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Organismi, evoluzione e conoscenza Università di Modena e Reggio Emilia, Modena 21 e 28 aprile 2023

Autore


Adil Bellafqih

Università di Modena e Reggio Emilia

Dottorando di Ricerca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e culturali di Unimore

Indice


 

 

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S&F_n. 29_2023

Abstract


Organisms, Evolution and Knowledge University of Modena e Reggio Emilia, Modena 21 and 28 aprile 2023

This article presents the conference Organisms, evolution and knowledge that took place on April 21 and 28, 2023 in Modena. The common thread that links the panels is the concept of “evolution”, from its origin to contemporary epigenetic discoveries. The reconstruction of a fragmented debate across different interpretations and misunderstandings of Charles Darwin’s theory is not an easy task but is nonetheless crucial to illuminate the very inner process of science as a whole: on the one hand, the non-linear product of fallible human minds in conflict with each other; on the other, the only reliable method for understanding bits and pieces of the world around us.

 

 

 

Nelle giornate del 21 e del 28 aprile 2023 si è tenuto a Modena il convegno dal titolo Organismi, evoluzione e conoscenza, culmine del progetto dal titolo “La biblioteca della vita” finanziato dall’Università di Modena e Reggio Emilia e dalla Fondazione Modena per il sostegno ai progetti di natura interdisciplinare e interdipartimentale. Il percorso di ricerca, iniziato nel 2021 nel quadro del programma FAR Mission Oriented, sotto la coordinazione della professoressa Vallori Rasini e con la collaborazione di Annalisa Ferretti, Mauro Mandrioli, Milena Bertacchini e Fabio degli Esposti, ha unito in un unico sforzo di ricerca i dipartimenti di Studi linguistici e culturali, Scienze della vita e Scienze chimiche e geologiche di Unimore con l’obiettivo di ricostruire in ottica multidisciplinare il complesso dibattito attorno alle teorie dell’evoluzione tra Ottocento e Novecento, tra fraintendimenti e interpretazioni parziali della teoria darwiniana, sia presso i detrattori che i sostenitori, gettando anche una prospettiva sul contesto scientifico contemporaneo.

Il progetto ha contribuito inoltre alla valorizzazione del patrimonio librario di Unimore e dell’Accademia di lettere, scienze e arti attraverso l’analisi e la selezione di un’ampia collezione di carteggi e materiali sul tema in oggetto, resi ora disponibili gratuitamente in forma digitalizzata sulla piattaforma Lodovico grazie al DHMoRe (il centro interdipartimentale di ricerca sulle Digital Humanities dell’Università di Modena). Contestualmente, il progetto ha prodotto una serie di videoclip (fruibili gratuitamente anche da parte delle scuole) di natura scientifica che legano il dibattito del passato con i problemi affrontati dalla società contemporanea; un numero monografico per la rivista «Scienza&Filosofia» dal titolo La teoria dell’evoluzione tra fraintendimenti ed errori; infine due nuove traduzioni di testi classici edite da Mimesis, I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti di Charles Darwin e la Storia della creazione naturale di Ernst Haeckel.

La professoressa Vallori Rasini, all’apertura dei lavori, ha sottolineato l’importanza dell’impegno congiunto di discipline diverse nel convergere attorno all’intricato tema dell’evoluzionismo, ricostruendo un dibattito che, nella sua passata complessità, permette di cogliere aspetti ricorrenti anche nella disputa scientifica contemporanea, come il caso del Covid-19 ha tristemente ricordato. Se è vero che viviamo in un universo darwiniano, sbrogliare la matassa di opinioni, distorsioni, travisamenti, rifiuti, esaltazioni, contaminazioni con teorie rivali, può gettare una luce non solo sul ruolo della scienza nell’economia della vita, ma soprattutto sull’essere umano che fa la scienza e con essa muta se stesso, il mondo e la visione che egli ha di quest’ultimo.

La prima sessione, presieduta dalla professoressa Annalisa Ferretti, ha ripercorso la nascita, lo sviluppo e la diffusione del pensiero di Charles Darwin secondo diverse direttrici. Il primo intervento del professor Stefano Dominici (curatore del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze) dal titolo Geologia dell’Origine ha trattato della centralità della geologia nella formazione del pensiero di Darwin. La parola “origine” inserita nel titolo, infatti, si riferisce all’Origine delle Specie, a significare come sia possibile un vero e proprio scavo tra gli strati geologici delle influenze che hanno plasmato Darwin, contribuendo a creare il clima culturale adatto perché le idee del naturalista inglese potessero trovare forma compiuta. Gli approcci alla storia della teoria evolutiva possono essere di due tipi: internalisti, conchiusi cioè nei carteggi e negli appunti di Darwin, o esternalisti, indirizzati alla ricostruzione del contesto intellettuale da cui Darwin mutuava suggestioni e idee. Geologia e zoologia sono, in questo caso, due pietre angolari della teoria darwiniana. Prive della mediazione della biologia, che all’epoca era di là da venire, posizioni geologiche e zoologiche si scontravano su fronti opposti. La concezione catastrofista di Cuvier, per esempio, negava l’evoluzione delle specie, contrapponendosi al trasmutazionismo di Lamarck, secondo cui invece le specie si trasformavano gradualmente in altre. Cuvier era un geologo, pertanto rilevava la presenza di organismi fossili negli strati di roccia e ne concludeva che grandi catastrofi avessero portato all’estinzione repentina di forme viventi: ne conseguiva che le specie erano soggette a brusche scomparse e all’altrettanto brusca comparsa di nuove. Lamarck al contrario, botanico e zoologo di formazione, riteneva che non fossero le catastrofi ad annientare le specie e provocarne l’estinzione, bensì lente trasformazioni originate dall’intenzione inconsapevole dei viventi ad adattarsi ai mutamenti ambientali. Un terzo attore, spesso trascurato dalla critica ed espunto dallo studio sul dibattito evoluzionista, è stato l’italiano Giambattista Brocchi. Autore di una Conchiologia fossile, Brocchi intratteneva un denso scambio epistolare con i colleghi francesi poiché aveva osservato, studiando i molluschi, come certi organismi fossili vivessero ancora negli strati geologici antichi: Brocchi ne concludeva che le specie esistono e si comportano come gli individui, secondo un movimento di nascita e morte dettato da “fattori naturali interni” – sia Cuvier che Lamarck, invece, avevano finora insistito sulle cause esterne. Il dibattito sull’evoluzione tarda ad attecchire nel contesto britannico e solo nel 1807 viene fondata a Londra la Geological Society. L’approccio inglese sovvertirà la consuetudine, sostituendo la libera teorizzazione con la raccolta di prove concrete e dati fossili attraverso cui sviluppare linee di ragionamento induttive. In questo solco si muoveranno Charles Lyell, con i Principi di geologia, John Herschel, Robert Grant, Adam Sedgwick e tutti giocheranno un ruolo chiave (soprattutto Lyell) nel plasmare quelli che Darwin rielaborerà nei tre capisaldi della teoria evolutiva: ereditarietà, variabilità e selezione. Inoltre, sempre attraverso Lyell, Darwin recupererà anche l’idea di un “perdimento delle specie” di Brocchi.

La teoria di Darwin però non si diffuse in maniera omogenea e spesso si tentò di adattarla ad altre teorie già consolidate. Un esempio lo offre il secondo intervento di Valeria Maggiore (Università degli studi di Palermo) intitolato L’estetica biologica di Ernst Haeckel tra evoluzionismo darwiniano e morfologia goethiana. A differenza di Darwin, il quale si sarebbe rammaricato in tarda età di non aver dedicato maggior tempo alle arti, Haeckel crebbe in un contesto favorevole alla sintesi tra arte, pittura, poesia e scienze, e fin da bambino dipingeva la fauna naturale con straordinaria precisione. In un certo senso, il “darwinismo” si diffuse in Germania proprio grazie a Haeckel il quale, col suo bestseller I problemi dell’universo, ne preparò il terreno. Haeckel però non era un darwiniano puro: il suo obiettivo era armonizzare quel che aveva letto di Darwin con le teorie di Lamarck e la morfologia di Goethe: proprio sulla scia di quest’ultimo, Haeckel si pose il problema dell’ordine delle forme viventi e le leggi della loro metamorfosi. Haeckel approdò alla zoologia marina per vie traverse, accantonando l’inclinazione artistica prima e lo studio della medicina dopo, influenzato da Johannes Müller. Nel 1859 prese parte a una spedizione per raccogliere fauna marina nel Mediterraneo. A Ischia riscoprì l’amore per la pittura, tentando di fonderla con la ricerca naturalistica in elaborate illustrazioni dei campioni collezionati. Haeckel lesse in seguito l’Origine delle specie nella traduzione tedesca del geologo e paleontologo Heinrich Bronn. La traduzione, però, era tutt’altro che fedele. Bronn non si limitò a integrare considerazioni personali all’opera di Darwin, ma aggiunse addirittura un intero nuovo capitolo a commento critico in coda. Haeckel di conseguenza interpretò impropriamente il pensiero di Darwin, sovrapponendolo a quello di Goethe nell’idea della variazione morfologica di una comune forma-base organica attraverso metamorfosi progressive. Questa sovrapposizione si espresse non solo scientificamente ma anche artisticamente, sintetizzando così le sue diverse inclinazioni spirituali in numerose tavole illustrate.

Haeckel fu solo un esempio di filtrazione della teoria di Darwin. Il terzo contributo, di Leonardo Anatrini (Università di Modena e Reggio Emilia), dal titolo Tra divulgazione e speculazione: sulla sintesi evolutiva di Federico Sacco (1864-1948) offre un caso di studio ancor più eclatante e inedito. Federico Sacco fu geologo e scienziato affermato. Nel 1910 pubblica in francese un curioso volume, Evolutionbiologique et humaine, tentando una sintesi non solo tra darwinismo, lamarckismo e teologia naturale, sulla scorta di Haeckel, ma di incorporare nel già imbrogliato quadro dell’evoluzione la tradizione esoterica. L’interpretazione del testo di Sacco non è facile, anche per l’assenza di note bibliografiche. Certo è che Sacco riceve il portato dell’esoterismo europeo dell’epoca così come professato nella Società Teosofica fondata da Madame Blavatsky. I primi teosofi, troppo legati alla loro radice “occultistica”, avevano letto con sospetto il darwinismo, Sacco, invece, vede nell’evoluzione una nuova chiave alchemica per interpretare non solo il passato ma prefigurare il futuro. La storia naturale si dividerebbe in “periodi” e il presente, Antropozoico, sarebbe stato sostituito da un futuro “Psicozoico” in cui gli esseri umani si sarebbero dovuti spogliare della propria prigione organica per evolversi in “angeloidi”, creature di pura essenza psichica. Il progresso tecnologico avrebbe affrancato l’essere umano dalle afflizioni e dalle fatiche della vita mondana, permettendogli di accrescere la propria vita mentale grazie al libero pensiero spiritualista, trascendendo cioè in una forma super-organica di pura psiche. Nel 1937 Sacco pubblicherà una sintesi dell’opera precedente (in italiano, questa volta) Origine ed evoluzione della vita, rinnovando in chiusura l’auspicio di un’evoluzione angeloide dell’uomo in vista di una imminente catastrofe globale sul modello di quelle descritte da Cuvier.

Sacco non fu il solo a introdurre il darwinismo in Italia. L’intervento di Francesco Brancato (Studio Teologico S. Paolo di Catania) intitolato Creazione vs. Evoluzione? Le reazioni della pubblicistica cattolica alla teoria di Darwin offre un pregnante spaccato sulla storia del dibattito italiano riguardo l’interpretazione del pensiero di Darwin da parte della stampa cattolica. Partendo da un testo di Carlo Molari, Darwinismo e teologia cattolica, è possibile individuare quattro fasi dello scontro tra cattolicesimo e darwinismo: guerra aperta; guerra in armi; armistizio e ultime difficoltà; pace. La pubblicazione dell’Origine delle specie passa perlopiù inosservata in Italia, ma la situazione cambia con L’origine dell’uomo. La rivista gesuitica «Civiltà cattolica», fondata nel 1850, avvia un dibattito con l’evoluzionismo, ma il nome di Darwin compare una solva volta. La rivista tenterà di dimostrare come il macrocosmo proteiforme delle teorie dell’evoluzione altro non sia che una congerie di ipotesi non suffragate da dati scientifici inoppugnabili, in un bizzarro cortocircuito; la rivista chiamerà in causa addirittura lo stesso Galileo, costretto all’abiura solo qualche secolo prima, appellandosi al suo magistero per quanto concerne la metodologia delle dimostrazioni scientifiche. Secondo commentatori cattolici come Palomba, la scienza naturale sarebbe stata solo una nuova religione positivista e materialista, la quale per affermare i suoi dogmi avrebbe rinnegato perfino i capisaldi del suo metodo, offrendo congetture e ipotesi non verificabili sperimentalmente. La teoria di Darwin, in altre parole, sarebbe stata più filosofica che scientifica, una teoria del progresso di matrice ideologica mascherata da scienza. Curioso osservare come il cattolicesimo, invece di evocare la fede, rimproverasse a Darwin di non essere abbastanza scientifico.

Darwin, dal canto suo, non smise mai di cercare conferme e complementi della sua teoria, muovendosi con spiccata creatività anche in campi in genere ignorati quando si pensa al grande naturalista inglese. Uno di questi è stato affrontato nell’intervento del professor Giacomo Scarpelli (Università di Modena e Reggio Emilia) dal titolo Fitosofia. Darwin botanico. Nel 1862 Darwin pubblica I vari espedienti mediante i quali le orchidee vengono fecondate dagli insetti, primo di una serie di volumi dedicati alle piante. L’obiettivo di Darwin è scoprire se i meccanismi evolutivi del regno animale già sviscerati in passato siano gli stessi di quello vegetale. Un aspetto apparentemente banale come il colore dei fiori, per esempio, si rivela uno stratagemma di sopravvivenza: attrarre gli insetti in modo da farsi impollinare. La varietà delle forme vegetali porta Darwin a esperimenti insospettabili, come nel caso delle piante insettivore. Per stabilire se queste abbiano o meno un apparato digerente, Darwin somministra tanto (e vario) cibo quanto veleni. La drosera carnivora usata come cavia sopravvive anche all’arsenico e Darwin ne conclude che sia dotata di un sistema digestivo ma non di uno nervoso. Le piante rientrerebbero a pieno titolo tra gli organismi in lotta per la vita e appronterebbero strategie di sopravvivenza come la fecondazione incrociata per rafforzare la discendenza. Non solo, tutte le piante avrebbero una tendenza al movimento (per verificarlo, Darwin lasciò che la casa fosse invasa dai rampicanti). Tali movimenti, però, a differenza di quelli animali, sono determinati dalla luce e avvengono solo se vantaggiosi: le piante non solo si muovono, ma “giudicano” in base alle chance di sopravvivenza. Lo stesso dicasi per le radici, che si muoverebbero simili alle talpe, orientandosi per evitare gli ostacoli nel terreno. In conclusione, mentre il mondo discuteva dei presupposti e delle conseguenze della sua teoria, Darwin ricercava un’immagine universale della natura in cui tutti gli organismi viventi fossero figli dello stesso processo.

A seguito del momento di dibattito e la pausa pranzo, i lavori sono ripresi con l’intervento della dottoressa Milena Bertacchini e della dottoressa Laura Montinaro (Università di Modena e Reggio Emilia) dal titolo Presentazione della ricchezza dei fondi librari Unimore. Le relatrici hanno illustrato l’ampio lavoro di catalogazione dei fondi della Biblioteca giuridica, della Biblioteca dell’orto botanico e della Biblioteca medica, consistenti in manoscritti di storia naturale i cui estremi di datazione sono compresi tra il 1501 e il 1830. Nel 2023 è iniziata la digitalizzazione dell’ampio materiale a disposizione sulla medialibrary Lodovico. Il fondo Dante Pantanelli, direttore dell’accademia dei fisiocritici, geologo e presidente fondatore società geologica italiana, ha contribuito inoltre all’ampliamento della biblioteca Unimore e alla ricostruzione della storia del museo Gemma.

Il professor Fabio Degli Esposti ha coordinato la sessione pomeridiana, aperta da un intervento del professor Antonello La Vergata (già ordinario dell’Università di Modena e Reggio Emilia) intitolato Considerazioni sparse su darwinismo e darwinismi, scienza e scienziati, storia, natura e… Il quadro emerso dalla prima sessione è quello di una teoria che non si è sviluppata linearmente, ma tra inciampi, errori e interpretazioni sbagliate, sia in buona che in cattiva fede, ma forse è solo un pregiudizio del senso comune che esista davvero una “Scienza” monolitica in cui tutti gli scienziati siano in accordo su un comune paradigma. Il Covid-19 ha mostrato come l’accordo tra scienziati sia spesso difficile, e non solo per il credito variabile da posizione a posizione, finti esperti, opinioni in libertà, eccetera. Luminari di chiara fama hanno professato posizioni avverse a colleghi altrettanto prestigiosi e tutti dichiarandosi armati di fatti e dati sperimentali. Al dibattito sul virus hanno partecipato (solo per nominarne alcuni) virologi, immunologi, microbiologi, infettivologi, epidemiologi, pneumologi, tutti con formazioni e specializzazioni differenti. L’inevitabile frammentarietà del processo scientifico nell’acquisizione di conoscenza è una costante, basti citare, per tornare a Darwin, la disputa su numero e tipo di “selezioni” nella lotta per la vita operanti in natura. Il solo James Baldwin ne aveva individuate un’intera congerie in contrasto con altri teorici, e tutto prima ancora delle scoperte di Mendel. L’interpretazione convenzionale della “scienza assoluta” genererebbe in realtà, secondo La Vergata, due errori fatali: da una parte vedere la scienza come mito; dall’altra alimentare un sentimento contrario di diffidenza nei confronti di qualcosa che, in realtà, è un processo fallibile di uomini fallibili. Se le discipline umanistiche hanno un ruolo, in questo contesto, è documentare dettagliatamente le deviazioni, gli errori, le confusioni e le liti dell’unico metodo che abbiamo per acquisire conoscenza, che al contempo non può, e non deve, per il suo stesso bene, trasformarsi in una nuova narrazione mitologica.

La figura di Baldwin è stata ulteriormente approfondita nel successivo intervento di Chiara Pertile (Università degli studi di Milano) dal titolo A new factor in evolution: dalla crisi del darwinismo alla selezione organica di James Mark Baldwin. La teoria generale di Darwin contiene cinque teorie costitutive più piccole: l’evoluzione, la discendenza comune, il gradualismo, la moltiplicazione delle specie e la selezione naturale. Quest’ultima è anche la più importante, ma altrettanto lacunosa. Mancherebbero infatti spiegazioni non solo sul meccanismo delle variazioni ma anche sulla loro ereditarietà. L’assenza di una descrizione precisa del processo di selezione fa propendere per un neolamarckismo che, al contrario, sembra offrire almeno due risposte: primo, un’evoluzione “verticale” che porta al miglioramento dei caratteri individuali; secondo, il considerare l’ambiente fondamentale nello sviluppo delle caratteristiche ereditarie. Verso la fine dell’Ottocento, Herbert Spencer sposa il neolamarckismo pubblicando The Inadequacy of Natural Selection, cui replicherà il neodarwiniano August Weissman con The All Sufficiency of Natural Selection sostenendo come l’ambiente e le condizioni di esistenza non avessero rilevanza nello sviluppo delle variazioni. È in questo acceso dibattito che si inserisce James Baldwin, con una prospettiva inedita, quella americana. Il rapporto tra organismo e ambiente era centrale nella cultura d’oltreoceano, basti pensare alla corrente trascendentalista e allo stretto rapporto che intercorreva con la natura. Baldwin, da psicologo, voleva analizzare il comportamento e lo sviluppo della coscienza all’interno dell’evoluzione, senza però cedere al lamarckismo: troverà risposta nella cosiddetta selezione organica. La selezione organica vede gli organismi come entità “plastiche”: l’ambiente può causare modificazioni di certi caratteri che, se vantaggiosi, vengono trasmessi alla prole. Questo tipo di variazione con modificazione, però, pur incorporando l’ontogenesi, non sarebbe altro che un intelligente “accomodamento”. Gli accomodamenti, infatti, non sono ereditati a livello biologico, ma sociale: detto altrimenti, non sono innati, ma appresi in un’unità indissolubile tra la sfera biologica e quella culturale in cui gli organismi sono calati. L’unità tra natura e cultura è la chiave di volta che secondo Baldwin permette di correggere il tiro e completare la teoria evolutiva senza tralasciare la centralità del comportamento e degli stili di vita socioculturali.

Tanto il neolamarckismo quanto Baldwin notavano un difetto nella teoria evolutiva che, forse, proprio come rimproverato dalla stampa gesuitica, mancava di rigore scientifico nelle dimostrazioni. A questo proposito l’intervento di Nicola Lovecchio (Università degli studi di Bergamo) dal titolo Dalla variazione darwiniana come differenza pura alla variazione come elemento cinestetico di una struttura ricorsiva riprende il vecchio assunto di Karl Popper secondo cui quella di Darwin non può considerarsi una teoria scientifica, quanto piuttosto una struttura concettuale entro cui sviluppare nuove e diverse teorie scientifiche. Dal punto di vista della logica formale, la teoria di Darwin mancherebbe del prerequisito ontologico che spiegherebbe il meccanismo di selezione, o accumulo delle variazioni. Il riassunto della catena deduttiva dell’Origine delle specie è il seguente: compaiono variazioni; cambiano le condizioni di vita; alcune variazioni sono vantaggiose a condizioni ambientali mutate. Nell’ambivalente contesto distruttivo/creativo del processo evolutivo, la sopravvivenza dell’organismo equivale alla sua persistenza. La chiave logica da cui dedurre la comparsa di variazioni, e il loro successo nella selezione, è l’auto-mantenimento di questa persistenza tra topologie chiuse di organismi. La selezione, in altre parole, non sarebbe l’effetto causante, bensì il risultato dell’auto-mantenimento organico.

La giornata del 21 si è chiusa con l’intervento del professor Mauro Mandrioli (Università di Modena e Reggio Emilia) intitolato L’eredità dei caratteri acquisiti prima e dopo Darwin. Quella dell’eredità dei caratteri acquisiti era un’idea diffusa prima di Darwin. Con l’avvento dell’Origine delle specie e il lento mutamento di paradigma, come abbiamo visto, il lamarckismo si eclissa fino a riproporsi però in una forma inedita (e sorprendente) appena dieci anni fa. Secondo i genetisti sarebbe necessario revisionare il darwinismo alla luce di una rinnovata teoria dei caratteri acquisiti: la modificazione epigenetica. Si sono condotti esperimenti sui topi in cui la cavia è stata sottoposta a una scossa elettrica sulla zampina, in modo da condizionarla ad alzarla ogniqualvolta sentiva odore di mandorla. Questo carattere acquisito è stato ereditato dalla prole del topino, concepita con un’altra cavia non sottoposta al condizionamento. Si potrebbe concludere che le condizioni esterne modifichino il DNA, ma sarebbe improprio. La modifica epigenetica, infatti, non cambia il DNA, ma il modo in cui il gene funziona senza mutare: in altre parole, cambia l’informazione trasmessa dal gene, non la struttura. Esisterebbero infatti tanti eventi che possono “scrivere” sul nostro materiale genetico: possiamo ottenere così cellule identiche di specie identiche che però funzionano in modi diversi (per esempio esemplari dello stesso insetto in cui uno ha le ali e l’altro no: stesso materiale genetico, diverso fenotipo). L’aspetto forse più rivoluzionario della scoperta è che le modificazioni epigenetiche sono ereditarie. Poiché la modifica non è strutturale, però, la durata delle modificazioni intergenerazionali dipende dal mantenimento dello stimolo che ha causato il cambiamento: in questo senso, le modificazioni non sono definitive e possono essere azzerate. L’abbondanza di dati sperimentali a disposizione fa propendere in certo senso verso una riabilitazione di Lamarck, non tanto per dismettere la teoria di Darwin, ma proprio in virtù del fatto che la scienza non è un processo lineare: i corsi e ricorsi della storia delle idee possono sempre riproporsi alla luce delle innovazioni, ciascuno contribuendo a rivelare un poco di più l’inesauribile rapporto tra l’organismo chiamato uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo.

 

Il 28 aprile si è tenuta nel teatro del Collegio San Carlo di Modena la conferenza conclusiva del professor Telmo Pievani (Università degli studi di Padova) dal suggestivo titolo Come siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra. Dopo i saluti istituzionali del professor Giuliano Albarani e la presentazione della professoressa Annalisa Ferretti, Pievani ha affrontato il concetto di “antropocene”, periodo dalla datazione incerta in cui l’attività umana ha iniziato a incidere strutturalmente sulla natura. Un articolo apparso su Nature tre anni fa ha stabilito che nel 2020 la massa antropogenica ha per la prima volta superato quella della biomassa; in altri termini abbiamo riempito il globo di manufatti la cui massa eccede tutta la biomassa degli esseri viventi. Le ipotesi sull’inizio del processo antropocenico sono varie, dalla prima rivoluzione industriale allo scoppio delle bombe atomiche, ma si potrebbe retrodatarlo a migliaia di anni fa, quando la nostra specie ha cominciato a diventare “invadente”: che questa pre-potenza sia coincisa con il momento in cui siamo rimasti l’unica specie umana sulla terra?

In ogni fase storica, da sette milioni di anni fa sino a una certa soglia, è esistita una pluralità di specie umane in compresenza. Basta risalire di centomila anni nella filogenesi per individuare addirittura sei specie umane diverse dalla nostra. L’Homo sapiens è dunque emerso da un contesto primordiale in cui figuravano tanti modi di “essere umani”. Queste specie però non erano divise da barriere biologiche e societarie insormontabili: i dati fossili rilevano non solo la presenza di incroci, ma addirittura l’accettazione di queste “forme ibridate” all’interno dei gruppi preesistenti, permettendo loro forse di perpetuare una discendenza mista.

La classica immagine lineare che ritrae da sinistra a destra il progenitore comune di uomo e scimmia ancora abbarbicato agli alberi, e procede raffigurandolo in cammino, ora barcollante sulle zampe posteriori, ora ancora un po’ curvo che brandisce la fiamma, ora la lancia, e via via raddrizza la schiena fino a trasformarsi nell’ultima figura, un Sapiens con la cravatta annodata al collo e la valigetta stretta nella mano, è sostanzialmente falsa. L’evoluzione dell’uomo è in realtà un mosaico: non c’è stata una direttrice unica, ma tanti e diversi tentativi di adattamento. Il primo intervallo di separazione rilevante tra le specie è stato il bipedismo. Anche il cervello si è sviluppato in maniera disomogenea e fino a tempi recenti alcune specie umane avevano il cervello grande un terzo del nostro. Questa frammentazione è il risultato di un processo tipicamente umano, assente tra le scimmie: la migrazione.

Due milioni di anni fa è iniziata un’espansione territoriale dall’Africa e l’allontanamento progressivo delle popolazioni ha favorito la differenziazione per mancanza di scambio genico tra gruppi lontani. Di nuovo, l’espansione non è stata un movimento unico e tantomeno omogeneo. Ondate successive di migrazioni dall’Africa hanno permesso l’incontro tra nuove generazioni e quelle insediate in precedenza.

La domanda resta: come ha fatto l’Homo sapiens a prevalere su tutte le altre specie umane? Neanderthal, per esempio, non solo manifestava una forma d’intelligenza simbolica (strumenti musicali, ornamenti, eccetera) ma era sopravvissuto a prove durissime, comprese le glaciazioni: com’è possibile che nel volgere di ventimila anni appena, una specie così ben adattata sia scomparsa del tutto insieme alle altre? Le ipotesi sono varie. È improbabile che il Sapiens abbia massacrato tutte le specie diverse, poiché tra i resti fossili non figurano tracce di grandi conflitti (le morti più frequenti erano dovute alla caccia). Altrettanto improbabile è che, uscendo dall’Africa, il Sapiens abbia recato malattie letali per gli altri ominidi: qualcuno si sarebbe adattato o avrebbe sviluppato anticorpi e, in ogni caso, una pandemia non impiega decine di migliaia di anni per sterminare le specie. Un’altra ipotesi è che si sia verificata un’ultima ondata dall’Africa di orde di Sapiens più competitive, dotate di elevata organizzazione, immaginazione, coordinazione, strategia e, soprattutto, un linguaggio più efficace rispetto alle altre specie umane.

I Sapiens dell’ultima ondata, di cui noi saremmo discendenti, manifestavano un comportamento inedito: occupavano nicchie ecologiche. Trasformavano un ambiente nel loro ambiente. Nella loro casa. Un esempio lo offrono i cacciatori di mammut i quali, invece di continuare a migrare verso climi più miti, sopravvivono per generazioni a temperature rigide, in ambienti inospitali, affinando tecniche di caccia la cui precisione e metodicità erano finora impensabili. Poco a poco, le altre specie umane che abitavano le stesse nicchie sono state assorbite dal gruppo meglio organizzato, fino a dissolversi.

Essere rimasto l’unico umano sulla terra può aver generato nell’Homo sapiens l’illusione che questa stessa terra sia sua di diritto. Non solo. La capacità di plasmare la natura può averlo illuso di esserle superiore. Riprendendo una citazione fatta dal professor Pievani all’inizio della conferenza, lasciamo l’ultima considerazione in merito a Mark Twain, un esemplare Sapiens di raro acume: «Man has existed for 32,000 years. The fact that it took hundreds of millions of years to prepare the world for him is proof that it was created for man. I suppose it’s like that, but I don’t know for sure. If the Eiffel Tower represented the current age of the world, the paint layer at the tip of its pinnacle would represent the lifespan of man, and everyone would perceive that that thin layer was what the tower was built for. I believe they would perceive it, but I do not know for sure…».

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