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Immagine e memoria nell’era digitale. Prospettive filosofiche, storiche e antropologiche

Autore


Fiorella Giaculli

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice



Convegno Internazionale

Dipartimento di Studi Umanistici

Università degli Studi di Napoli Federico II

Napoli, 20-22 febbraio 2019

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Image and Memory in the digital Age. Philosophical, historical and anthropological Perspectives


The following report aims to describe the main questions raised at the international conference Immagine e memoria nell’era digitale. Prospettive filosofiche, storiche e antropologiche. The report is made up of a general presentation of the conference and of an articulation of four parts, which follow the four sessions of the conference.

Figlia di Gea e Urano, Mnemosine è presentata da Esiodo come la madre delle Muse. La dea della memoria rappresenta la condizione necessaria affinché possano sorgere forme d’arte e di conoscenza: musica e danza, tragedia e commedia, astronomia e geometria, la storia, l’epica, la lirica amorosa e la poesia sacra sono figlie della memoria. L’invocazione stessa della Musa è chiedere soccorso alla divinità, per poter rendere visibile quanto la potenza divina ha rammemorato.
Nonostante nel tempo la memoria si sia spogliata della sua veste divina, il presente sembra mostrare capacità mnemoniche sovraumane, transumane, legate alle potenzialità delle nuove tecnologie. Si pensi che l’assistente digitale di Amazon, Alexa, non solo riproduce musica, programma sveglie, fornisce informazioni, ma conserva milioni di dati. Il suo nome, del resto, si ispira emblematicamente alla biblioteca d’Alessandria, theke, e dunque scrigno, del sapere del mondo antico.
Il cambiamento della memoria, intesa sia come facoltà soggettiva che come fattore culturale, con l’avvento della «rivoluzione digitale», è una delle questioni da cui ha preso forma il convegno internazionale Immagine e memoria nell’era digitale. Prospettive filosofiche, storiche e antropologiche. Il modo in cui produzione, riproduzione e conservazione dell’immagine sono cambiate con le tecnologie digitali; il mutamento che l’uomo ha introdotto e subito, dal punto di vista fisiologico e comportamentale, con le nuove tecnologie; le problematiche sociologiche, politiche ed epistemologiche, legate alla rivoluzione digitale, sono altri nuclei tematici affrontati durante il convegno, esplicitati fin dalla call for papers per prendervi parte.
Il convegno, che per l’appunto ha visto partecipare studiosi selezionati tramite call e ospiti invitati, si è svolto dal 20 al 22 febbraio 2019, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, in collaborazione con il Collège des Bernardins di Parigi, con il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, con la rete di ricerca HermeNet e con il gruppo di ricerca E.L.A.H.O.V.
La prima sessione si è aperta con i saluti del responsabile della Sezione di Filosofia, Paolo Amodio, che ha sottolineato la centralità del convegno rispetto a un compito fondamentale della filosofia: la necessità di riflettere sul presente. Il primo intervento, di Nicola Russo, ha svolto una funzione introduttiva, soffermandosi poi sulla memoria: ha esplicitato i termini del titolo del convegno, chiarendo che si tratta di concetti polisemici, ne ha interrogato il nesso e ha domandato in che misura immagine e memoria sono cambiate con l’avvento del digitale. Al di là della polivalenza di ciascun termine, è possibile osservare un significato unitario, che permane nelle molteplici accezioni di immagine, memoria e digitale. Ad esempio, spiega Russo, l’immagine può essere quella percepita, quella raffigurata, come pure quella fantastica. Nonostante tali differenze, comune a ciascuna è quanto sostiene Platone nel Sofista: immagine è «ciò che assimilandosi a una vera cosa è altro da essa ma tal quale». Analogamente, la memoria, sia essa pensata come autobiografica o storica, o di un hard disk, concerne, nella sua definizione essenziale, un qualche rapporto con il passato. Il fenomeno mnemonico, precisa Russo, custodisce sì il già stato, ma nel segno della «rottura»: tra il passato, a cui il rammemorare fa riferimento, e l’ora, in cui esso si ripresenta, si ha un movimento di «riattualizzazione» dell’evento, che non è più. Questa l’anamnesis. Anà indica infatti il «di nuovo», e dunque in relazione alla memoria il ripresentarsi, il riconoscere, il rievocare. Nel ricordo si riattualizza l’hypomnesis, «sotto-memorazione», «sotto-traccia», che nel suo presentarsi si configura come narrazione della traccia, «ritracciatura». Al rammemorare è inoltre commisto l’elemento dell’oblio, giacché è quanto consente alla traccia di esser tale. Rimembrare è ricordare l’ipomnesi che, in quanto ricordata, diventa anamnesi, ed è quindi a suo modo obliata. «Vi è dunque un oblio dell'ipomnesi, che consiste nel suo dover divenire latente, ma vi è anche un oblio dell'anamnesi, che consiste nel fatto che il ritrovamento della traccia è la sua rinarrazione e riscrittura». - Vi è anche, possiamo aggiungere con Nietzsche, un oblio necessario alla vita, affinché essa non resti immobilizzata dalle catene del passato. Celebre e iconico di tale concezione è un passo, tratto da Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in cui il filosofo istituisce un nesso tra l’oblio e la gioia: «Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri». – La memoria umana dunque, diversamente da un hard disk che conserva dati senza alterarli, custodisce tracce che si configurano come spunti di riscrittura e reimmaginazione.
Non solo il rammemorare è un fenomeno complesso, ma anche la storia degli strumenti di memorizzazione rivela una sua complessità. Che l’ars memoriae abbia una tortuosa genealogia è sostenuto da Tommaso Guariento con molteplici riferimenti. Nell’osservare e nel presentare il cambiamento circa la produzione di testi e immagini, con la rivoluzione digitale, Guariento pone diverse questioni: si interroga se le nuove forme di lettura portino con sé peculiarità delle antiche artes memoriae; domanda se le arti della memoria siano da considerarsi un prodotto culturale o biologico, o se sono a metà strada tra questi due elementi; si chiede se ci si trova dinanzi a un nuovo gradino dell’evoluzione culturale umana o se, diversamente, le nostre conoscenze a riguardo sono ancora poco evolute per stabilirlo. Risposte provvisorie, legate alla natura stessa delle nuove tecnologie, che avanzano e che spesso ci sfuggono, sono accompagnate da nuovi punti di domanda.
Spostandoci dalla memoria verso l’immagine, Francesco Striano ha sostenuto la co-originarietà di logos ed eikon, nella misura in cui hanno una matrice comune: il doppio movimento di interiorizzazione ed esteriorizzazione, che costituisce il dispositivo attraverso il quale siamo «costretti» a pensare. Inoltre, pur poste le differenze tra i due, logos ed eikon sono simbolizzazioni del mondo. A differenza della tradizione greco-bizantina, che ne tematizza la co-appartenenza, l’estetica moderna tende a separare immagine e logos. Tale frattura tuttavia, nota Striano, sembra ricomporsi con le immagini digitali, in cui c’è compresenza di logos, inteso come qualsiasi elemento logico, ed eikon, ragion per cui Striano suggerisce di definire l’immagine digitale «logicona». Un esempio logiconico proposto è il riconoscimento facciale 3D, «ritratto senza immagine», che si serve di elementi logici e iconici nello stesso tempo, rendendo visibile l’invisibile, ossia tutti i punti che tracciano il volto.
Se Striano dell’immagine digitale ha sottolineato l’elemento della commistione logiconica, Nicola Siddi ne ha evidenziato, sulle orme di Benjamin, anzitutto la profonda differenza rispetto al passato, che si compone di svariati tratti. Tra questi, l’aumento inimmaginabile di immagini e la peculiarità dei luoghi che le conservano, come i social networks, che potrebbero scomparire, rendendo indisponibili le immagini conservate. Un altro aspetto che contraddistingue l’immagine nell’epoca della sua riproducibilità digitale è la produzione smisurata di dati rispetto allo spazio disponibile per salvarli. Per dirla con Floridi, l’effetto «troppe fotografie sull’iphone» è l’effetto del sistema pianeta terra. «Le possibilità future», conclude Siddi, «spaziano quindi da una quantità di immagini e di memoria tali da cambiare il contesto a una perdita definitiva delle immagini digitali. Si compirà così la fine dell’aura?».
Un’altra domanda che potrebbe porsi concerne il rapporto tra la quantità smisurata di fotografie e la semplicità degli strumenti adoperati: il numero esorbitante di scatti è legato anche alla sempre maggiore facilità (e automaticità) delle fotocamere? Inoltre, c’è un qualche legame tra il sovraffollamento di immagini e la diminuzione della stampa fotografica?
La seconda sessione, moderata da Maria Teresa Catena, si è aperta con una relazione che ha declinato immagine e memoria in relazione all’archivio digitale e allo spazio mediatico. Matteo Treleani, nell’analizzare la circolazione delle immagini d’archivio nel mediaspace, ha rintracciato due caratteristiche chiave: l’elemento della doppia mediazione, consistente nella messa online di ciò che è già immagine; e la somiglianza tra i movimenti delle immagini e le «migrazioni che attraversano le frontiere», di tipo culturale, tecnico, professionale ed enunciativo. «Le traiettorie delle immagini del passato implicano dei luoghi di passaggio e l’analisi di queste mediazioni permette di osservare quali sono le logiche di autorità: ovvero chi, cosa permette il passaggio e come questo ne modifica il senso e la struttura», spiega Treleani. Preliminare a tale circolazione è il passaggio dall’immagine evento all’immagine documento, caratterizzato dalla verifica di quanto rappresentato. In riferimento all’attentato dell’11 settembre, Treleani considera la frase della giornalista Sawyer, «We will see that immagine again, just to make sure that we saw what we have thought», emblematica di tale passaggio, che necessita di un accertamento dell’accaduto. Posto il valore documentario dell’immagine, la sua collocazione in uno spazio mediatico comporta un processo di rincontestualizzazione e riappropriazione, che non è univoco, ma si presta a molteplici usi. Infatti, un aspetto su cui Treleani ha invitato a riflettere concerne la pluralità delle ri-proposizioni: «le immagini non sono ricontestualizzate una sola volta ma subiscono una molteplicità di contesti, di riusi e rimontaggi».
Diversa dalla memoria dell’archivio è quella di alcune tecnologie indossabili, caratterizzate, similmente alla memoria umana, dalla multifunzionalità e interattività. A proposito delle tecnologie indossabili, Emanuele Clarizio ha tratteggiato una possibile reciprocità tra l’antropologia di Leroi-Gourhan e Google Glass, nella misura in cui la filosofia di Leroi-Gourhan può chiarire concettualmente Google Glass e viceversa. Seguendo le orme tracciate ne Il gesto e la parola, vengono messi in rilievo alcuni aspetti: l’essere faber dell’uomo, che non è soltanto sapiens, e dunque lo scarto biologico-tecnico rispetto agli altri viventi; l’ominazione strettamente legata alla tecnica, giacché essa consente di liberare parti del corpo da usare per il linguaggio; la memoria, senza la quale non può darsi tecnica alcuna, né più in generale «sintassi dell’esperienza». La memoria è concepita come «materia» del pensiero, come supporto su cui si inscrivono concatenazioni di atti. Inoltre, è pensata quale facoltà che rende possibile l’interattività umana. L’interattività e la multifunzionalità sono due caratteristiche importanti di Google Glass, che dunque accomunano digitale e biologico. Pur tuttavia, puntualizza Clarizio, una differenza significativa, tra l’organico e il tecnologico, permane: la memoria umana sedimenta e si sedimenta nel relazionarsi con l’altro. La tecnologia indossabile è priva di tale sedimentazione.
A seguire, le relazioni successive hanno analizzato aspetti differenti dell’era digitale, quali la simbolizzazione, l’immagine digitale (e non solo) come modello e le conseguenze epistemologiche legate alle nuove tecnologie.
Joaquin Mutchinick ha descritto una peculiare forma di simbolizzazione dell’era digitale: l’algoritmo predittivo. Egli muove da alcune considerazioni di Floridi, presenti ne La quarta rivoluzione, secondo cui è possibile scandire l’evoluzione umana in tre momenti: preistoria, storia e iperstoria. Quanto segna il passaggio dal primo al secondo momento è l’avvento della scrittura; quanto rappresenta il passaggio dal secondo al terzo è lo sviluppo della tecnologia digitale. Diversamente dalla parola orale, la parola scritta si presenta come portatrice di simboli non indicanti l’immediatezza del presente. La scrittura dunque, nel suo simboleggiare qualcosa di non immediatamente dato, ha potenziato la capacità astrattiva dell’uomo, portando con sé implicazioni gnoseologiche ed epistemologiche. Ciò posto, Mutchinick domanda se, nella fase dell’iperstoria, sia possibile riscontrare un cambiamento di natura cognitiva simile a quello apportato dalla scrittura. Sulla scia di diversi studiosi, Mutchinick ritiene che un mutamento in corso sia senz’altro presente, ma non si è in grado di dire esattamente «quale» esso sia. Nondimeno, è possibile osservare una diversa simbolizzazione: a partire dalla produzione incessante di dati, conservati dai Big Data Provider e resi disponibili per le aziende, deriva un tipo di algoritmo che analizza le tracce degli utenti, per delineare probabili comportamenti futuri. Questo l’algoritmo predittivo, che tratteggia un «agire», e non un «conoscere», un fare, e non un pensare. Rappresenta dunque «una tendenza contraria rispetto alla progressiva astrazione simbolica avviata dalla scrittura». Il funzionamento di tale algoritmo ha indotto diversi ascoltatori a chiedersi quanto il comportamento umano sia regolare, e quindi regolarizzabile, e quanto invece, nonostante il progresso tecnologico, conservi qualcosa di non regolarizzabile, che si sottrae ai meccanismi predittivi.
Il relatore seguente, Felice Masi, ha proposto di considerare un sample, un oscilloscopio e un melo innestato (e anche altri enti tecnici) come modelli, in una prospettiva di fenomenologia della percezione mediata. Il sample è scelto per indicare l’immagine digitale per due motivi principali: per il significato di campione, non dissimile da model, e per la derivazione da exemple; per il riferimento all’operazione di cui si compone un’immagine digitale, il sampling. Il melo innestato e l’oscilloscopio sono scelti quali esempi di pensiero mediato, «pensiero parzialmente simbolico». Nell’apprensione di un melo innestato, o di un oscilloscopio, non si ha un «riempimento perfetto», giacché né l’innesto né il numero di oscillazioni sono «propriamente percepibili». Nondimeno, la scala di cui si serve l’oscilloscopio funge da segno che media la percezione e che correla due variazioni fisiche, e che dunque rende possibile una qualche apprensione. Inoltre, precisa Masi, la percezione mediata non è tale «nel senso che guardo attraverso qualcosa, ma perché, guardando attraverso qualcosa, in tali e tali condizioni, ne risulta una peculiare composizione dell’apprensione», segnica e percettiva, che caratterizza l’apprensione del modello. Pertanto, come l’apprensione di un melo innestato, di un oscilloscopio e di un sample ha elementi segnici e immaginativi, così l’apprensione di un modello, pensato nei termini di «meccanismo di ritraduzione» e di «rappresentanza generale per analogia». Si può dunque osservare che, «se è possibile una teoria dell’esperienza “tecnicamente” mediata, essa sarà una teoria dell’esperienza di modelli».
Una differente idea di «mediato» è accennata da Veronika Klauser, che ha esaminato l’impatto della rivoluzione digitale sul paradigma epistemico, muovendo dalla domanda intorno alla definizione di sapere. Richiamandosi a Hegel, Klauser argomenta che sapere può dirsi non la mera ricezione di un’informazione, ma la ricostruzione attiva dell’informazione da parte del soggetto, giacché il solo ricevere un dato non implica il comprenderlo. Qualcosa di analogo accade se l’informazione è mediata da un computer, un tablet o uno smartphone: l’informazione digitale, per essere propriamente un sapere, necessita di una rielaborazione da parte del soggetto conoscente. Nonostante tale somiglianza nel processo conoscitivo, Klauser sottolinea che la digitalizzazione comporta alcuni rischi, attualmente diagnosticati, tra i quali il cambiamento della percezione del proprio corpo, una diversa percezione del mondo esterno, un cambiamento nei rapporti sociali, una potenziale dipendenza dagli strumenti digitali. Cambiamenti che, suggerisce Klauser, potrebbero essere analizzati e risolti attraverso una collaborazione tra le scienze empiriche, in primis la psicologia e la filosofia.
La terza sessione, moderata da Riccardo De Biase, si è aperta con la relazione di Nicola Martellozzo, che ha esaminato Google e Wikipedia quali esempi di due differenti forme di memoria digitale. L’uno, per la sua natura anticipatrice, giacché aiuta l’utente nel completare la sua ricerca, è considerato come emblema della memoria «profetica». Ovviamente, i completamenti-suggerimenti da parte di Google si basano anche sulla conservazione dei dati delle ricerche effettuate. L’altra, in quanto cantiere della digitalizzazione del sapere, è presentata come esempio di memoria «enciclopedica». In virtù del suo essere un’enciclopedia open source e gratuita, Martellozzo sottolinea che Wikipedia dovrebbe rispettare la «neutralità digitale», condizione in cui gli interessi sociali, economici e politici degli utenti sono sospesi, per poter dare forma a una conoscenza scevra di interessi di parte. In verità, gli stessi record di ricerca, e alcune informazioni, rivelano la non neutralità della memoria digitale.
Anche Rinaldo Mattera si è soffermato sulla relazione tra la memoria e le tecnologie digitali. Mattera ha tratteggiato l’elemento di continuità dei processi digitali, sotteso allo sviluppo e al cambiamento delle tecnologie, di cui riporta molteplici esempi. Seppur nel segno della continuità, delle differenze naturalmente sussistono: tra queste, la «smaterializzazione» che riguarda il passaggio dall’analogico al digitale, e la fruizione dello spazio, fisico e virtuale. «Immagine simbolica» di una differenza, e dello spirito contemporaneo del digitale, può considerarsi il cloud computing, tecnologia che ha modificato il modo di vivere lo spazio. A mo’ di esempio, il cloud induce a porre domande circa il dove sia effettivamente presente quanto si sta ascoltando, oppure intorno al chi stia ascoltando insieme a me. Tale mutamento rispetto al passato risulta ancora più evidente se si pensa al vinile, alla sua fisicità e al suo collocarsi in uno spazio ben preciso.
Alle analisi sulla memoria di Google, di Wikipedia e del cloud, sono seguite considerazioni circa l’altro nucleo tematico del convegno. Tommaso Ariemma ha analizzato un’immagine peculiare dell’era digitale: il meme, tracciandone l’origine, gli usi e le potenzialità. Meme deriva da mimema, imitazione, e mneme, memoria, ed è concetto utilizzato per la prima volta da Dawkings, nel suo Il gene egoista. Secondo il biologo, è possibile pensare a un’analogia tra il comportamento dei geni e la trasmissione di un’informazione: come i replicatori genetici comunicano un tipo di informazione, così il meme, unità di informazione, è trasmesso mediante la comunicazione, per ripetizione. Diverso dal meme quale unità di trasmissione culturale, il meme virtuale si configura come un nuovo linguaggio (non di rado strumentalizzato politicamente), che unisce scrittura e immagine in modo «dissacrante», con un riferimento all’originario di cui viene modificato il significato. Ciò nonostante, la natura irrispettosa del meme può fungere, secondo Ariemma, da «tutela del dato». Inoltre, quantunque semplifichi un concetto, il meme può essere considerato come elemento suppletivo di un discorso e come elemento di divulgazione. Un ascoltatore non persuaso ha domandato se il meme non sia un’estrema semplificazione che rischia di impoverire il pensiero; un altro, alimentando uno dei tanti dibattiti sorti durante il convegno, lo ha considerato un valido supporto mnemotecnico; un altro ancora ha suggerito che il meme sembra sminuire e l’immagine e la parola.
Proseguendo intorno all’immagine nell’era digitale, Elisa Rusca si è soffermata sul lavoro di coloro che gestiscono le migliaia di immagini che circolano in rete. Le immagini che affollano Facebook, Instagram o Youtube, tutt’altro che libere, sono controllate in primo luogo da un filtro algoritmico, e successivamente dall’uomo, che stabilisce l’adeguatezza o meno dell’immagine. I lavoratori che si occupano di selezionare le immagini opportune, tra i diciassette e i venti anni, sono tenuti a non divulgare tale attività, e sono costretti a lavorare fin troppe ore al giorno, subendo immagini dal contenuto violento. Ecco il «tecno-proletariato», sulle cui condizioni lavorative occorrerebbe riflettere, proponendone altre. Un’ulteriore questione implicita in questa attività, spiega Rusca, concerne il luogo in cui le immagini segnalate sono riposte: le discariche virtuali sono luoghi che non eliminano, ma conservano. Esiste forse una connessione tra le immagini eliminate e il dark web?
La quarta sessione, moderata da Edoardo Massimilla, Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, si è aperta con una relazione di Graziano Lingua, sull’attuale «protagonismo delle immagini». Tale protagonismo si configura innanzitutto come un fenomeno legato al progresso tecnologico, il cui carattere fondamentale non è quantitativo, bensì qualitativo: il cambiamento non riguarda semplicemente la quantità di immagini presente nella nostra vita, ma il modo in cui ci rapportiamo a esse. Inoltre, il numero esorbitante di immagini porta con sé antiche e nuove problematiche: da un lato, sembra presentarsi la «paura» dell’immagine, forse connessa all’idea platonica della raffigurazione come mimesis manchevole. Dall’altro, si riconosce la «potenza ostensiva» dell’immagine nell’era digitale. Più in generale, il profluvio di immagini riapre la questione del conflitto tra eikon e eidos. Nel contempo, è presente il tentativo di superare questo scarto, a favore di un’idea performativa dell’immagine: Lingua stesso invita a pensare il logos come parte dell’eikon. Nel far ciò, egli propone una rivalutazione di alcune teorie premoderne dell’immagine, legate al pensiero cristiano di matrice greco-neoplatonica, in epoca tardo-antica. Diversamente, il modo moderno di rapportarsi alle immagini, identificato da Lingua con la nozione di «coscienza estetica», non sarebbe adatto a cogliere il senso delle immagini contemporanee, perché limitato a un’impostazione contemplativa, fondata su una netta separazione tra spettatore e immagine. Invece, le teorie dell’icona, così come il dibattito religioso relativo al potere delle immagini, consentono di approfondire la questione della dimensione performativa dell’iconico, configurandosi come una base teorica più adeguata per comprendere il senso specifico delle immagini digitali.
L’intervento seguente, di Gemma Serrano, si è soffermato su uno dei protagonisti dell’era digitale: lo schermo, analizzandone la relazione con la memoria e con il concetto di ambiente. Serrano ha invitato a riflettere sulla temporalità che lo schermo, con le sue molteplici funzioni, scandisce. Ad esempio, lo schermo spento è sì tempo d’arresto, ma il distacco dallo schermo è estemporaneo, giacché si ha una sospensione per interagire nuovamente con esso. Tale interazione dà vita a un costante presente e, nel contempo, a un ambiente digitale che comprende anche la sfera degli affetti, che in qualche misura lo spazio schermico racchiude. Bruno Bachimont evidenzia la peculiare temporalità del digitale, sostenendo che esso è un «dispositivo che annulla la temporalizzazione della coscienza e quindi la sua capacità di temporalizzazione […]. Il calcolo effettua una manipolazione in un presente continuo, chiuso alle possibilità esterne di un tempo che si apra sul nuovo, sull’inedito, sull’imprevisto, sul contingente». Questo rivolgersi al solo presente, suggerisce Serrano, fa pensare alla gioia animale descritta da Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ripresa da Nietzsche nell’incipit dell’inattuale sulla storia. Attraverso lo schermo, l’inquietudine del passato sembra annullarsi e trasformarsi nella «gioia animale dello schermo». Tale gioia si arricchisce nella misura in cui lo schermo viene vissuto come una casa, e dunque come uno spazio degli affetti.
Anche Mauro Carbone ha analizzato l’esperienza dello schermo, soffermandosi sulla sua ambiguità di significati e sul suo essere pars pro toto del dispositivo, in senso foucaultiano, di cui siamo parte. Lo schermo rende visibile un’immagine e nel contempo occulta se stesso: lo schermo spento rivela la sua natura. L’esperienza schermica, da cui sorge un’antropologia degli schermi, è insieme un rendere visibile e invisibile, un dire e un non dire. L’«archi-schermo», «principio transistorico della mostrazione e insieme dell’occultamento», indica tale duplicità. Inoltre, indica il suo essere tema invisibile a partire da cui tutti gli altri temi si formano e riformano. Questo principio produce così diversi «regimi di visibilità», che si intrecciano con molteplici «regimi di dicibilità». «Protoschermo» è invece, prosegue Carbone, il nostro corpo, vedente e visibile. L’origine de la peinture di Regnault, che si ispira a un mito della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ben ritrae questa ambiguità corporea, del vedere e del rendere visibile. Un altro elemento cardine, da considerare in relazione allo schermo, è la trasparenza, medium che porta a far trasparire qualcosa, a cui si oppone il concetto di opaco, dalle valenze estetiche ed etiche. L’ambiguità della tecnica si rivela dunque anche nell’esperienza schermica: lo schermo mostra nascondendosi.
Ebbene, durante i tre giorni del convegno, le molteplici accezioni di immagine, memoria e digitale, annunciate nella prima relazione, sono state ampiamente declinate, aggiungendo al significato unitario di ciascuna significati complementari, a seconda della questione affrontata. Si è discusso della relazione tra la memoria e l’oblio, della memoria d’archivio, della memoria profetica ed enciclopedica, della memoria non più legata a un manufatto, ma a un codice binario e a una diversa fruizione dello spazio. Ci si è confrontati sulla relazione tra immagine e pensiero, sulle peculiarità dell’immagine riproducibile, dell’immagine digitale come logicona, come modello, come meme, come raffigurazione violenta. Sono stati analizzati aspetti dell’era digitale quali l’esperienza dello schermo, le tecnologie indossabili, le conseguenze epistemologiche delle nuove tecnologie, il cambiamento della simbolizzazione e della capacità immaginativa dell’uomo. Ogni questione affrontata ha inoltre portato con sé nuovi punti di domanda.
L’ultima relazione del convegno, di Lorenzo De Stefano, ha tratteggiato la crucialità che la produzione di immagini ha avuto, e continua ad avere, per la filogenesi umana, confrontando diverse tipologie di immagini e analizzandone le differenze e similarità. Muovendo dalle ricerche di Leroi-Gourhan, che hanno illustrato la specificità del sapiens nella produzione iconografica, De Stefano ha seguito, come modello di analisi, la scala di Flusser, che distingue il processo di esteriorizzazione dell’immagine in cinque livelli: il vivere concreto, la manipolazione, la mediazione immaginaria (e l’elaborazione del mitogramma), la concettualizzazione con l’avvento della scrittura, il computare (e la produzione della tecnoimmagine). Mitogramma e tecnoimmagine condividono prerogative comuni, quali la trasmissione e conservazione di informazioni, la raffigurazione di senso, l’uso congiunto di immagine e parola. Nondimeno, sussistono molteplici differenze, che possono costituire un mutamento rischioso per l’intelligenza umana. Tra queste, De Stefano pone l’accento sul cambiamento della facoltà immaginativa: «come il mitogramma agisce mediante il nesso emotivo tra arte e religione, il potere di fascinazione e irretimento dei media contemporanei cattura pervicacemente la multidimensionalità della percezione audiovisiva, con un depauperamento tuttavia della dimensione immaginativa». Oltre a ciò, individua altre differenze nell’annullamento della distinzione tra esemplare e copia, e nella perdita progressiva della funzione gestuale creativa delle mani.
Proprio sul tatto, e sull’udito, nell’era digitale, si intende organizzare un prossimo convegno.

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