padre che ci costituisce come desideranti di fronte all’impossibile. Che la psicoanalisi si trasmetta, è questo che la costituisce come riferimento a un ordine dentro il quale ci si inscrive ed è questo che consente il maneggiamento di una funzione che non sia solo quella di un insetto fastidioso. Freud andava ben oltre Rovatti, andava al di là del fastidio, parlava di portare la peste, ma ne parlava a Jung. Come dire che solo un’appartenenza comune, il riferimento a un’origine e a una fondazione comune consente di temperare la tensione filolitica propria al discorso della psicoanalisi. Dunque niente anti-Edipo per quanto mi riguarda. La riscoperta della rivendicazione curativa a fondamento della psicoanalisi, dopo che è stato a lungo di bon ton sottolineare che non doveva trattarsi, mai, di volere il bene del paziente è, a mio modo di vedere, la cifra che consente di indagare più a fondo per quale ragione lo straordinario discorso della psicoanalisi ha così clamorosamente mancato di fecondare la psichiatria e le sue più che discutibili pratiche di cura.

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[1] F. Broussais, De l’irritation et de la folie, Paris 1834.

[2] PDM Manuale diagnostico psicodinamico (2006), tr. it. Cortina, Milano 2008.

[3] J. Lacan, L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre, Séminaire 1976 -1977, pubblicazione fuori commercio, lezione IV, p. 48.

[4] P. A. Rovatti, La filosofia può curare?, Cortina, Milano 2006, pp. 22-23.

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