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Transformations of the concept of Humanity

Autore


Rosanna Cuomo

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



International Conference of Philosophy

Università Statale degli Studi di Milano

23-24 Giugno 2018

  1. Ridisegnare il perimetro antropico?
  2. Uomini, animali e androidi
  3. Identità e comunità: questione di confini

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S&F_n. 19_2018

Abstract


Transformations of the concept of Humanity


This report aims to analyze how the development of technological artifacts – ICTs – and generally of new media can lead to a real transformation of the concept of Humanity, or even to the “end of man”. The first part of these contributions is about a possible redefinition of the concept of human. The second part considers the relationship between human/animals/android, fundamental to understand the specificity of man, and the third part is a reflection about man and community.


  1. Ridisegnare il perimetro antropico?

Ancora una volta l’umano, questo sconosciuto.

Nell’epoca della tecnica ultra dispiegata, delle bio e nanotecnologie, di post, trans e neo umanesimi di ogni sorta, pare essere sempre più valida l’affermazione che Scheler fece agli esordi del secolo scorso, quella secondo cui l’umano sembra non essere mai stato più estraneo a se stesso.

Nell’aula Crociera Alta dell’Università Statale di Milano, gremita di studenti, in un luogo antico e illustre si è nuovamente provato a dare risposta a un’altrettanto antica domanda che è ontologica e etica al contempo: chi è l’uomo, cosa resta di una certa visione dell’umano e verso dove procede un’umanità sempre più invischiata in processi di globalizzazione economica, ibridazione tecnologica, auto-selezione e autoproduzione di sé? Un’intensa due giorni, dove si sono alternati studiosi da tutta Europa, di variegati indirizzi e interessi, che hanno a loro volta dato vita ad appassionati dibattiti anche con i numerosi studenti presenti.

Già nel saluto di introduzione al Convegno da parte di Luca Bianchi, Direttore del Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti”, va profilandosi quello che sarà il filo rosso delle due giornate di lavoro: le scienze contemporanee vanno dicendoci tanto sull’uomo, spesso incrinando la tradizionale dialettica che vede in esso l’opposizione natura/cultura. Se Aristotele aveva assegnato all’uomo il posto di animale più nobile tra gli altri, tale concezione è sempre stata accompagnata da una sorta di retro pensiero: data un’unica “natura umana” degli esseri umani, ci sarebbe poi da chiedersi se essi siano davvero tutti uguali, siano cioè tutti dotati dello stesso grado di umanità. Un retro pensiero insomma che pare delinearsi in origine come antropocentrismo e meglio ancora come androcentrismo, che individua dunque un primato nel genere maschile.

Il De dignitate hominis costituisce una svolta e soprattutto quasi il manifesto della visione umanistica entro le cui lenti, possiamo dire, ancora si interpreti l’umano, sebbene con molte incrinature e alcune perplessità. In quelle pagine belle e dense Pico demolisce la monolitica struttura di “natura dell’uomo”, poiché esso al contrario è definito, a differenza degli altri viventi, come l’unico ente privo di natura, sempre in via di costruzione, ontologicamente precario e capace di elevarsi ad altezze divine o di cadere nella ferinità più cupa. La mutevolezza di forme che solo l’umano può vestire ha nel camaleonte il suo massimo esemplare: egli può diventare ciò che vuole.

Una prima breccia apportata a questa visione che ha accompagnato l’Occidente per secoli, è determinata dallo sviluppo dell’antropologia filosofica del Novecento. Agostino Cera, dell’Università della Basilicata, introduce il concetto di perimetro antropico, inteso come orizzonte oikologico in cui soltanto l’uomo è capace di intendersi come tale. Ci racconta della svolta del 1928, annus mirabilis in cui vedono la luce due opere che possono essere considerate i capisaldi della svolta antropologica: La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler e I gradi dell’organico e l’uomo di Helmuth Plessner. I due autori hanno provato a ripensare l’umano confrontandosi coi risultati delle scienze, e tentando di descriverlo come fenomeno unitario, al di là del dualismo di memoria cartesiana, spostando l’attenzione dalla sostanzialità alla relazione e collocando dunque l’uomo in una posizione nuova. La questione antropologica diviene così questione antropotopologica: il posto dell’uomo nel mondo è un suo posizionarsi in una dimensione non data, ma sempre “da darsi”. Così il concetto di mondo non è meramente un correlato psico-biologico ma si compone anche di momenti culturali, di accadimenti storici, ragione per cui la mondanità rappresenta il baricentro del perimetro antropico. Seguendo le suggestioni di Heidegger e di Viktor von Weizsäcker a proposito della differenza tra animale e uomo, il concetto di pathos sembra marcare la condizione ontologica sia dell’animale che dell’uomo, tuttavia con una differenza sostanziale: mentre il primo, come sostenuto da Heidegger nelle lezioni del ’29, è stordito e vive fondendosi e con-fondendosi col suo spazio vitale, l’uomo è consapevole dell’ambiente che lo circonda. L’animale e il suo spazio formano un’unità poiché l’animale è adatto in quanto è adattato, l’uomo è adatto in quanto adattabile, adatto in potenza capace di un pathos originario che gli consente di sentire la differenza tra il proprio oikos che è mondo e l’indistinto Umgebung.

Tuttavia, oggi la tecnica conferisce all’uomo la possibilità di modificare il suo perimetro antropico, che per Cera, significherebbe modificare l’originario elemento patico trasformando l’umano in prodotto, artefatto e causandone uno stordimento che lo renderebbe sempre più simile a quell’animale da cui è ontologicamente separato. Tale trasformazione ha la portata di un fenomeno epocale che risulta da due movimenti complementari: l’ambientalizzazione del mondo e la ferinizzazione dell’uomo.

Ma se l’uomo fosse da sempre, dall’origine un prodotto, un artefatto, che nel lungo processo antropogenetico va costituendosi a partire dall’accoppiamento strutturale con altro da sé? È la domanda posta da Fabiana Gambardella dell’Università di Napoli, che, a partire dallo spartiacque darwiniano e in seguito dalle biologie epistemologiche della complessità, prova a mettere in questione alcuni tratti della descrizione umanistica, tradizionalmente impegnata ad allontanare l’umano dalla natura, intesa come peccato da redimere, come “cattivo passato che ritorna sotto forma di sintomo”. Se l’umano come descritto da Humberto Maturana e Francisco Varela, è ente biologico che si sviluppa entro il dominio del linguaggio, il nostro tempo pare portare a esplicitazione il problema della fine delle grandi narrazioni: la parola sembra aver perso la sua funzione esorcizzante, che consente l’appaesemento. Le scienze ma anche le tecnologie informatiche e le nuove forme di comunicazione cui esse danno vita favoriscono l’introduzione di nuovi comportamenti e di nuove modalità di stare presso il mondo, una rivoluzione antropologica che necessita di nuove categorie attraverso le quali ripensare l’umano. I nuovi media determinano la nascita di nuovi spazi di relazione, nei quali vanno costruendosi identità. Se il concetto di cyborg rimanda ancora a una visione dicotomica, per la quale esiste una natura su cui si può innestare l’artefatto, al contrario il concetto di inforg introdotto da Floridi, sembra superare questo dualismo; il concetto di informazione è interessante dal punto di vista ontologico perché è già ibrido di per sé, rinvia ai geni, al codice, dunque è natura, ma anche simbolo, mondo culturale, supera insomma la logica eminentemente duale dell’Umanesimo. Il mondo dell’informazione pare modificare inoltre la dialettica memoria-oblio: siamo immersi nell’eterno presente di un’informazione che costantemente fagocita se stessa determinando quasi una sorta di coazione all’oblio. D’altro canto siamo tutti dotati di una serie di artefatti che ci consentono di riprodurre e conservare assolutamente tutto delle nostre vite. Anche la gaffe, l’errore e l’inessenziale vengono immortalate da queste memorie esterne. Se il ricordo, proustianamente parlando, è attività poietica e poetica, attraverso cui andiamo anche costruendo le nostre identità, in questa nuova dimensione dell’informazione in cui da un lato siamo immersi in un eterno presente senza memoria, e dall’altro tutto possiamo preservare, come va forgiandosi l’identità e il suo rapporto con la memoria? Il soggetto cartesiano, granitico e inamovibile cede il passo a nuovi modelli identitari mutevoli e particolarmente plastici; la capacità di cambiare forma, all’interno di contesti altamente mutevoli, rappresenta un valore rispetto al rimanere testardamente circoscritti all’interno di una forma precisa. E in una dimensione entro la quale siamo tutti connessi, l’Io pare essere sostituito dal Noi, in un orizzonte polifonico di comunicazione, decentralizzazione e collaborazione all’interno del quale, come sostenuto da Lyotard, anche coloro che si trovano ai margini, possono dire la loro, elaborare la propria mossa nell’ambito dei molteplici giochi linguistici entro i quali siamo immersi.

In questi contesti di senso mutati e altamente mutevoli il rischio è quello di un novello analfabetismo, determinato dall’incapacità ermeneutica di comprendere i nuovi contesti. La nostra capacità tecnica di controllo e previsione, sembra infatti non aver stabilizzato il nostro dimorare, anzi pare che l’abbia reso più instabile, più precario. Se l’assunto di fondo è che siamo un prodotto, e che la tecnica consente sempre più di autoprodurci, oggi più che allora tutto responsabilità dell’uomo.

In completo e appassionato disaccordo l’intervento di Marco Russo dell’Università di Salerno, il cui titolo è già di per sé paradigmatico: Humanism reloaded: è proprio da qui che bisogna ripartire, poiché la ricca e secolare tradizione di pensiero che va sotto il nome di Umanesimo, in tutte le sue molteplici sfaccettature, ha ancora molto da dire e da dare. Umanesimo e umanità restano dunque ancora le parole chiave del nuovo millennio. Tuttavia tali concetti e definizioni devono essere ripensati a partire da uno stile comportamentale e comunicativo diverso: la nostra medesima condizione umana pare messa in crisi oggi da alcune derive del mondo globalizzato. La “conoscenza” sembra non corrispondere più con la saggezza, con nessun tipo di Bildung. Russo si mostra estremamente critico e scettico nei confronti di quelle che definisce come mode del pensiero: post e trans umanesimi, che a suo avviso, non fanno altro che determinare confusione, attraverso asserzioni approssimative. I problemi, al contrario estremamente gravi, cui le nostre società e dunque l’umanità contemporanea ha da affrontare, devono essere esaminati con rigore e a partire da una visione di humanitas, che lungi dall’equiparare l’umano agli altri viventi, ne rivaluti nuovamente la capacità di trascendimento, il dover essere che gli è intrinsecamente proprio. Sembra così trovare posto il monito dello scrittore e docente americano di origini palestinesi, Edward W. Said, il quale affermava che “l’umanesimo è un’inquietante avventura nelle differenze”.

Con Roberto Redaelli dell’Università di Milano, si è focalizzata l’attenzione su Heinrich Rickert che già a partire dagli anni ’30 a Heidelberg presenta il proprio sistema filosofico in maniera del tutto nuova, intendendo ontologia e antropologia filosofica (“la scienza del senso della vita”) come un unicum. Soprattutto l’antropologia deve trattare della posizione dell’uomo nel mondo, posizione, naturalmente, che non può prescindere dalla sfera valoriale.

L’uomo sorge in quanto essere culturale, in quanto produttore di valori propri. Solo scoprendo un corpo stabile di valori le scienze umane saranno in grado di afferrare ciò che è rilevante per la storia senza cadere in giudizi di valore personali, legati al desiderio o all’utilità. I valori presentano infatti una natura trascendente. In accordo con Lotze i valori hanno un profilo universale, non riducibile alla sfera del sensibile.

È a partire dal 1932 che Rickert parla esplicitamente, durante il suo corso di Antropologia filosofica, che secondo Rickert pone la domanda sul senso della vita umana, nella sua interezza dunque non è scienza che interroga aspetti specifici come quello fisico e psichico dell’umano. Se è scienza dell’intero non può che elaborare una dottrina sui valori.

L’essere umano incarna un paradosso: è allo stesso tempo parte del mondo e va situandosi di fronte a esso. Allo stesso tempo dentro e fuori, l’umano prende posizione rispetto al mondo, afferma o nega.

Molti degli spunti rickertiani restano profondamente attuali: in particolare la visione dell’umano come animale ultra-sociale e il ruolo attribuito al corpo. L’uomo naturale infatti è la condizione dell’uomo culturale: in accordo con Plessner, il corpo è ciò che ci consente di avere una vita dotata di senso. La condizione dell’uomo culturale è il gruppo, la posizione dell’uomo nel mondo può essere compresa solo all’interno della comunità, nella coabitazione, nell’appartenenza, che è la condizione per la realizzazione dei valori.

La dimensione corporea si lega così alla dimensione comunitaria, intesa come condizione di realizzazione dei valori. La visione di Rickert presenta degli aspetti molto attuali che paiono collimare con la psicologia di Tomasello, col suo concetto di intenzionalità collettiva e di pensiero collaborativo: solo l’uomo che si rivolge ai suoi simili, avendo scopi comuni, sviluppa una cultura umana.

  1. Uomini, animali e androidi

I lavori si aprono la mattina seguente con l’intervento di Guido Cusinato, dell’Università di Verona, che analizza la questione dell’umano a partire dal problema della vita. Già in Schelling si trova esplicitato il problema della libertà nella natura: ogni essere vivente è un processo di formazione e trasformazione: il problema della libertà inizia con l’organismo vivente, con Goethe, la vita è trasformazione, perché la vita in sé è plasticità morfologica.

Nella diatriba vivente-macchina dunque si potrebbe dire che essa somiglierà alla vita quando sarà in grado di acquisire plasticità e dunque l’intrinseca possibilità di trasformazione, quando sarà in grado di auto-posizionarsi nel mondo e di provare emozioni. Quando invece un vivente è in grado di superare la chiusura ambientale e guadagnarsi il mondo allora è persona; tuttavia non per forza persona deve coincidere con essere umano. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di una struttura non biologica ma che presenti un’apertura al mondo. Non si tratta dunque di ragionare in termini di antropocentrismo, bensì dell’intrinseca plasticità della vita.

Tuttavia, per Cusinato, ciò che a livello umano ha consentito il salto verso il pensiero simbolico è l’emotional sharing, e cioè le pratiche di condivisione emotiva. L’enigma umano, il suo salto verso il pensiero simbolico, sarebbe avvenuto attraverso pratiche di condivisione: nel corso di millenni si sono sedimentate pratiche di condivisione emotiva che hanno determinato una crisi o almeno hanno spinto l’uomo a inventarsi una nuova formula comunicativa, il pensiero simbolico: è la condivisione delle emozioni pertanto a dare forma all’umano.

Tre sono le proposte che rimandano a questa visione: anzitutto gli studi di Scheler del 1913 su Essenza e forme della simpatia, dove c’è già una sorta di prima esposizione del concetto di condivisione emotiva; in seconda istanza l’antropologia culturale di Alan Barnard, secondo cui all’origine del “salto” verso il pensiero simbolico ci sarebbero pratiche di condivisione: di cibo, costumi,informazioni; in terzo luogo, la psicologia cognitiva di Tomasello, che pone al centro dei suoi studi il concetto di cooperazione. Pertanto la cura, probabilmente, come sostenuto anche da Sloterdijk, nella forma della primigenia relazione madre/cucciolo, ha determinato una crisi dal profondo valore antropogenetico.

Etienne Bimbenet, dell’università di Bordeaux, parte dallo stimolo offerto da Avatar e dalle riflessioni di A. Clark sul Cyborg: siamo oggi a un punto in cui non è possibile non porsi la domanda sull’umano a partire dalle nuove forme di comunicazione, ibridazione, con cui egli si confronta. Le trasformazioni tecnologiche giocano un duplice ruolo: da un lato infatti esse ci appartengono e ci “strutturano” e dall’altro ci spingono oltre i nostri limiti. In effetti a partire dalla narrazione darwiniana, l’uomo è ricollocato all’interno della natura in una posizione che va ridimensionando le sue prerogative rispetto agli animali non umani, e che impedisce ormai di pensare metafisicamente l’uomo e il suo rapporto con la natura. Di contro la metafisica tradizionale, e grazie al dettato delle scienze, va sviluppandosi una sorta di zoocentrismo: non più Dio va misurando la nostra intrinseca finitudine, bensì l’animale. Sebbene tali prerogative, come emerso anche dal dibattito, vengano spesso guardate con sospetto, per ciò che attiene al rischio di una pericolosa eteronomia o anche di un annichilimento del nostro essere umano, non risulta possibile ignorare che esse si affermano sempre più prepotentemente all’interno del dibattito contemporaneo; tuttavia tali riflessioni non sanciscono la sempre paventata “fine dell’umano”, ma nuove configurazioni o meglio “rappresentazioni” della vita umana, che dovrebbero spingere tutti a porsi la domanda sul senso e spingere verso un engagement politico che diventa sempre più urgente.

Zoocentrismo e tecnocentrismo dunque sembrano essere le narrazioni della contemporaneità: a tal proposito Luca Vanzago dell’Università di Pavia, seguendo le suggestioni di Philip K. Dick e dunque di Blade Runner si domanda se in un futuro non molto lontano sarà possibile separare nettamente gli umani dagli androidi. I progressi nelle neuroscienze richiedono una nuova e più accorta consapevolezza circa le implicazioni delle conquiste tecnologiche.

Gli studi sul dolore costituiscono una campo di ricerche privilegiato attraverso cui indagare sull’umano, e attorno ai quali, negli ultimi quarant’anni, si è sviluppato un fortissimo interesse. Ci sono modalità differenti di approccio alla questione: bisogna in prima istanza accordarsi su cosa si intenda per dolore. Per un verso, l’esperienza del dolore è esperienza soggettiva per eccellenza, probabilmente la più soggettiva, perciò ci chiediamo, è possibile oggettivarla? In effetti ciò viene sempre fatto dal paziente che comunica il proprio dolore affinché vi si trovi rimedio. Se comunicazione è per certi versi quantificazione il pericolo è la perdita degli aspetti qualitativi dell’esperienza. Ma come è possibile questa operazione e quando parliamo di dolore a quale concezione di umano e di corpo facciamo riferimento? L’approccio riduzionista, trattando l’organismo come macchina, tende a interpretare il dolore come malfunzionamento che va riparato. L’approccio ermeneutico, che trova in Gadamer il suo più autorevole rappresentante, ha sollevato proprio nei confronti nelle neuroscienze diverse perplessità, nella misura in cui esse partono da una tecnicalizzazione del corpo, che riduce il dolore a sintomo di un malfunzionamento che può essere ristabilito con un trattamento farmacologico. Il dolore invece per Gadamer è inteso in termini di rappresentazione.

Dal canto suo l’approccio fenomenologico pare superare da un lato la visione riduzionistica e dall’altro quella eminentemente soggettivistica. Evitare cesure dualistiche significa considerare la questione dell’embodiment, del Leib, a partire da Husserl procedendo con Heidegger, Merleau-Ponty e Sartre.

Non siamo macchine, perché siamo soggetti incarnati, situati in maniera corporea nel mondo e anche l’esperienza del dolore può essere latrice di senso.

Questioni dunque di identità da rinnovare e in costante metamorfosi. Secondo Luca Guidetti dell’Università di Bologna, il concetto di identità è tradizionalmente legato a quello di essenza e di invariabilità, dunque a un assunzione metafisica, tuttavia tale concetto di aristotelica memoria va sostituito secondo G. Günther da una nozione funzionale: nella classica relazione soggetto-oggetto, non si dà soltanto un “soggetto soggettivo” (l’ego), ma anche, per così dire, un “soggetto oggettivo”, (un tu, degli altri). Tu ed ego allora esprimono posizioni differenti. Nella logica tradizionale non c’è modo per esprimere la differenza tra “me e gli oggetti” e “tu e gli oggetti”. La logica tradizionale prevede soltanto due valori, è logica dicotomica, mentre Günther va introducendo una logica e un’ontologia polivalenti. Collegata alla logica topologica di G. Günther c’è il concetto di Genidentität (identità genetica) di K. Lewin, per il quale l’identità è un concetto costitutivo e non denotativo: essa si dà non stabilendo coordinate assolute del mondo ma seguendo diverse linee esistenziali, stabilendo rapporti di comparazione su linee di analogia. La genidentità riguarda gli esseri viventi che si muovono in serie esistenziali. Lewin sottolinea l’opposizione tra la tradizionale e indifferenziata concezione dell’identità logica e le differenti identità materiali in cui molteplici oggetti si sviluppano gli uni dagli altri in tempi diversi.

Anche per Steffi Hobuss dell’Università di Lüneburg, l’identità va affrancata da ogni forma di essenzialismo ed è necessario ripensare l’umanità e dunque elaborare un nuovo umanesimo relazionale, dacché non si dà essenza dell’uomo e dell’umanità. Come affermato da Jaspers, l’uomo è più di quanto possa conoscere di sé, perché in quanto esistenza e situazionalità è intrinsecamente “possibilità”. Eppure per quanto oggi si tenti da svariati fronti una descrizione esaustiva dell’uomo e degli uomini di oggi, tutto pare restare nell’ambiguità. Anche e soprattutto quando si parla della dimensione assiologia, ci si domanda smarriti quali valori umani valgano ancora oggi? Proprio a partire dal rischio apportato dalle nuove tecnologie occorre ripensare a una nuova ontologia del corpo. Se il concetto di umanità rimanda a quello di responsabilità come non ripensare alle parole di J. Butler che alludendo a Lévinas richiama alla responsabilità cui mi rimanda il Volto dell’Altro?

  1. Identità e comunità: questione di confini

Nell’ambito della seconda sessione di lavori il focus pare spostarsi dall’io al noi, dalla questione dei mutamenti antropologici e dunque identitari che le tecniche vanno determinando, alla spinosa questione del cum-vivere, che il mondo globale, drammaticamente rende urgente.

Caterina Resta dell’Università di Messina, esordisce proprio con l’analizzare gli esiti della globalizzazione, che sta determinando l’insorgenza di nuove barriere e nuove forme di esclusione. Al di là di post e neo umanesimi, il rischio è di considerare alcune categorie come non-uomini, riducendole a nuda vita, che come tale non ha diritto ad avere diritti. Pertanto è necessaria la ricerca di nuove forme di governo ma anche di coesistenza, appartenenza e cittadinanza.

La questione del confine allora diventa fondamentale, dal punto di vista ontologico ed etico. Il confine è infatti spazio identitario, ciò che delimita e dunque sancisce un’appartenenza, stabilisce il limite dell’umano, distingue ciò che è umano da ciò che non lo è. Il confine ha tuttavia anche un carattere performativo e trasformativo. Confine, dunque cum-finis, è lessema denso, cerniera, chiusura che al contempo mette in relazione: è soglia di passaggio e tragitto.

E a proposito di diritti, per Ferdinando Menga, dell’Università della Campania, l’essere umano si caratterizza per la sua capacità di autodeterminazione, che si esplicita come capacità di scegliere e di agire. Dei suoi atti l’uomo è responsabile, oggi più che mai, nell’epoca della “perfetta tempesta morale”, che pare aver raggiunto l’apice del nichilismo. In tale dimensione contemporanea, entro la quale pare impossibile rappresentarsi il futuro, sembra impossibile qualsiasi orizzonte progettuale, non possiamo dimenticare, come sostenuto da Hans Jonas, la responsabilità verso le generazioni future, una responsabilità che, per parafrasare Lévinas, Altri, nella veste anche di quelli che verranno, invoca con forza. La posta in gioco, alla luce degli odierni eventi che paiono evocare quella “politica del necrologio” di cui parla J. Butler, è la ridefinizione della nozione di umano che chiama in campo anche un impegno della comunità sociale e politica.

E tuttavia parlare di diritti risulta sempre più difficile, soprattutto quando si invocano i diritti umani. Antonio Martins, dell’Università di Coimbra, si chiede quanto sia possibile parlare di diritti umani. Se si segue B.A.O. Williams, essi sono legati agli individui che, in virtù della loro stessa esistenza, li posseggono. La Arendt, nei suoi studi sul totalitarismo, segnalava l’impossibilità di avere diritti per chi perde la cittadinanza. Il profugo, il migrante, dunque, diventano nuda vita e perdono ogni diritto, anche quello originario ad avere diritti. I fatti di questi giorni, mostrano quanto la questione sia scottante e attuale.

Anche Giacomo Pezzano, dell’Università di Torino, discute sul rapporto tra nuovi media e trasformazioni antropologiche. Bisogna

parlare di una “morte dell’uomo” come fine definitiva di una certa idea dell’umano? L’assunto di base è che questa concezione deve essere intesa come trasformazione dell’immagine dell’uomo, cioè trasformazione del modo in cui l’uomo concepisce e considera se stesso. Anche in epoche passate gli uomini hanno elaborato delle immagini di loro stessi, facendo tesoro di quelle ferite inferte a un certo narcisismo antropologico dai nuovi e diversi sistemi ermeneutici. Max Scheler a esempio aveva tracciato una sorta di storia delle narrazioni che gli esseri umani hanno prodotto su loro stessi e l’antropologia filosofica in generale, colloquiando con le diverse scienze, ha tentato di definire “un’immagine globale” dell’essere umano. Oggi tuttavia rispetto alle cinque principali rappresentazioni dell’uomo forniteci da Scheler se ne può aggiungere una sesta, quella dell’homo informaticus, per la quale forse occorrerebbe elaborare una filosofia dell’informazione, intesa come nuova filosofia prima. L’informazione, per riprendere G. Gunther, infatti non è oggetto e nemmeno un soggetto, né materia né forma: essa è un dato, non necessariamente linguistico, non necessariamente umano. In questo senso, l’informazione è ciò che determina una nuova immagine dell’uomo e del mondo, una formulazione del tutto nuova del concetto stesso di esistenza della realtà e delle cose. Ciò implica due aspetti: una de-linguisticazione del logos (un software non parla ma ha o è un logos, un linguaggio programmatico) e una de-fisicalizzazione, de-materializzazione, della natura (una pietra – una pianta, un animale, una macchina, un uomo e così via – sono inforg, entità informatiche).

L’intervento finale di Carmine di Martino, docente all’Università di Milano nonché organizzatore del convegno, si pone come giusta sintesi delle due fruttuose giornate di lavoro.

“Come non parlare dell’umano?” è un’interrogazione sul senso dell’umanità dell’uomo perché oggi più che mai esso si trova messo in questione. La meccanizzazione, la globalizzazione, hanno spostato in prima piano tale problematica. Al di là della dicotomia con cui il concetto di umanità è stato affrontato, vale a dire universalismo da un lato e particolarismo dall’altro, si tratta di intendere l’umano come colui che pratica incontri, compie operazioni transculturali, produce trasposizioni, non annullandosi nelle differenze e partendo dal presupposto che non vi può essere vita umana laddove non c’è cura per l’altro uomo: “senza manifestazioni di riconoscimento e di cura non ci può essere cammino nell’umanizzazione dell’uomo”. In tal senso, l’umano, l’umanità, è e resta, a prescindere dalle eventuali modificazioni apportate dalla tecnica, una dimensione aperta, una “potenzialità direzionata ma non determinata”, che comprende in sé il positivo e il negativo poiché la sua attuazione è “impropria” dal momento che può realizzarsi solo grazie all’Altro.

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