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Antropologia e psichiatria: Ernesto de Martino e i mondi “altri”

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


1. Il folle, il primitivo, il bambino: a proposito di mondi “altri”

2. Un Janet marxista: sul concetto di miseria psicologica 

3. Tra Freud e Binswanger

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S&F_n. 14_2015

Abstract


Anthropology and Psychiatry: Ernesto de Martino and the "others" Worlds

This paper intends to show the relationship of Ernesto de Martino’s anthropology with psychiatric and psychoanalytic sciences. De Martino in fact used clinical document to explain magic rituals and the system of symbols that man in any historical time build to exorcise the danger of individual or cultural apocalypse, where the Dasein is exposed to the risk of a crisis. De Martino red Pierre Janet, Freud and Binswanger’s works, however he modeled these studies trough his personal theoretical intention, that was to show the dynamics that lead to the resolution of crisis.


  1. Il folle, il primitivo, il bambino: a proposito di mondi “altri”

 

Ma perché tanti scrittori classici mostrano indifferenza nei confronti degli animali, dei bambini, dei folli e dei primitivi?

Tutto nasce dalla loro convinzione che esista un uomo compiuto, votato a esser «padrone e possessore» della natura, come diceva Descartes.

Merleau-Ponty, Conversazioni

 

Ernesto de Martino non può certamente esser considerato uno “scrittore classico”: era interessato ai mondi “altri”, quelli rimossi dalla cultura ufficiale e dalla sua prosopopea, quelli di cui non si fa storia, come avrebbe detto il suo maestro Benedetto Croce. E de Martino il suo maestro dovette deluderlo e non poco, incappando in una contraddizione insolubile, quella di voler applicare lo storicismo all’etnologia, un metodo nobile a una materia grezza, che si occupava di “incompiutezze” di vario ordine e grado.

Quello di de Martino era uno sguardo posato sulla differenza, sul volto dell’altro, Altro come anello debole di qualche catena, Altro bandito dalla comunità dei ben nati, dei ben riusciti, che la comunità allontana da sé e dal suo sguardo vivisezionante e catalogante.

Fu subito un outsider Ernesto de Martino: un crociano schizofrenico che auspicava la nascita di un’etnologia storicista, un comunista naïv, inviso a Togliatti, assieme a tutti quelli che diffondevano l’oscurantismo, alimentando bislacchi interessi nei confronti di occultismo e pratiche magiche, invece di restare coi piedi per terra e analizzare i più concreti rapporti città-campagna o la questione Meridionale; nel 1952, in una riunione della Commissione Culturale Nazionale, il leader del PCI stigmatizzava le serissime indagini sulla validità conoscitiva della stregoneria e le varie correnti spiritualistiche e irrazionalistiche allora in voga; fu anche de Martino, un heideggeriano mancato: dal pensatore di Meßkirch prese in prestito il lessico ma non le intenzioni, poiché il suo “esserci” era troppo intriso di valori umanistici per avere realmente a che fare con l’ontologia heideggeriana. Oltre a tutto questo, de Martino fu un appassionato di dottrine psichiatriche e psicanalitiche, convinto del valore euristico del documento clinico, inteso come strumento di analisi sia della ritualità magico religiosa, sia delle apocalissi culturali moderne.

Il sincretismo teoeretico e linguistico che caratterizza il suo approccio speculativo ha dato vita a una riflessione assolutamente originale, difficilmente catalogabile, ma sempre tesa alla scoperta dell’altro, alla sua dimensione perturbante e nondimeno alla sua profonda appartenenza alla comunità umana. Per de Martino dunque, quelle del primitivo, del folle, del bambino, lungi dall’essere dimensioni di incompiutezza o di “anomalia”, stanno sempre a dirci qualcosa su noi stessi e dunque costituiscono in ogni tempo e in ogni luogo delle voci da ascoltare.

  1. Un Janet marxista: sul concetto di miseria psicologica

De Martino fu un appassionato lettore di Pierre Janet, al quale giunse attraverso i suoi studi di metapsichica, probabilmente grazie a Vittorio Macchioro, suo suocero nonché eclettico archeologo interessato a fenomeni di occultismo e pratiche magiche.

Il Mondo magico è ricco di citazioni tratte da L’automatisme psycologique[1], da cui de Martino mutua i concetti di forza e miseria psicologica.

Secondo Janet «tutta la storia della follia dipende dalla debolezza della sintesi attuale, che è debolezza morale essa stessa, la miseria psicologica. Il genio, al contrario, è una potenza di sintesi capace di formare idee nuove, che nessuna scienza anteriore poteva prevedere: è l’ultimo grado della potenza morale»[2].

Malgrado fosse un comunista inviso ai comunisti, de Martino non poté fare a meno di piegare in senso marxiano le categorie psicologiche di Janet, che difatti utilizzò per l’analisi delle realtà rurali del Mezzogiorno d’Italia:

Occorre tener presente il significato psicologico di una negatività possibile in un regime di esistenza nel quale hanno particolare rilievo le crisi di miseria psicologica. Il rischio di perdere la presenza si configura qui come rischio che la prospettiva del negativo si vada isolando nella coscienza e diventi parassitaria, onde tutti gli altri contenuti di coscienza si fanno allusivi o simbolici rispetto all’evento temuto […] In un regime esistenziale in cui la potenza del negativo coinvolge lo stesso centro della positività culturale, cioè la presenza in quanto energia operativa […] hanno corso tecniche magiche che aiutano la presenza a reintegrarsi dalle sue crisi[3].

Per de Martino il regime esistenziale in cui la potenza del negativo coinvolge lo stesso centro della positività culturale, non è quello individuale della malattia psichica, bensì quello condiviso di un contesto sociale ed economico nel quale la presenza è esposta, perché meno alto è il controllo tecnico della natura da parte dell’uomo e dunque maggiore è l’alea che caratterizza l’esistenza e la sussistenza delle persone. È in queste condizioni di deprivazione economica e tecnica che va sviluppandosi la miseria morale e di conseguenza una serie di pratiche e rituali atti a scongiurare la potenza del negativo; il fenomeno del tarantismo pugliese ne è un esempio emblematico: il “morso” della taranta colpiva le donne intente al lavoro nei campi, spesso nei periodi di raccolta ed era dunque legato alla difficoltà e alla fatica di trarre i mezzi di sussistenza.

L’analisi della patologia mentale comporta in Janet la messa in discussione dell’unità metafisica della persona, almeno così come è concepita dalla civiltà occidentale. Quel trascendentale kantiano, che sta prima di ogni esperienza e che le dà senso e fondamento, il mai deciso, perché già da sempre dato, è al contrario una realtà spesso labile e precaria, costantemente a rischio di perdersi.

Afferma difatti Janet:

Bisognerà, riteniamo, far arretrare ulteriormente la vera natura della persona metafisica, e considerare l’idea stessa di unità personale come un’apparenza che può subire modifiche[4].

Il “protocollo kantiano” non costituisce dunque la sola ed esaustiva maniera di stare presso il mondo e ne Il mondo magico, de Martino rafforza questo punto di vista, scatenando di fatto l’ira di Croce:

Kant assumeva come dato astorico e uniforme l’unità analitica dell’appercezione, cioè il pensiero dell’io che non varia con i suoi contenuti, ma che li comprende come suoi, e di questo dato pose la condizione trascendentale nell’unità sintetica dell’appercezione […] Come non esistono (se non per l’astrazione) elementi e dati di coscienza, così non esiste affatto una presenza, un empirico esserci che sia un dato, un’immediatezza originaria al riparo da qualsiasi rischio, e incapace nella sua propria sfera di qualsiasi dramma e di qualsiasi sviluppo: cioè, di una storia[5].

Una visione integralmente umanistica, non poteva per de Martino limitarsi alla sola esperienza della civiltà occidentale.

Lo sguardo rivolto ai mondi altri, da quello meccanico e ricorsivo della follia, a quello dei “selvaggi”, più o meno vicini di casa, alle prese con riti e pratiche ancestrali, fino a quello di una certa deriva culturale contemporanea, consentono a de Martino di superare il grosso limite della consapevolezza storiografica occidentale, colpevole di ipostatizzare metafisicamente la presenza, che è invece un istituto in fieri, una formazione storica, l’esito sempre di una scelta tesa alla costruzione di valori condivisi. Quello che de Martino comprende di contro a Croce è che non esiste una cesura netta che separa l’incoerenza del mondo primitivo o della malattia mentale dalla chiara coerenza razionale dell’uomo sano, adulto e civilizzato. Per parafrasare Merleau-Ponty, tale coerenza non è mai realmente posseduta neanche dal cosiddetto uomo compiuto, poiché essa

resta un’idea o un limite in realtà mai raggiunto, per cui il “normale” non può chiudersi in se stesso, e deve cercare di comprendere le anomalie da cui non è mai totalmente esente. È tenuto a esaminarsi senza indulgenza, a riscoprire in sé ogni sorta di fantasma, di fantasticheria, di comportamenti magici, di fenomeni oscuri che permangono[6].

È proprio per questo che de Martino non cessa di guardare al mondo della malattia mentale e a quello del magismo: in entrambi egli riconosce il rimosso della cultura occidentale, la sua parte oscura e sempre in agguato, un rimosso che ricompare spesso sotto forma di sintomo e che va conosciuto e guardato negli occhi se davvero si vuole tendere verso l’idea mai raggiunta di uomo compiuto. In effetti l’opera di de Martino può essere interpretata come un continuo esorcismo della possibilità sempre incombente di un ritorno all’irrazionale, sia esso quello del delirio solipsistico del disagio psichico, sia quello della credenza e del rito magico.

La stessa spinta alla ricerca etnologica, alla conoscenza dell’arcaico, soprattutto di quello esistente a pochi passi dal mondo civile, nasce dall’esigenza di fare chiarezza sulla costante minaccia di un suo potenziale ricorso. Basti ricordare che de Martino vive in un periodo, quello tra le due guerre, nel quale pare davvero che il «lato oscuro dell’anima» possa riacquistare signoria e ricongiungersi «col non abbastanza esorcizzato mondo primitivo»[7].

Non è un caso che il Mondo magico, scritto nel 1948, sia stato interpretato come una sorta di transfert attraverso cui l’antropologo avrebbe proiettato in un remoto passato la crisi e la precarietà del presente, al fine di riscattare la presenza del mondo occidentale[8].

Se Janet considerava l’attività valorizzante umana come l’ultimo grado della potenza morale e dunque forza di riscatto, allo stesso modo de Martino andava interpretando la presenza, l’esserci nel mondo, come trascendimento della vita nel valore: «La sua realtà [della presenza] è tutta - senza residuo – nell’atto di decidere o oltrepassare secondo valori le situazioni della propria storia (che questo e null’altro è lecito intendere quando si parla dell’umano ex-sistere[9].

  1. Tra Freud e Binswanger

Gli interessi di de Martino nei confronti del documento clinico non si limitano al Janet de L’automatisme psycologique: affascinato dal linguaggio heideggeriano, l’antropologo non poteva esimersi dallo studio dell’antropoanalisi di Binswanger, che naturalmente va piegando secondo la sua personale intenzione teoretica.

Nel 1941 de Martino cita Binswanger all’interno di una sua recensione a un testo di Leibbrand[10], il che risulta abbastanza anomalo se si considera quale fosse all’epoca il livello della nostra tradizione psichiatrica, ferma su posizioni organicistiche. Ciò che accomuna l’antropologo e lo psichiatra è una certa insofferenza verso ogni forma di ortodossia disciplinare e d’altro canto l’esigenza di integrare le rispettive ricerche con strumenti teorici e pratici appartenenti ad altri settori; entrambi hanno un debole per la filosofia e in particolare per la lingua nuova e ricca di possibilità elaborata da Heidegger.

Non amano il riduzionismo delle scienze, soprattutto quando tale riduzionismo viene applicato a una realtà così ricca e complessa come quella umana. Bersaglio comune, per motivi diversi, ma sempre riconducibili a una certa rigidità e a un certo determinismo, sarà la psicanalisi freudiana, rea di costringere e ridurre la realtà umana nell’esigua regione degli istinti. In particolare de Martino non accetta l’interpretazione freudiana del fenomeno religioso, ridotto a mera sublimazione della sessualità.

In un colloquio con Freud, Binswanger annota: «Gli dissi che secondo me era necessario ammettere nell’uomo l’esistenza di una specie di categoria religiosa di fondo, e che in ogni modo non potevo accettare l’ipotesi che “il religioso” fosse un fenomeno derivabile da qualcos’altro»[11].

Quanto alla loro comune matrice teorica, l’analitica esistenziale, essi praticano una declinazione ontica dell’ontologia[12] volta a spostare l’attenzione sui «vissuti».

L’antropologo resta nondimeno affascinato dalla lettura di Al di là del principio del piacere che «doveva segnare l’inizio di un nuovo corso del movimento psicanalitico […] racchiudeva notevoli possibilità ermeneutiche per un’interpretazione del sacro e del mito che tenesse conto delle motivazioni inconsce»[13]. A de Martino interessa il concetto di “rimozione” dei contenuti traumatici: come Freud è convinto che essi riemergano e si ripresentino sotto forma di sintomo. Come Freud inoltre de Martino interpreta la presenza fisiologica come energia oltrepassante, non condivide tuttavia la riduzione di questa energia alla sola libido, e va connotandola di una tensione etica inesistente nel dettato freudiano.

De Martino è affascinato dal caso del bambino col rocchetto presente in Al di là del principio del piacere: il bambino dava vita a uno strano rituale: scagliava via il rocchetto facendolo sparire alla vista ed emettendo contemporaneamente suoni di disappunto, per poi ritirarlo dal suo nascondiglio con espressioni di gioia. Questa pantomima riproduceva ludicamente la crisi scatenata dall’allontanamento della madre e la festosità per il suo ritorno. Il bambino stava trasformando in gioco un’esperienza traumatica. Secondo Freud:

Di fronte all’accadimento, egli si trovava all’inizio in posizione passiva; quasi fosse travolto dal suo impatto, ma a furia di ripetere l’esperienza, per quanto sgradevole essa fosse, sotto forma ludica, eccolo assumere un ruolo attivo. Si potrebbe pensare che il bambino cercasse di affermare così una tendenza al padroneggiamento[14].

Anche per de Martino in questo caso:

Aveva luogo così una forma di ripetizione di tipo diverso dalla ripetizione coatta e irrisolvente nelle nevrosi traumatiche[15].

Anche nell’espressione mitico-rituale si produce un movimento di ripetizione attiva volto a scongiurare il rischio di alienazione; la ripetizione rimette in scena un passato in cui fu già tutto stabilito da numi o da eroi, instaurando perciò un regime di esistenza protetta, dove ciò che si vive viene percepito come già accaduto in illo tempore, e quindi privo di pericoli e incertezze; grazie a questo espediente, per cui si sta nella storia come se non ci si stesse, è possibile rientrare in essa come protagonisti attivi e promotori di sempre nuovi valori.

Con Binswanger al contrario de Martino condivide l’intenzione di sviscerare le ragioni che si celano dietro quei fenomeni che appaiono e vengono bollati come irrazionali: se de Martino interpreta la magia non come caduta nel caos e nel non-senso, ma come tecnica restauratrice di orizzonti in crisi, allo stesso modo ciò che appare delirante e patologico costituisce per Binswanger solo un discorso diverso, un modo particolare di essere-nel mondo; questi due modi di esserci sono caratterizzati, come gli altri, dalla dimensione del progetto. Se de Martino apprezza l’approccio antinaturalistico di Binswanger, che avrebbe concorso a «raccorciare le distanze che impedivano in passato qualsiasi feconda collaborazione fra studiosi di fenomeni culturali e studiosi della psiche malata»[16], tuttavia non ne condivide gli esiti: l’assoluta apertura verso il mondo della malattia mentale e il discorso “altro” che essa produce, condurrebbe secondo de Martino a una pericolosa quanto fuorviante indistinzione dei termini malattia-salute, addirittura spesso ribaltandoli; lo psichiatra infatti, attraverso Heidegger, interpreta la sofferenza dello psicotico quasi come una via d’accesso alla vita autentica, a una dimensione esistenziale che, pur nel travaglio, si affranca dall’immedesimazione deiettiva col mondo, ponendo in essere una progettualità diversa, ma non per questo meno legittima. Anche de Martino è disposto a conferire dignità e progettualità al suo sciamano, ai tarantati del Salento, e ai contadini del Sud Italia, ma solo in quanto essi, con le loro pratiche apparentemente irrazionali, si inseriscono in una dimensione comunitaria, collettiva e soprattutto condivisa, che invece non è presente nel mondo della malattia mentale. All’interno delle note preparatorie a La fine del mondo, troviamo un paragrafo il cui titolo: Normalità e anormalità, rappresenta un chiaro riferimento alle speculazioni di Binswanger:

L’analisi esistenziale in psicopatologia, quale è stata teorizzata da Binswanger e da Minkowski, intende studiare il mondo in cui vive chi è colpito da alienazione mentale: l’essere malato diventa, in questa prospettiva, l’esser diversamente […] Il mondo dell’alienazione presenta carattere di non essere compatibile con nessuna vita culturale, e di segnare il crollo della stessa cultura come possibilità […] E come si può valutare come un mondo, l’esperire che nasce dall’andar perdendo il proprio mondo storico, il nesso con la propria cultura, la relazione con gli altri?[17].

È vero, de Martino critica fortemente l’etnocentrismo occidentale, che tende a ignorare o a delegittimare ciò che è considerato diverso e alieno, nel contempo però l’antropologo non manca di contrapporsi a quel relativismo culturale che va eliminando ogni distinguo, in virtù di un approccio meramente descrittivo ai fenomeni. Se il “diverso”, la differenza non sono più percepiti come tali, diventa impossibile anche ogni processo di identificazione, di riconoscimento di un qualsiasi tipo di “appartenenza”, e diventa dunque anche impossibile comprendere le ragioni storiche per cui la differenza esiste. Attraverso l’equiparazione di normalità e anormalità, Binswanger avrebbe peccato proprio di relativismo culturale e, secondo de Martino, come Heidegger, sarebbe rimasto fermo a un’analisi a-storica del Dasein. Del resto, quello di de Martino resta un Dasein umanistico[18], per cui essere nel mondo diviene sempre “dover essere nel mondo”, nella tensione costante di trascendere la vita nel valore.

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[1] P. Janet, L’automatisme psycologique. Essai de psycologie expérimentale sur les formes inferieures de l’activité humaine, Alcan, Paris 1889.

[2] Ibid., p. 478

[3] E. de Martino, Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 2002, pp. 107 e 95.

[4] P. Janet, op. cit. p. 238.

[5] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948),Bollati Boringhieri, Torino, pp. 159-60.

[6] M. Merleau-Ponty, Conversazioni, tr. it. SE, Milano 2002, p. 47.

[7] E. de Martino, Promesse e minacce dell’etnologia (1962), in Furore Simbolo Valore, Milano, 2002, pp. 85-86.

[8] C. Cases, Introduzione a Il mondo magico, cit., p. XXVI.

[9] E. de Martino, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut-Aut», XXXI, 1956, p. 19.

[10] W. Leibbrand, Medicina romantica, in «Studi filosofici», II, 1941, p. 212.

[11] L. Binswanger, Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in Essere nel mondo (1963),tr. it. Astrolabio, Roma, 1973, p. 187.

[12] P. Cherchi, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Guida, Napoli 1994, p.67.

[13] E. de Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna (1959), in Furore Simbolo Valore, Milano 2002, p. 41.

[14] S. Freud, Al di là del principio del piacere, tr. it. Newton, Roma 1993, p. 31.

[15] E. de Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, cit. p. 43.

[16] Id., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in «Nuovi Argomenti», 7, LXIX-LXXI, 1964, pp. 113-114,.

[17] Id., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, pp. 169 e 170.

[18] Cfr. G. Sasso, Ernesto de Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 296.


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