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Il mosaico dell’evoluzione umana. Una prospettiva integrata e multilivello al di là di ogni visione unilineare e finalistica

Autore


Andrea Parravicini

Università degli Studi di Padova

Andrea Parravicini è nell’Unità di ricerca in Filosofia della biologia del Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova

Indice


  1. L’influenza di Darwin sulla filosofia
  2.  «La teleologia è un veleno sottile…»
  3. La pretesa eccezionalità umana
  4. La scala del progresso e la prospettiva uni-lineare dell’evoluzione umana
  5. L’epistemologia dell’anello mancante
  6. E ora qualcosa di completamente diverso…
  7. Esperimenti a mosaico di bipedismo
  8. La visione gerarchica dell’evoluzione
  9. La «pancia» del cespuglio
  10. Le uscite dall’Africa e l’ipotesi «Sahara»
  11. L’origine di Homo sapiens e il modello dell’«ondata finale»
  12. L’evoluzione della tecnologia: un’invenzione non umana?
  13. Sperimentazioni evolutive di intelligenza simbolica
  14. Il linguaggio umano: un mosaico di tratti?
  15. Riflessioni conclusive

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S&F_n. 16_2016

Abstract


The Patchwork of human Evolution. An integrated and multi‐level Perspective beyond any unilateral and finalistic Vision


Despite Darwin’s theory proposes a contingent view of life's evolution and a «tree thinking» approach to reconstruct the history of living beings, human evolution has always been generally considered as an exception with respect to the normal evolutionary phenomena. The present article examines this recurrent view of human evolution, which is often depicted as a linear and teleological story that inevitably ends with the emergence of Homo sapiens. A multi-level and pluralist view of human evolution, able to integrate the most recent empirical evidence coming from different fields within a unified theoretical framework, seems to be an excellent antidote to reflect about the human uniqueness without preconceived ideologies.


  1. L’influenza di Darwin sulla filosofia

La teoria dell’evoluzione darwiniana ha provocato un cambiamento di prospettiva epocale nel pensiero occidentale. Come ha colto bene il filosofo pragmatista John Dewey[1], già il titolo del capolavoro di Darwin, L’origine delle specie (1859), esprime una sorta di rivolta intellettuale contro i presupposti della filosofia della natura e della conoscenza che aveva dominato nel pensiero occidentale per più di duemila anni. Quest’ultima considerava tutto ciò che in natura e nel sapere umano è fisso e immutabile, o ha uno scopo finale, come qualcosa di superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine nel tempo. Darwin ha operato una vera e propria rivoluzione filosofica considerando il cambiamento contingente, il divenire cieco, non più come segni di difetto e di irrealtà, ma come ciò che connota profondamente i fenomeni e le forme della natura, considerati ora come risultati di un processo evolutivo senza scopo.

Con la sua teoria basata sui principi di selezione naturale, variazione casuale, ereditarietà dei tratti, Darwin ha consegnato alla comunità scientifica una teoria in grado di interpretare i fenomeni viventi e i processi a essi sottostanti senza fare appello a cause finali, creazioni divine o a disegni intelligenti, e capace di dar conto dell’origine e dell’evoluzione della vita attraverso leggi e regolarità normalmente operanti in natura.

  1. «La teleologia è un veleno sottile…»

La teoria darwiniana, basata sul principio di selezione naturale, così radicalmente anti-teleologico e anti-essenzialista, all’inizio fu però oggetto di dure critiche e tenaci resistenze da parte dei sostenitori di una visione tradizionalmente creazionista. In particolare, l’idea che gli esseri umani fossero evoluti da forme scimmiesche si configurava per i contemporanei di Darwin come la questione più indigesta e difficile da accettare. Non si trattava solo delle difficoltà scientifiche di spiegare come dall’accumulo di una serie di variazioni casuali selezionate per la loro utilità potesse nascere qualcosa di così complesso come, ad esempio, la facoltà del linguaggio o le capacità di ragionamento e di giudizio morale. L’idea che l’essere umano discendesse da un progenitore scimmiesco, infatti, sfidava anche profondi e radicati sentimenti religiosi, certezze morali e convinzioni antropocentriche.

Come notava perspicacemente Chauncey Wright, uno dei più validi alleati filosofici di Darwin sul suolo americano, «la teleologia è un veleno sottile e si cela dove meno si sospetta»[2]. E infatti la prospettiva darwiniana sull’evoluzione umana non solo riceveva critiche e opposizioni, a volte anche violente, da parte dei detrattori di Darwin, come ci si può facilmente immaginare, ma era oggetto di resistenze anche da parte di alcuni tra i più stretti alleati e amici del naturalista inglese, sulla base di malcelate e profonde istanze teleologiche mai del tutto abbandonate.

Così, il geologo Charles Lyell, amico e punto di riferimento di Darwin, nella sua opera del 1863 sull’«antichità dell’uomo» non affermava mai apertamente di credere nella discendenza dell’essere umano da un progenitore scimmiesco e preferiva spiegare le facoltà spirituali umane evocando «cause nuove e potenti», mentre definiva l’evoluzione del linguaggio «un mistero profondo»[3].

Lo stesso Alfred R. Wallace, co-scopritore del principio di selezione naturale insieme a Darwin, a partire dalla fine degli anni sessanta dell’Ottocento iniziò a sostenere che la selezione naturale non fosse sufficiente a spiegare le strutture e la facoltà più tipicamente umane, come la conformazione della mano, la nudità del corpo, lo sviluppo delle facoltà morali e intellettuali, le capacità linguistiche. Tutti questi tratti, secondo Wallace, erano eccezioni che non potevano essere spiegate attraverso il normale operare di processi naturali, ma solo facendo ricorso a un’intelligenza superiore che agisce per un fine supremo e che dirige le variazioni facendo evolvere la natura mentale e morale dell’uomo[4].

  1. La pretesa eccezionalità umana

Oggi gli scienziati impegnati nello studio dell’evoluzione umana non parlano più, certamente, di cause extranaturali o di intelligenze superiori che operano per fini supremi. La teoria dell’evoluzione ha effettivamente prodotto, come aveva ben intuito Dewey, un mutamento radicale sul lungo periodo, in quanto ha aperto le porte all’applicazione ai fenomeni viventi, compresi quelli mentali, del metodo scientifico, escludendo ogni tipo di spiegazione che faccia ricorso a fini superiori, a disegni intelligenti o a misteriose forme a priori che sottostanno ai fenomeni e li dirigono[5].

Ma la teleologia è un veleno sottile, si diceva, e può nascondersi in forme meno evidenti anche tra le spiegazioni scientifiche più recenti e insospettabili. In particolare, l’idea molto diffusa che l’evoluzione umana o certi tratti umani più complessi esprimano caratteristiche di eccezionalità rispetto a tutto il resto del mondo vivente spesso tradisce sentimenti di orgoglio narcisistico e antropocentrico che alla luce delle ultime scoperte in campo paleoantropologico non hanno più alcuna ragion d’essere, come ora vedremo.

L’esempio più caratteristico di questo modo di pensare è l’idea che gli esseri umani si siano evoluti in maniera differente rispetto alle altre specie appartenenti alla classe dei mammiferi. La prospettiva suggerita da Darwin, fin dal primo abbozzo disegnato nei suoi taccuini giovanili[6], è che l’evoluzione delle specie proceda come un albero irregolarmente ramificato, dove ogni ramo rappresenta una traiettoria evolutiva, che può a un certo punto arrestarsi, per via dell’estinzione dei suoi ultimi rappresentanti, oppure può procedere e moltiplicarsi in ulteriori rami e traiettorie evolutive. Esso, come un corallo, può dirigere le sue ramificazioni in tutte le direzioni, senza alcuna direttrice precisa o prevedibile. Questa idea del procedere irregolare, contingente e disordinato dell’evoluzione è largamente confermata dai dati oggi a disposizione, e sicuramente è ben rappresentata nella storia delle varie specie di mammiferi, cui anche H. sapiens appartiene, che popolano e hanno popolato la Terra fino a oggi. Di norma, invece, si è per lungo tempo pensato, e spesso si tende a pensare ancora oggi, che l’evoluzione umana costituisca un’eccezione a tale procedere ramificato.

  1. La scala del progresso e la prospettiva uni-lineare dell’evoluzione umana

L’idea che il mondo naturale formasse una scala lineare di progresso e di perfezione in cui gli esseri umani occupavano i gradini più alti della creazione, era molto diffusa tra i naturalisti e i filosofi predarwiniani. Dopo Darwin l’immagine dell’albero soppiantò quella della scala, ma l’idea di progresso e di linearità che l’immagine della scala naturae portava con sé tendeva a essere in qualche modo reintrodotta surrettiziamente anche nelle ricostruzioni di molti evoluzionisti darwinisti.

Ernst Haeckel, ad esempio, rappresentava l’albero dell’evoluzione come caratterizzato da tanti rami laterali e da un grande tronco principale, ponendo in cima a esso l’essere umano. Tale raffigurazione poteva essere facilmente letta come se la linea evolutiva principale, rappresentata dal tronco centrale, portasse direttamente e inevitabilmente alla nostra specie, e come se i rami laterali dell’albero non fossero altro che snodi secondari che non portavano a nulla di evolutivamente significativo[7].

Un’altra immagine di un’evoluzione progressiva e teleologicamente orientata fu espressa a suo modo, come argomentava Stephen J. Gould in Wonderful Life[8], anche dal modello iconografico del «cono della diversità crescente», che esprimeva la visione tradizionalmente gradualista del darwinismo otto-novecentesco di un albero evolutivo che, a partire da pochi piani strutturali di partenza, progressivamente e gradualmente si diversifica e diverge, in un processo continuo e graduale senza scossoni o fratture. Tale visione, rilevava Gould, ancora non si liberava dal desiderio di introdurre nella storia dei viventi le unità drammatiche di un inizio da forme semplici, di un progresso intermedio verso una sempre maggiore eccellenza, complessità e diversità, e di un finale che inevitabilmente celebrava l’ingresso trionfale di Homo sapiens nello scenario evolutivo.

Gli stessi padri della Sintesi Moderna, che saldava la teoria di Darwin con la nuova scienza della genetica, riservavano all’evoluzione umana uno statuto di eccezionalità che la assimilava ancora una volta a una linea graduale la quale, in una progressione di forme una in fila all’altra, portava direttamente a Homo sapiens. Theodosius Dobzhansky, ad esempio, affermava che in campo paleoantropologico non sarebbe mai stato possibile trovare due forme ominidi esistenti allo stesso tempo[9], mentre Ernst Mayr, oltre a confermare questa idea, concepiva l’evoluzione umana come una sorta di transizione evolutiva lineare che, dalle prime scimmie bipedi, portava a H. sapiens passando attraverso due soli stadi intermedi, Homo transvaalensis e Homo erectus[10].

 

  1. L’epistemologia dell’anello mancante

Questa idea secondo cui l’evoluzione umana procederebbe secondo un pattern lineare, in cui non può mai trovarsi più di una singola specie politipica di ominidi allo stesso tempo e nella medesima area geografica, è rimasta per lungo tempo il modello di riferimento privilegiato in paleoantropologia, mettendo capo a quella che è stata definita «l’epistemologia dell’anello mancante»[11]. Essa presuppone che l’evoluzione proceda senza cambiamenti di ritmo, in modo lento e graduale, e che in ogni epoca si sia succeduta una sola specie polimorfica, in continua e graduale trasformazione e con interfecondità globale. Questa linea di trasformazione evolutiva, in realtà, è una scala progressiva, perché tale impostazione presuppone anche che ogni specie nuova sia meglio adattata e più intelligente di quella precedente, fino al raggiungimento, attraverso un graduale processo di encefalizzazione, del tipo di intelligenza razionale e simbolica tipica dell’essere umano moderno.

Inutile dire che questa immagine potente di un’evoluzione umana lineare e progressiva in cui forme meno progredite e intelligenti lasciano il posto a forme sempre più progredite e intelligenti fino all’ingresso in scena trionfale della nostra specie, è molto popolare e abusata anche oggi fuori dai contesti scientifici. Sui giornali si sente spesso la notizia di un qualche «anello mancante» ritrovato, che spiega la transizione tra due forme, specialmente se riguarda fossili correlati all’evoluzione umana[12]. L’idea che l’evoluzione umana proceda linearmente spopola anche in rete, in cui la famosa e abusata immagine che ritrae una fila di scimmie sempre più erette che porta a Homo sapiens viene utilizzata anche per pubblicizzare prodotti commerciali di tutti i tipi.

L’evoluzione, tuttavia, non sembra affatto procedere in questo modo, proprio perché, come ora vedremo meglio, essa non procede in modo teleologicamente orientato al progresso, o in modo preordinato o predestinato verso una qualche meta finale. L’idea dell’anello mancante, invece, implica la concezione finalistica secondo cui gli organismi che evolvono seguono traiettorie preordinate, tendenti al progresso, e con un finale umano troppo umano[13].

  1. E ora qualcosa di completamente diverso…

Negli ultimi anni, la disponibilità di strumenti avanzati per condurre analisi integrate e l’uso estensivo di nuove tecniche di datazione, la crescita della base empirica e la convergenza di una massa impressionante di dati eterogenei, di tipo paleontologico, archeologico, genetico, paleo-biogeografico, paleo-ecologico, stanno componendo una storia completamente diversa, che rende del tutto improbabile il modello lineare dell’evoluzione umana, malgrado il suo risorgere episodico per periodi limitati della storia evolutiva anche in contesto paleoantropologico[14].

Il quadro filogenetico che oggi si sta configurando rassomiglia molto di più a un intricato ed enorme cespuglio, in cui la nostra specie rappresenta solo un ramoscello molto recente, originatosi 200 mila anni fa. In molti punti del cespuglio si possono osservare sovrapposizioni temporali tra specie diverse che hanno convissuto nello stesso periodo e spesso condiviso le medesime aree geografiche. Solo fino a poche migliaia di anni fa, ad esempio, si attesta la presenza di addirittura cinque specie umane vissute contemporaneamente sul nostro pianeta: oltre alla nostra, l’uomo di Denisova, l’uomo di Neanderthal, Homo floresiensis, Homo erectus. Siamo soli, come specie umana, solo da qualche migliaio di anni e la nostra storia è molto più simile a una sperimentazione disordinata e contingente di una pluralità di specie e di generi, spesso avanzati in parallelo, presentando soluzioni anatomiche e comportamentali peculiari, piuttosto che a una storia lineare e ordinata di «ominizzazione» in cui una serie di specie una in fila all’altra preparano l’avvento predestinato di Homo sapiens.

  1. Esperimenti a mosaico di bipedismo

Un esempio eloquente della nuova visione che negli ultimi anni sta emergendo in campo paleoantropologico è costituito dall’evoluzione del bipedismo nei primi ominini. Dati paleontologici recenti attestano già tra i 7 e i 4,4 mya[15] i primi esperimenti di comportamento bipede. Almeno quattro specie differenti di candidati ominini appartenenti a ben tre diversi generi (Sahelanthropus tchadensis, Orrorin tugenensis, Ardipithecus kaddaba e Ardipithecus ramidus) presentano un mosaico di soluzioni anatomiche del tutto compatibili con comportamenti da bipede facoltativo, ognuno a proprio modo. Le strutture anatomiche di questi primi ominini mostrano un misto di caratteri trattenuti (ovvero «primitivi») e derivati (cioè «nuovi») che suggeriscono l’idea di una serie di «esperimenti» posturali adattativi.

Interessante è il fatto che queste soluzioni posturali sembrano direttamente collegate a un contesto climatico fluttuante di radicale instabilità, caratterizzato da una progressiva estensione di habitat aperti[16]. Durante il Neogene, forti cambiamenti climatici e ambientali trasformarono l’Africa sud-orientale da una regione relativamente piatta, omogenea e ricoperta di foreste in una regione eterogenea, con alte montagne e un mosaico di habitat differenti, che variavano dalle foreste pluviali fino alle praterie e ai deserti.

In un tale scenario mutevole si osserva una transizione evolutiva, condotta da più specie contemporaneamente, da un bipedismo occasionale a un bipedismo abituale, come nel caso delle australopitecine, che mantengono insieme alla postura eretta anche adattamenti residui per arrampicarsi sugli alberi. Proprio come i primi ominini, anche le specie appartenenti al genere Australopithecus si mostrano dotate di un corredo unico di caratteristiche anatomiche con tratti «primitivi» e «derivati» che attestano soluzioni adattative peculiari e uniche di bipedismo e anatomie molto variabili anche all’interno di una stessa specie.

Proprio in questi giorni una squadra di paleo-antropologi italiani ha presentato la scoperta di orme lasciate 3,6 mya a Laetoli (Tanzania) da piedi molto grandi, appartenenti a un esemplare di A. afarensis, che fanno pensare a una statura dell’individuo di almeno 1,65 m, fuori dal comune se consideriamo l’altezza molto più ridotta degli esemplari noti della stessa specie[17]. Ciò fa ipotizzare la presenza nella specie di A. afarensis di un forte dimorfismo sessuale e plausibilmente di una struttura sociale caratterizzata da legami poligamici, ma soprattutto questa scoperta scardina qualsiasi idea tradizionale secondo cui altezza e dimensioni cerebrali (tipicamente di circa 400-500cc in A. afarensis) procederebbero evolutivamente insieme, in modo lineare e progressivo.

Intorno a 2,8 mya, secondo le più recenti datazioni[18], compare il genere Homo e il comportamento bipede diviene prima prevalente e poi obbligato, sempre attraverso una pluralità di specie separate, ognuna con una propria particolare dotazione di tratti specifici in un contesto climatico e ambientale altamente instabile.

Come rivelano i pattern caratterizzanti l’evoluzione del bipedismo, la transizione procede a mosaico, con una serie di specie più adattate a uno stile di vita arboricolo che lasciano il posto a una pluralità di altre specie che mostrano combinazioni uniche di tratti trattenuti e derivati, che sperimentano l’incipiente novità comportamentale. Questa serie di «esperimenti» posturali procedenti a mosaico (e non certo in modo lineare o secondo l’immagine di una scala progressiva) risultano inoltre strettamente connessi a processi macro-evolutivi caratterizzati da instabilità climatica e cambiamenti ambientali che configurano un mosaico di ambienti fluttuanti e instabili.

  1. La visione gerarchica dell’evoluzione

Questo stretta interdipendenza, caratterizzante l’evoluzione umana, tra fattori ecologici e fattori genealogici all’interno di una visione stratificata e gerarchica dell’evoluzione è stata più in generale recentemente studiata e messa alla prova in differenti campi del programma di ricerca evolutivo da un team di scienziati e filosofi, «The Hierarchy Group» (www.hierarchygroup.com), dalle più diverse competenze e coordinati dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. Essi hanno sviluppato, sulla base della teoria gerarchica del paleontologo Niles Eldredge, un modello evolutivo molto promettente per illuminare problematiche eterogenee legate a differenti fenomeni evolutivi e presentato i risultati ottenuti nel recente volume Evolutionary Theory: A Hierarchical Perspective[19].

Questo nuovo sguardo sui processi evolutivi propone un’estensione del programma di ricerca Neo-darwiniano con l’inclusione di nuovi pattern e processi (come quelli macro-evolutivi, di costruzione di nicchia, plasticità fenotipica, processi exattativi, selezione multilivello, e così via) da affiancare a quelli fondamentali riconosciuti dalla Sintesi Moderna a livello popolazionale (come i processi di selezione naturale e di deriva genetica) in una cornice gerarchica e multilivello in cui processi che accadono in determinati livelli della gerarchia evolutiva (geni, popolazioni, specie) possono propagarsi verso l’alto o verso il basso lungo differenti livelli e fenomeni di tipo ecologico a qualche livello (organismi, avatars, ecosistemi) possono influire fortemente sui processi di tipo genealogico e viceversa[20].

Questo tipo di interazione complessa, plurale e multilivello, si sta rivelando molto utile in paleoantropologia, e non si osserva solamente quando si parla di evoluzione del bipedismo, ma illumina molti e differenti temi e problematiche legate all’evoluzione umana, dalla grande diversificazione di specie in vari periodi della storia umana alle migrazioni fuori dall’Africa fino all’origine dell’intelligenza simbolica[21].

  1. La «pancia» del cespuglio

Tra 2,9 e 2 mya si osserva una vera e propria esplosione di diversificazione nel cespuglio dell’evoluzione umana, che raggiunge la sua massima estensione, confutando in modo netto qualsiasi pretesa di linearità per la filogenesi umana. Al di là, infatti, della presenza degli ultimi rappresentanti del genere Australopithecus (A. africanus, A. garhi, A. sediba), anche il genere dei parantropi (2,7 mya) e il genere Homo (2,8 mya) sembrano essersi originati in questo intervallo di tempo, suggerendo una sorprendente coabitazione di diverse specie e generi in Africa sud-orientale alle soglie del Pleistocene. Anche in questo caso, sempre più chiaramente si sta riconoscendo il ruolo di primo piano che i fenomeni di instabilità climatica e di frammentazione di habitat che hanno caratterizzato tutto questo periodo hanno giocato nell'innescare questa impressionante radiazione di forme ominine, con il verificarsi di speciazioni allopatriche, turnover pulses e pattern di cambiamento punteggiato, piuttosto che lineare o anagenetico[22].

  1. Le uscite dall’Africa e l’ipotesi «Sahara»

Le stesse osservazioni possono essere compiute per periodi successivi, quando esemplari del genere Homo hanno cominciato a uscire dall’Africa a ondate successive e ripetute (ca. 2 mya; 800 kya; 130 kya), colonizzando tutta l’Eurasia, forse ancora a causa delle forti oscillazioni climatiche e delle conseguenti trasformazioni periodiche del Sahara da una zona arida a una zona umida e verde e viceversa[23]. Proprio queste ripetute out of Africa, in territori altamente frammentati e diversificati pieni di barriere geografiche, con fluttuazioni climatiche da periodi più miti a rigidi periodi glaciali, avrebbero prodotto frammentazioni delle popolazioni e conseguentemente innescato ripetute speciazioni geografiche. Con la prima out of Africa, ad esempio, dopo 1,8 mya, il record fossile attesta una grande variazione morfologica in diverse parti del Vecchio Mondo, riconducibile alla presenza di specie di Homo differenti: H. ergaster in Africa; H. erectus in Cina e Indonesia; l’ancora controverso H. georgicus in Georgia; H. antecessor in Europa. Ben quattro specie umane vissute contemporaneamente in Africa ed Eurasia.

Molti indizi puntano poi a riconoscere una seconda uscita dall’Africa intorno a 800-600 kya condotta da H. heidelbergensis, che avrebbe dato origine ad altre varietà locali o nuove specie, come H. neanderthalensis in Europa, e infine a una terza ondata (composta a sua volta da una serie ripetuta di ondate) fuori dall’Africa da parte di H. sapiens (a partire da 130-100 kya), che avrebbe poi colonizzato tutto il pianeta. Al termine di queste ondate di dispersione fuori dall’Africa, ancora 40 kya, all’alba della rivoluzione agricola, i resti paleontologici indicano la coabitazione di almeno quattro specie umane: la nostra, Neanderthal, l’uomo di Denisova e H. floresiensis.

  1. L’origine di Homo sapiens e il modello dell’«ondata finale»

Persino la speciazione di Homo sapiens in Africa, che si attesta a soli 200 kya, sembra sia stata influenzata dagli effetti contingenti dell’instabilità climatica. L’origine degli umani cognitivamente moderni, tuttavia, sembra essere più recente, come se le innovazioni anatomiche e quelle comportamentali procedessero a ritmi spaiati. Recenti scoperte indicano piuttosto chiaramente che solo a partire da 60-80 kya si assiste a un’esplosione senza precedenti di espressioni simboliche in tutta l’area di distribuzione di H. sapiens e dati recenti confermano l’idea che fiammate di innovazione comportamentale e cognitiva siano comparse in Sud Africa intorno a 80-70 kya, correlate a una popolazione di H. sapiens. Questa popolazione, probabilmente dotata di capacità linguistiche e simboliche, secondo un modello recentemente proposto, sarebbe uscita dall’Africa in un’«ondata finale», raggiungendo contemporaneamente l’Europa e l’Estremo Oriente. Ciò spiegherebbe la recente datazione a 40 kya delle pitture rupestri rinvenute a Sulawesi (Indonesia)[24], sorprendentemente antiche quanto le prime pitture già note in Europa (es. Chauvet)[25].

Anche in questo caso, la biogeografia e le migrazioni, in un’interazione complessa con perturbazioni ecologiche regionali innescate da cambiamenti globali e da dinamiche di frammentazione popolazionale, sembrano aver dato luogo a cambiamenti evolutivi fondamentali.

  1. L’evoluzione della tecnologia: un’invenzione non umana?

Nemmeno l’evoluzione delle capacità cognitive sembra, come si pensava solo poco tempo fa, il risultato di un’innovazione comportamentale esclusiva di Homo sapiens, andata evolvendosi in una sola specie in modo lineare e progressivo. Anche in questo caso un andamento disordinato, contingente, plurale e a mosaico del processo evolutivo sembra meglio supportato dalle più recenti evidenze empiriche.

Significativo è il caso dell’evoluzione della tecnologia litica. Le più importanti innovazioni riguardanti gli strumenti litici non sembrano accompagnarsi alle innovazioni anatomiche. L’invenzione del modo 2 (detto acheuleano), ad esempio, sembra attestarsi intorno a 1,7-1,5 mya, per opera di una specie, H. ergaster, originatasi almeno 300-500 mila anni prima. Lo stesso modo 1 (olduvaiano) viene impiegato in modo stabile per due milioni di anni senza innovazioni né sotto-variazioni da specie diverse in varie parti del Vecchio Mondo. Evoluzione anatomica, innovazione comportamentale-tecnologica e cambiamenti ambientali sembrano procedere a ritmi spaiati. E addirittura le ultime scoperte indicano che le prime tecnologie litiche non siano state prodotte dal genere Homo, come tradizionalmente ritenuto.

Nel sito di Lomekwi 3, Turkana occidentale (Kenya), è stata scoperta un’intera industria litica datata sorprendentemente 3,3 mya, ovvero 700 mila anni prima dei primi reperti conosciuti associati al modo 1 e mezzo milione di anni prima del più antico rappresentante conosciuto del genere Homo[26]. Il sito del ritrovamento rientra nella medesima area geografica in cui sono stati scoperti resti appartenenti a Kenyanthropus platyops, una specie ominina vissuta nello stesso periodo cronologico a cui appartiene l’industria lomekwiana. Ciò suggerisce che forse non fu una specie umana la prima a utilizzare strumenti tecnologici, ma un genere ominino differente.

Un’altra scoperta nel sito di Dikika, in Etiopia, riguardante questa volta ossa animali di bovidi e ungulati, datate 3,4 mya, che riportano segni di taglio, raschiamento e percussione inflitti molto probabilmente da artefatti di pietra affilata, se confermata farebbe supporre che anche specie come Australopithecus afarensis, vissuta in quella zona nel medesimo periodo, utilizzassero strumenti litici[27].

Tutto ciò confuterebbe un’idea centrale che da sempre caratterizza la nostra definizione di ciò che riteniamo «umano», nella convinzione che solo gli umani siano dotati di facoltà cognitive che li rendono capaci di costruire e utilizzare strumenti tecnologici, preparando in questo modo il nostro successo evolutivo. Ora invece si inizia a ipotizzare che anche altre specie appartenenti a generi diversi da Homo potessero possedere, a loro modo, i requisiti necessari per poter costruire e utilizzare strumenti litici, ovvero un sistema comportamentale e sociale complesso costituito da conoscenze riguardanti le proprietà dei materiali da usare, da abilità manuali nel lavorare la pietra, da capacità di coordinamento senso-motorio, da competenze nella trasmissione del sapere agli altri membri del gruppo, dalla capacità di individuazione di siti favorevoli e di luoghi di scheggiatura, e infine da attitudini marcate all’organizzazione sociale, alla pianificazione, alla previsione.

  1. Sperimentazioni evolutive di intelligenza simbolica

A queste ipotesi si aggiunge anche l’idea che altre specie umane oltre a H. sapiens fossero dotate, a loro modo, di un comportamento simbolico e di una cognizione di tipo moderno. Recenti ritrovamenti archeologici mostrano un’asincrona comparsa e scomparsa di innovazioni culturali cruciali che si susseguirono in Africa e in Europa durante il Paleolitico medio (300-30 kya) prima di consolidarsi pienamente[28]. Espressioni sporadiche di comportamenti simbolici sono associate a Homo neanderthalensis: sepolture, uso di pigmenti, complesse tecnologie litiche, uso di ornamenti personali si osservano verso la fine della traiettoria evolutiva dei nostri «cugini» più stretti e sfidano l'idea che la cosiddetta «behavioral modernity» sia un tratto unico della nostra specie.

Di recente, oltretutto, sono state ritrovate a Trinil (Giava) anche figure astratte incise su una conchiglia, formanti pattern solitamente associati alla presenza di capacità simboliche, e sorprendentemente risalenti a ca. 540 kya e attribuiti a Homo erectus[29]. Infine, anche per l’ultima specie umana scoperta in ordine cronologico, Homo naledi, i cui 1550 reperti fossili ritrovati in Sud Africa nella Camera di Dinaledi ancora attendono una datazione, si è ipotizzata la presenza di comportamenti complessi, come l’abbandono strutturato dei propri morti[30].

Se adottiamo un modello di «pensiero per alberi» (tree thinking), piuttosto che per linee anagenetiche o scale del progresso, siamo indotti a assumere una prospettiva radicalmente nuova, che considera anche la cosiddetta «coscienza umana», così come si è visto per il bipedismo, come il risultato di una sperimentazione a mosaico in cui differenti traiettorie culturali e simboliche declinate in modo diverso sono comparse e subito scomparse, come fiammate improvvise, in differenti specie umane sparse per il globo, ma vissute spesso negli stessi periodi e persino condividendo a volte gli stessi spazi geografici, come nel caso di H. sapiens e i Neanderthal in Medio Oriente.

Come sostengono D’Errico e Stringer, è probabile che i prerequisiti del comportamento umano moderno fossero già ampiamente presenti tra gli antenati dei Neanderthal e degli umani moderni e che fattori demografici e sociali innescati probabilmente da cambiamenti climatici potrebbero spiegare questa comparsa-scomparsa asincrona di tratti culturali moderni in più specie umane. I comportamenti simbolici complessi mostrati da Homo sapiens in modo sistematico e consolidato potrebbero essere dunque stati preceduti da una serie di sperimentazioni a mosaico in cui differenti popolazioni e specie ominine potrebbero aver seguito traiettorie multiple e non lineari di evoluzione culturale e cognitiva lungo differenti rami dell’intricato cespuglio della filogenesi umana.

  1. Il linguaggio umano: un mosaico di tratti?

Connessa a questa idea dell’evoluzione dell’intelligenza simbolica è anche l’ipotesi recentemente proposta secondo cui la facoltà del linguaggio, così tipica del comportamento umano moderno, non sarebbe affatto un unico monolitico tratto evolutosi o lentamente in modo continuo e graduale[31] o più recentemente secondo un ritmo più discontinuo e punteggiato[32].

Di fronte a questa interminabile disputa tra una visione continuista e una discontinuista che ancora oggi caratterizza molti dibattiti sull’evoluzione del linguaggio, si profila invece l’idea alternativa che il linguaggio umano sia piuttosto il risultato evolutivo di una convergenza di un mosaico di tratti differenti, che potrebbero essersi evoluti in linee filogenetiche diverse, attraverso adattamenti graduali o meccanismi exattativi, innovazioni e riconfigurazioni, confluiti infine a comporre la facoltà del linguaggio espresso da Homo sapiens[33]. In questa concezione, l’evoluzione del linguaggio e della coscienza simbolica si configurano come il risultato di una pluralità di processi biologici e culturali, evolutisi come una sperimentazione di differenti traiettorie simboliche e culturali nel cespuglio dell’evoluzione umana[34].

  1. Riflessioni conclusive

Secondo l’approccio «tree thinking» e «a mosaico» descritto sopra, l’essere umano non evolve attraverso un processo teleologico e lineare di progresso e avvicinamento all’anatomia e al comportamento degli umani moderni, ma attraverso una pluralità di processi biologici e culturali contingenti, che rendono l’evoluzione della nostra specie più simile a una sorta di grande sperimentazione evolutiva di differenti traiettorie anatomiche e comportamentali attraverso una pluralità di specie ominine.

Questa nuova visione sostituisce dunque a una concezione gradualista e mono-lineare dell’evoluzione umana un approccio pluralista e multilivello che tiene in conto ciò che si osserva durante le grandi transizioni evolutive, in cui sembrano verificarsi una serie di sperimentazioni in parallelo e a «mosaico», innescate da perturbazioni climatiche ed ecologiche che propagano i loro effetti per tutta la gerarchica biologica. Un tale approccio integrato e aggiornato, che sappia calare l’evoluzione dei tratti più tipicamente umani all’interno dell’intricato cespuglio evolutivo, costituisce un eccellente strumento per evitare qualsiasi concezione dell’evoluzione umana concepita a-priori e di tipo lineare, scalare o progressionista, e incarna un efficace antidoto per pensare l’unicità umana senza pregiudizi o ideologie.

 

 


[1] J. Dewey, The influence of Darwin on philosophy (1910), Indiana University Press, Bloomington 1965.

[2] C. Wright, Philosophical Discussions (1877), in F.X. Ryan (ed.), The evolutionary philosophy of Chauncey Wright, 3 vols., Thoemmes Press, Bristol-Sterling 2000, vol. 1, p. 70. Su Wright mi permetto di rimandare a A. Parravicini, Il pensiero in evoluzione. Chauncey Wright tra darwinismo e pragmatismo, ETS, Pisa 2012.

[3] C. Lyell, The geological evidences of the antiquity of man with remarks on theories of the origin of species by variation, Murray, London 1863, p. 469.

[4] A. R. Wallace, Sir Charles Lyell on geological climates and the origin of species, in «Quarterly Review», 126, 252, 1869, pp. 359-394; Id., The limits of natural selection as applied to man, in Id. (ed.), Contributions to the theory of natural selection, Macmillan, London 1870, pp. 332-371.

[5] J. Dewey, op. cit.

[6] Ch. Darwin, Taccuino B, 36, in Taccuini, ed. it. a cura di T. Pievani, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 137.

[7] Cfr. E. Haeckel, Evolution of man: A popular exposition of the principal points of human ontogeny and phylogeny (1866), 2 vols., Appleton and Co., New York 1897, vol. II, pp. 188-189, tav. XV.

[8] S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia (1989), tr. it. Feltrinelli, Milano, 20072.

[9] T. Dobzhansky, Mankind evolving: the evolu­tion of the human species, Yale University Press, New Haven 1962.

[10] E. Mayr, Animal Species and Evolution, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1963.

[11] T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi editore, Roma 2002 (nuova edizione 2006).

[12] Un esempio tra tanti è il ritrovamento di Ida (Darwinius masillae) celebrato dal quotidiano «The Guardian», il 19 maggio 2009, con il titolo Fossil Ida: Extraordinary find is «missing link» in human evolution.

[13] Su questi temi si veda H. Gee, La specie imprevista. Fraintendimenti sull’evoluzione umana (2013), tr. it. il Mulino, Bologna 2016.

[14] Cfr. a questo proposito il recente articolo di D. Lordkipanidze, M.S. Ponce de León, A. Margvelashvili et al., A complete skull from Dmanisi, Georgia, and the evolutionary biology of early Homo, «Science», 342, 2013, pp. 326-331, che teorizza la presenza di un’unica grande specie polimorfica nella prima fase del genere Homo, facendo pensare a un possibile ritorno del modello lineare, seppur limitato a un periodo circoscritto dell’evoluzione umana.

[15] La dicitura, utilizzata nel testo, di «mya» sta a significare «milioni di anni fa» mentre «kya» indica «migliaia di anni fa».

[16] T.E. Cerling, J.G. Wynn, S.A. Andanje et al., Woody cover and hominin environments in the past 6 million years, in «Nature», 476, 2011, pp. 51-56.

[17] F.T. Masao, E.B. Ichumbaki, M. Cherin et al., New footprints from Laetoli (Tanzania) provide evidence for marked body size variation in early hominins, in «eLife», 2016, 5: e19568.

[18] B. Villmoare, W.H. Kimbel, C. Seyoum et al., Early Homo at 2.8 Ma from Ledi-Geraru, Afar, Ethiopia, in «Science», 347, 2015, pp. 1352-1355.

[19] N. Eldredge, T. Pievani, E. Serrelli, I. Tëmkin, Evolutionary Theory: A Hierarchical Perspective, The University of Chicago Press, Chicago and London 2016.

[20] Cfr. A. Parravicini, La prospettiva gerarchica dell’evoluzione. The Hierarchy Group e la storia di un dibattito internazionale, in «Nóema. Rivista online di filosofia», Ricerche, 7, 2, 2016, pp. 1-15

[http://riviste.unimi.it/index.php/noema/article/view/7873].

[21] Cfr. A. Parravicini, T. Pievani, Multi-level human evolution: ecological patterns in hominin phylogeny, in «Journal of Anthropological Sciences», 94, 2016, pp. 1-16.

[22] Cfr. per es. E.S. Vrba, Role of environmental stimuli in hominid origins, in W. Henke, I. Tattersall (eds), Handbook of paleoanthropology, Springer, Verlag-Berlin-Heidelberg 20152, pp. 1837-1886.

[23] M.A. Maslin, C.M. Brierley, A. M. Milner, S. Shultz et al., East African climate pulses and early human evolution, in «Quaternary Science Reviews», 101, 2014, pp. 1-17.

[24] M. Aubert, A. Brumm, M. Ramli et al., Pleistocene cave art from Sulawesi, Indonesia, in «Nature», 2014, 514, pp. 223-227.

[25] Cfr. T. Pievani, The final wave. Homo sapiens biogeography and the evolution of language, in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2012, pp. 203-216; e A. Parravicini, T. Pievani, Multi-level human evolution, cit.

[26] S. Harmand, J.E. Lewis, C.S. Feibel et al., 3.3-millionyear-old stone tools from Lomekwi 3, West Turkana, Kenya, in «Nature», 521, 2015, pp. 310-315.

[27] S.P. Mc Pherron, Z. Alemseged, C.W. Marean et al., Evidence for stone-tool-assisted consumption of animal tissues before 3.39 million years ago at Dikika, Ethiopia, in «Nature», 466, 2010, pp. 857-860.

[28] F. D’Errico, C.B. Stringer, Evolution, revolution or saltation scenario for the emergence of modern cultures?, in «Philosophical Transactions of the Royal Society B», 366, 2011, pp. 1060-1069; F. D’Errico, W.E. Banks, Identifying mechanisms behind Middle Paleolithic and Middle Stone Age cultural trajectories, in «Current Anthropology», 54, 2013, S371-S387.

[29] J.C.A. Joordens, F. d’Errico, F.P. Wesselingh et al., Homo erectus at Trinil in Java used shells for tool production and engraving, in «Nature», 518, 2015, pp. 228-231.

[30] D. Marchi, Il mistero di Homo naledi, Mondadori, Milano 2016.

[31] Cfr. M.C. Corballis, From hand to mouth: The gestural origins of language, in M. Christiansen, S. Kirby (eds), Language evolution, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 201-218; R.I.M. Dunbar, The origin and subsequent evolution of language, in ibid., pp. 219-234.

[32] Cfr. J.J. Bolhuis, I. Tattersall, N. Chomsky, R.C. Berwick, How could language have evolved?, in «Plos Biology», 12, 2014, pp. 1-6; I. Tattersall, An evolutionary context for the emergence of language, in «Language Sciences», 46, 2014, pp. 199-206.

[33] T. Fitch T, Evolutionary developmental biology and human language evolution: Constraints on adaptation, in «Evolutionary Biology», 39, 2012, pp. 613-637; F. Suman, T. Pievani, The evolution of human language: An alternative scenario, in «Paradigmi» 2, 2015, pp. 173–196.

[34] A. Parravicini, T. Pievani, Continuity and Discontinuity in Human Language Evolution: Putting an Old-fashioned Debate in its Historical Perspective, in «Topoi: An International Review of Philosophy», published online Oct. 2016. Doi: 10.1007/s11245-016-9431-y

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