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La patologia del logos: il fondamento antropologico dell’ontologia

Autore


Luigi Laino

Università degli Studi di Napoli Federico II

è Dottore di Ricerca in Scienze Filosofiche e svolge attività di ricerca all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Introduzione: “I lay my ear to furious Latin”
  2. Metafisica del linguaggio: le parole e le cose
  3. Il pathos della distanza come Stimmung filosofica fondamentale
  4. Il «neo-kantiano malato»

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S&F_n. 10_2013

Abstract


In the following paper, we would like to draw attention to the question of Man in Ernst Cassirer’s thought. We have tried to show how the so-called “anthropological turn” is actually an inherent disposition which arises with the transcendental method. This method is above all an answer to the fundamental question of being, and, in order to be in-depth conceived, has to be always considered as an answer to this question: if the question is erased, it will be lost the essence of the answer too. We have then tried to present the last results of our research, and particularly to explain in which sense the basis of both question (about being) and answer (the transcendental method) has to be recognized as an anthropological one, through the analysis of the difference man-animal.


Aveva udito raccontar meraviglie della solanacea che cresce ai piedi delle forche, nel punto dove gl’impiccati hanno sparso le ultime gocce di liquido seminale: una pianta che tutto sommato può dirsi prodotta dall’accoppiamento dell’uomo con la terra. […] Proprio così: i suoi amori con Speranza non erano rimasti sterili; la radice carnosa e bianca, stranamente biforcuta, raffigurava in modo indiscutibile il corpo di una bambina. Tremando di emozione e di tenerezza, rimise la mandragora dov’era e sistemò la sabbia intorno allo stelo, come avrebbe rincalzato il letto di un bimbo. […] Aveva umanizzato colei che ora poteva chiamare sua sposa in modo incomparabilmente più profondo che grazie a tutte le sue imprese di governatore.

Michel Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico

 

  1. Introduzione: “I lay my ear to furious Latin”

La domanda sull’uomo non è solamente una domanda filosofica, cioè una fra le tante domande che ci si può porre quando si fa filosofia; a rigore, in effetti, non esisterebbe, in filosofia, che una sola domanda. Questo perché il chiarimento che la domanda filosofica esige dal pensiero non riguarda l’oggetto della questione; ovverosia essa non obbliga a riflettere su qualche cosa, quanto piuttosto si trova a pressare il pensiero stesso con l’urgenza del suo esserci, con la sua insistenza. Da tutto ciò consegue che dalla domanda veramente filosofica non può scaturire alcuna chiarificazione che abbia un tono scientificamente rassicurante, arguibile proprio dalla chiarezza con cui, in una scienza, si giunge alla definizione dell’ambito oggettuale sotteso dalla domanda – la risposta, in tal modo, avrebbe un oggetto di cui parlare. Per contro, la forma dell’interrogazione filosofica è quella della ricorsività ossessiva: la domanda cede al passo di Socrate, per le strade di Atene, che chiede agli abitanti della città cosa sia la giustizia, cosa la virtù etc.[1]. L’ossessione ha un solo e medesimo nucleo, a dispetto del suo concreto essere proteiforme. Possiamo dunque dire che cercheremo, in questa sede, riguardo in particolare alla parabola filosofica di Ernst Cassirer, di concedere agio all’affermazione di Max Scheler, secondo cui «tutti i problemi fondamentali della filosofia si possono ricondurre alla domanda che cosa sia l’uomo e quale posto e posizione metafisica egli occupi entro la totalità dell’essere, del mondo, di Dio»[2].

 

  1. Metafisica del linguaggio: le parole e le cose

È tuttavia pacifico che una risposta alla domanda filosofica sull’uomo non possa prescindere dal dialogo con le scienze positive; questo legame condizionante fra scienza e filosofia è il tratto peculiare della stessa filosofia critica: in Kant und die moderne Mathematik, Cassirer aveva infatti sostenuto che se fosse possibile recidere questo intreccio, andrebbe perduto il senso stesso di ciò che nomina il trascendentale[3]. Anche nell’ambito della questione dell’uomo, dunque, nella misura in cui il modo di dire deve rimanere trascendentale, non è possibile autorizzare tale distacco: in questo caso, bisogna certo scavalcare l’orizzonte del Faktum preso in considerazione, cioè quello prescritto dalle scienze matematiche – le quali operano per progressiva e crescente disumanizzazione del rispettivo logos –, per rivolgersi a un dominio epistemologico più ampio, costituito dall’intreccio di quelle diverse e numerose discipline che studiano l’uomo, ma il metodo resta in sostanza sempre lo stesso. Ne renderemo conto a partire dall’analisi della pratica cassireriana che impronteremo. È chiaro, a ogni modo, che non si possa rimanere a questo livello, per così dire, apofantico-ostensivo del discorso, e che si debba invece procedere allo smascheramento del presupposto che lo sorregge. Qual è dunque questo fondamento del discorso? Dovremo qui procedere per forza di cose in modo ellittico, almeno nella presentazione del problema, dacché in questa sede non è possibile diffondersi nelle circostanze. Ci si pone infatti ora il compito di fornire un breve ragguaglio preliminare sulla domanda che anima la riflessione cassireriana fin dal principio, e che scorta Cassirer al momento topico della traduzione di questo fondamento nei termini della questione dell’uomo[4]. Per mettere subito le carte in tavola, possiamo dire che la forma di questa domanda è sicuramente ontologica; e questo in realtà non dovrebbe poi suonare in modo così scandaloso, visto che la filosofia trascendentale, da cui Cassirer proviene, è segnata dalla domanda sull’essere. Certo è una domanda a cui essa risponde in modo talmente radicale da far pensare a un’obliterazione della questione: Kant dice chiaramente, per esempio, che, con la critica della ragione, è arrivato il momento di sostituire al «fiero nome dell’ontologia» un’«analitica dell’intelletto puro»[5]. Se tuttavia si prende come punto di riferimento la tesi principale della gnoseologia cassireriana, esposta in modo sistematico soprattutto nel grande libro del 1910 Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik, la quale esige il passaggio dal primato della categoria della sostanza a quello della funzione come principio motore della Begriffsbildung, si osserverà in modo più trasparente come il trascendentale stesso non rappresenti che una risposta, per quanto necessaria e totalizzante, proprio alla domanda sull’essere; a questo riguardo, dunque, una risposta che trova la sua cogenza solamente nel suo essere tale, ossia nel rimanere una risposta a una domanda. Nel Vorwort Cassirer scrive:

Ovunque venga posta nella storia della filosofia la domanda sul rapporto fra il pensiero e l’essere, fra la conoscenza e la realtà, lì essa è già incanalata e dominata nella sua prima impostazione da determinati presupposti logici, da una determinata visione sulla natura del concetto e del giudizio[6].

 

La risposta alla questione ontologica elaborata dal trascendentale non è una risposta fra le altre possibili, ma in qualche modo rappresenta il destino della stessa prote philosophia come episteme dello ontos he on[7]. C’è insomma un motivo per cui con la risposta trascendentale si pensa di aver risolto una volta per tutte la questione dell’essere in quella sulla natura del giudizio. A ogni modo, in quel conciso passaggio del Vorwort, Cassirer ha però portato a compimento un’operazione la cui portata è veramente immane; potremmo dire che, in effetti, in questo luogo, egli ha esplicitato in modo chiaro e diretto un’ipotesi relativa alla domanda ontologica medesima, ovverosia il fatto che il prius non è mai dato da una domanda sull’essere in quanto tale. O meglio: che ogniqualvolta viene posta la domanda sull’essere, essa ha la forma di una domanda sulla relazione fra pensiero ed essere, conoscenza e realtà ecc. Quella tesi, allora, non significa tanto una semplice sostituzione, ossia una ulteriore applicazione di una stessa regola del calcolo combinatorio fra le categorie – a eccezione del differente risultato finale –, quanto piuttosto intende prescrivere una nuova direzione al metodo stesso del calcolo, al suo senso. E questo metodo deve ora indicare la strada su cui si muove e si è mossa da sempre l’ontologia medesima. La fondamentale tesi gnoseologica cassireriana vuole smascherare l’inconsistenza della teoria metafisica dell’essere come teoria della sostanza, cioè della ousia, e vuole additare infine la stessa ousia come un postulato del pensiero:

Nella lotta di Descartes contro la sillogistica ed il suo fondatore la logica della dottrina delle idee agisce come il motivo realmente determinante. Il pensiero approfondisce di nuovo il suo originario significato platonico, secondo il quale esso produce come espressione della funzione della conoscenza contemporaneamente il contenuto [Gehalt] oggettivo dei principi scientifici. Nella creazione spontanea del presupposto contenutistico esso diviene la condizione e la garanzia di «ciò che è veramente» [das wahrhafte Seiend: dell’essente autentico][8].

 

Così la gnoseologia di Cassirer ha detto qualcosa di fondamentale sulla questione dell’essere, cioè sull’ontologia: non si dà mai ontologia nel senso di una teoria dell’essente kath’autò, ma laddove tale domanda sorge, essa deve già essere interpretata come una determinata questione circa la relazione fra l’essere che è posto e il pensiero che pone questo essere. Dunque in quella estrapolazione avente un valore apparentemente incidentale e introduttivo, è stato detto qualcosa di cruciale sull’essenza dell’ontologia: si è asserito che non si tratta di una teoria dell’essere, cioè di quella episteme dello ontos he on cui ci richiamavamo poco fa, o almeno non in questo senso stretto, bensì di una episteme del nesso ontologico fondamentale come rapporto fra pensiero ed essere. Se l’ontologia deve dire qualcosa sull’essente in quanto tale, può in verità farlo soltanto se ha già espressamente tematizzato il rapporto che sin dall’inizio l’essere intrattiene col pensiero[9]. Il filo rosso dell’ontologia rimane essenziale per comprendere anche la svolta di Philosophie der symbolischen Formen (I: 1923; II: 1925; III: 1929). Si è soliti infatti decifrare l’opera cassireriana secondo due grosse periodizzazioni, l’una rispondente a una prima fase di orientamento prevalentemente gnoseologico-critico, e l’altra, invece, quella giustappunto inaugurata dal lavoro sulle forme simboliche, versata nel campo sconfinato della Kultur e della Zivilisation, o peggio ancora della storia[10]; se però si legge la questione sulla scorta del problema ontologico, ci si renderà conto di quale sia il vero trait d’union che lega i “due”Cassirer fra loro, al di là di ogni dichiarazione conciliante, che è invero destinata a rimanere superficiale se non riesce ad articolare in modo esplicito il nome del problema ontologico. Non può infatti essere casuale che il volume sul linguaggio, il primo volume dell’opus magnum cassireriano, si apra con una requisitoria intorno alla concezione classica del problema dell’essere. Il legame dell’impostazione trascendentale con l’ontologia si fa ancora più evidente se si pensa al continuo richiamo alla figura di Platone. Nello scritto postumo già richiamato in nota (n. 9) sul concetto di simbolo, Cassirer arriva a sostenere esplicitamente il parallelismo fra la sua concezione delle forme simboliche e la teoria delle idee, esattamente nei termini in cui la filosofia delle forme simboliche sarebbe un tentativo di soluzione nientemeno che del problema platonico della partecipazione: «Il “simbolico”, come noi lo intendiamo, è piuttosto la vera mediazione di questa apparente opposizione – è il vero metaxù – che spiega la methexis – la partecipazione del “fenomeno” all’“idea”, della “vita” al “pensiero”, dell’eterno fluire alla forma plasmata»[11]. Se la traiettoria speculativa che abbiamo finora tratteggiato può dirsi convincente nella sua icasticità, non abbiamo tuttavia ancora specificato nulla sul modo particolare in cui essa si realizza; segnatamente, non abbiamo ancora proferito parola sulla conseguenza peculiare del passaggio dalla Erkenntistheorie alla filosofia delle forme simboliche. La filosofia delle forme simboliche è una filosofia dello spirito: in senso essenziale, possiamo affermare che il passaggio dalla teoria della conoscenza alla filosofia delle forme simboliche comporta il passaggio dal logos al Geist. Tale slittamento ha come effetto principale quello di mostrare il logos stesso come una tappa della fenomenologia del Geist: dunque il Geist si estenderebbe ben oltre il logos, essendone in qualche modo la condizione di possibilità – il Geist è la scrittura generale della funzione, mentre il logos uno dei domini oggettivi possibili. Alla luce della fenomenologia dello spirito avanzata da Cassirer, l’ontologia sembra poter essere interpretabile alla stregua di una possibilità che il Geist assume quando nel passaggio dal mythos al logos, e all’interno di una fase già avanzata del logos come coappartenenza di pensiero e linguaggio, appunto, osserva il consustanziarsi in una forma dei contorni delle cose, ossia diviene arruolabile alla causa della «rappresentazione», scoprendo la facoltà di discernere fra «soggetto» e «oggetto». Alla luce di questa intuizione, l’ontologia appare come oggetto di una fenomenologia del linguaggio, ossia come qualcosa la cui possibilità dipende dallo sviluppo dell’energia spirituale che a quest’ultimo è connaturata. Una tesi siffatta è espressa con chiarezza in un altro dei testi preparatori per il presunto quarto volume dell’opera sulle forme simboliche, ossia quelle note raggruppate in «Zum Schluß-Kapitel»: «Der Name ist der Ursprung der Ding-Kategorie: il nome è l’origine della categoria di cosa»[12]. Per saggiare l’estensione e la consistenza dell’ipotesi su cui questa tesi si regge, dobbiamo però ora ampliare l’orizzonte del discorso, e avventurarci giustappunto nel tentativo di una fenomenologia del linguaggio.

 

  1. Il pathos della distanza come Stimmung filosofica fondamentale

In generale, anche se non si ammette una continuità fra le due fasi del Denkweg cassireriano, non si potrà non riconoscere che in ogni caso un motivo teoretico di fondo rimane comune e sempre operante: si tratta naturalmente della critica alla concezione della sostanza come surrogato del Ding e della sua fissità ontologica. In nessun caso può essere ritenuto sufficiente considerare la verità nei termini di una «Abbildungstheorie»; mai si può cioè sostenere che la verità consista nella riproduzione esatta di un dato dell’essere. Al contrario, ogni conoscenza vera contiene sin dal suo primo respiro il lavoro del pensiero:

Anziché muovere dall’oggetto come ciò che è noto e dato, si deve piuttosto cominciare con la legge della conoscenza come ciò che è unicamente e solamente accessibile e come ciò che è primariamente più sicuro; anziché determinare le qualità più generali dell’essere nel senso della metafisica ontologica, deve essere accertata, attraverso una analisi dell’intelletto, la forma fondamentale del giudizio come quella condizione sotto cui solamente è possibile porre [setzbar] l’obiettività e che deve essere [la forma] determinata in tutte le sue molteplici diramazioni. Soltanto questa analisi, secondo Kant, dischiude le condizioni su cui si fondano ogni sapere [Wissen] dell’essere ed il suo concetto puro [di questo sapere dell’essere][13].

 

Ora, se si leggono sinotticamente il testo edito e quello inedito della filosofia delle forme simboliche, si può assistere a una progressiva esplicitazione dei termini fondamentali su cui si regge tutto il discorso, sulla cui base si dovrà poi leggere anche la questione dell’ontologia. Nella grande fenomenologia del Geist descritta nel testo edito, non si manca mai di sottolineare né (1) che le forme simboliche e così la «Symbolgebung» siano di pertinenza esclusiva dell’uomo, né (2) quale sia il vero metodo per comprovare il legame inscindibile fra le parole e le cose, ovverosia quello di studiare quei particolari stati del logos in cui questo rapporto sembra essere minacciato (Philosophie der Symbolischen Formen III). Nel testo inedito, è in particolare il primo di questi due aspetti a essere compiutamente sintetizzato nella critica generale al concetto e alla possibilità di una «Lebensphilosophie», ove si arriva a calibrare in modo ancor più preciso ciò che il Geist aveva già implicitamente nominato in precedenza. In effetti, i due plessi problematici non sono affatto disuniti, se consideriamo che, da un lato, l’analisi della condizione patologica del logos condurrà necessariamente alla questione sullo statuto dell’umanità del malato – vale a dire in che termini un malato del logos, diciamo in generale un afasico, possa essere considerato ancora un uomo a tutti gli effetti, o se invece egli non rassomigli piuttosto a un «animale» –; e, dall’altro, che il Geist stesso, già nel testo edito, appunto, sottendeva una specificità dell’umano rispetto al concetto generico e indifferenziato del Leben: per intenderci, già allora il Geist rendeva conto della specificità dell’umano nei termini di una potenza di trascendimento del dato immediato del Leben in vista del piano eidetico della «Bedeutung». È come se la tesi di fondo suonasse più o meno in questo modo: il processo della formazione simbolica è l’ipotesi su cui si regge l’interpretazione del reale, ogni possibile formazione del Wissen, e con ciò ogni possibile giudizio sul Sein e sul suo Wesen; e tuttavia non possiamo eludere il rilievo che questa simbolizzazione non pertiene a tutto l’ambito del Leben, bensì che essa assume una forma specifica, quella del Geist. Proprio nel testo inedito, Cassirer pone con decisione questa questione differenziale, e nomina attraverso gli attributi dello spirito e della «riflessione» la specificità dell’umano rispetto a ciò che non si trascende, l’«animale»:

L’animale non nota quindi nessun oggetto, tranne un oggetto che cada in un qualche modo nella cerchia del suo agire, che interessi in quanto causa per un’azione determinata. La direzione di questa azione e il suo specifico «interesse» è ciò che determina la specie delle sue datità, dei suoi «oggetti». Ma proprio la conclusività della «sfera della funzione», l’interrelazione di «percepire» e «agire», sembra tanto più allentarsi quanto più ci avviciniamo al mondo dell’uomo, finché alla fine il legame che altrimenti costituisce l’unità dell’organismo sembra addirittura essere spezzato. L’uomo […] esce dalla sfera del semplice percepire, come del semplice agire, per conquistare un nuovo campo, il campo della «riflessione»[14].

 

Insomma, solo il Leben dell’uomo si trasforma in Geist: solo nel Geist può insistere quell’energia necessaria per forzare l’assoluta immanenza della vita in un auto-trascendimento: «Sempre cangiante, tenendosi fermo, vicino e lontano e lontano e vicino: così sta lo spirito nella totalità della sua creatività di fronte alla vita, senza mai rivoltarsi contro di essa, senza mai dissolversi in essa»[15]. Qui si afferma che il Geist è il nome della specificità dell’uomo rispetto a tutti gli altri esseri pensabili come Lebewesen[16], e che questa specificità consiste nella capacità del Geist di prendere distanza dal Leben – esattamente come l’idéa è chorís da tà onta –, pur provenendo da esso. In un certo senso, potremmo anche dire che gli animali hanno un’anima, se l’anima è un soffio vitale, ma ciò che li differenzierebbe dall’uomo sarebbe il non essere dotati di «spirito». All’animale fa difetto il pathos della distanza.

 

 

  1. Il «neo-kantiano malato»

L’espressione che dà il titolo a quest’ultimo paragrafo ricorre nel testo di Derrida L’animale che dunque sono a proposito della discussione di un’ipotesi levinasiana sull’umanità di un animale[17], un cane, che all’interno di un campo di prigionia nazista aveva abbaiato ai prigionieri – fra cui si era trovato lo stesso Lévinas – il proprio riconoscimento: all’interno di quella follia raziocinante e disumanizzante, Bobby, questo il nome del cane, sarebbe stato «l’unico a guardare gli uomini come uomini»[18]. Lévinas chiamava in causa il cane in un testo dal titolo Il nome di un cane o il diritto naturale[19]: egli cercava di mostrare come quel cane che scorrazzava ai limiti del «campo forestale per prigionieri di guerra israeliti»[20], a margine delle giornate dei prigionieri e del disconoscimento a essi applicato dagli abitanti del posto, potesse rappresentare una buona metafora per la sua etica, giacché nell’abbaiare di Bobby sarebbe dovuto riecheggiare il silenzio dei cani di Esodo (11, 7) al cospetto della morte dei primogeniti, ossia quel presentimento dell’assoluta «dignità dell’uomo» di fronte al «Tu non ucciderai». In questo senso, Bobby è «l’ultimo kantiano della Germania nazista»[21], dal momento che ha appunto riconosciuto, unico fra gli altri viventi, in modo assoluto, la Würde degli uomini prigionieri; e lo avrebbe fatto non come Argo, che si sarebbe vanamente proteso – questo ci pare di poter arguire –, verso il proprio padrone Ulisse, celato dietro «miseri cenci»[22], in virtù di un rapporto di mera subordinazione, ma esattamente perché avrebbe affermato quella assoluta dignità della persona «senza etica e senza logos»[23], cioè incarnando quella «prossimità» che si trova prima della medesimezza dell’essere, e che poi inscrive nella medesimezza della soggettività l’«inquietudine dell’Altro»[24]. Perciò il neokantiano è malato nella misura in cui non sarebbe arrivato all’universalizzazione della massima in legge attraverso l’uso della ragione. A dispetto della sua audace esposizione, dunque, anche se per via negativa, pure Lévinas non si sarebbe divincolato da quell’errore metafisico che secondo Derrida è nel destino della metafisica occidentale, errore che presuppone l’incapacità di «risposta» dell’animale rispetto alla performatività logico-razionale dell’uomo[25]; e non se ne sarebbe liberato, dal momento che alla luce del suo stesso discorso sarebbe facile evincere che quel cane non stava abbaiando tanto a degli uomini, quanto in realtà a degli uomini disumanizzati: Bobby stava riconoscendo dei propri simili, ma non come uomini, bensì come animali, «esseri paralizzati nella loro specie»[26]. In generale, quindi, il discorso stesso della metafisica occidentale sarebbe imperniato su questa differenza e lì troverebbe il suo senso; solo che, conclude Derrida, non si capisce da dove proverrebbe questo assoluto silenzio e questa piatta indifferenza dell’animale reagente. Pertanto, quale ordine di ragioni avrebbe indotto la filosofia a installare il suo logos nel dominio di questa differenza? La costante e ossessiva applicazione di questa domanda nel corso dell’analisi e – al netto dell’errore di considerare uniforme la tradizione dell’umanesimo da Aristotele in giù[27] – la metodica sottolineatura della porosità della differenza uomo-animale rappresentano certo il merito più importante del testo di Derrida. Questo nella misura in cui egli riesce così a mostrare la valenza fondativa di questa differenza per l’intero discorso filosofico, ovverosia il fatto che ogni posizione filosofica fondamentale sembra doversi fondare, più o meno implicitamente, proprio su questa differenza. Ora, che ne è di questa differenza nella lettera cassireriana? È anche Cassirer soltanto un esponente di quella tradizione cieca di fronte al problema della risposta dell’animale, e che fa di quest’ultimo soltanto un vuoto genere per ciò che non è umano? È anch’egli un epigono di quella tradizione che dà per definitiva e inossidabile una differenza che così netta non lo è affatto? Domande tanto più ingombranti se si pensa che, nel testo di Derrida, Cassirer non è mai citato – e per quanto naturalmente debba essere considerato che quel quarto volume dell’opera sulle forme simboliche sia apparso in Germania solo nel 1995, cioè due anni prima dell’inizio della decade di Cerisy in cui Derrida avrebbe pronunciato il suo discorso sull’animale. Innanzitutto, dobbiamo constatare che anche la filosofia di Cassirer si muove entro questa cornice, che anzi la sua parabola sembra proprio tendere verso di essa; dicevamo, in effetti, che la filosofia delle forme simboliche culmina in una metafisica che ha alla sua base esattamente l’idea di un Geist come auto-trascendimento del Leben, e abbiamo visto che questa stessa differenza nominava proprio la differenza dell’uomo da ogni altro vivente. In un certo senso, la divaricazione Leben-Geist è inoppugnabile, e non c’è possibilità alcuna che un altro vivente oltre l’uomo penetri nel regno dello spirito, giacché l’unico mezzo per arrivare al Geist è la «Symbolgebung», e l’unico vivente in possesso di una tale facoltà è proprio l’uomo. E tuttavia qualcosa è cambiato. Abbiamo infatti lasciato in sospeso quel secondo ordine di questioni alla base del discorso cassireriano, relativo all’idea che la prestazione del logos potesse essere resa trasparente, in positivo, proprio laddove essa diviene negativamente carente. Alludevamo, dunque, a tutto quel complesso di argomentazioni di matrice neurobiologica e psicologica che aveva condotto Cassirer a una teoria della patologia del logos come grado di una fenomenologia generale dello spirito, che però muove i suoi primi passi proprio dalla considerazione dello stadio animale della vita. Da questo punto di vista, se la dimensione propriamente spirituale rimane impenetrabile per l’animale, è pur vero che la specificità dell’umano è ricavata giustappunto per via fenomenologica, ovvero mostrandone la necessaria consequenzialità, non presupponendola. A proposito di questa patologia, tra i riferimenti più importanti di Cassirer vi sono sicuramente quelli a Adhémar Gelb e a Kurt Goldstein, che nella prima metà del Novecento avevano sviluppato un modello teorico dell’afasia incentrato sulla concezione olistica del soggetto; ridotta all’osso, la loro interpretazione dei vari disturbi, che si opponeva in particolare a quella del riduzionismo psico-fisico, voleva scardinare la concezione sostanzialistica della connessione più o meno immediata fra zona del cervello danneggiata dal trauma e manifestazione di uno specifico disturbo, e piuttosto voleva portare l’attenzione sul fatto che ogni disturbo fosse il sintomo di una modificazione generale della personalità, che nei termini soprattutto di Goldstein corrispondeva alla nuova possibilità che l’organismo malato doveva escogitare per difendersi dall’angoscia procuratagli dall’incipiente inadeguatezza a soddisfare quei compiti cui lo stesso organismo era, da sano, in grado di ottemperare[28]. All’interno però dell’estrema stratificazione di questa dinamica della «self-realization», ossia relativamente al fatto che non vi sia un’unica strada che possa condurre alla cura e al raggiungimento di una nuova normalità da parte del malato, rimaneva costante un dato; Gelb, per esempio, di un malato che aveva conservato una buona percezione dei colori, faceva notare che questo stesso soggetto non era più in grado di effettuare operazioni complesse coi colori: ogni qualvolta gli si poneva il compito di riunire insieme diversi colori sotto un unico genere astratto (poniamo, differenti tonalità di rosso nella categoria di rosso), emergeva un impedimento che conduceva il paziente all’immobilità, e più spesso giustappunto all’angoscia vera e propria. Dunque, la prima conseguenza di una lesione cerebrale sembrava essere «una regressione verso un comportamento meno astratto, meno razionale, più immediato e concreto, quindi in questo senso più primitivo»[29]. Per dirla invece con Goldstein: «In certi disturbi del linguaggio, l’alterazione principale è quella dei mezzi di espressione verbale», e «bisogna insistere molto di più sul fatto che il linguaggio può anche essere modificato da un’alterazione fondamentale dell’atteggiamento intellettuale globale»[30]; all’interno di questa modificazione essenziale, la vera e autentica lesione che si manifesta è invero relativa a un atteggiamento superiore del logos, che da Gelb e Goldstein è chiamato «atteggiamento categoriale». Insomma, nello stato patologico del logos, la prima cosa che verrebbe meno sarebbe il pensiero astratto, al netto delle differenze particolari dovute alla localizzazione e all’entità della lesione. È altresì molto interessante che queste considerazioni spingano Goldstein a invocare proprio Cassirer e la sua teoria dei fenomeni originari, giacché «l’atteggiamento categoriale verso il mondo esterno e la capacità di usare parole per designare dei concetti» tradurrebbero «un solo e medesimo atteggiamento fondamentale»[31], ma non ancora essenziale rispetto alla chiave di lettura che abbiamo assunto. Più importante deve invece essere la questione che ora emerge dalla natura di questa regressione del logos: chi è l’afasico? È ancora un uomo? Sempre nello stesso saggio che abbiamo citato, Goldstein si sofferma diffusamente sulla pericolosità di interpretare quella primitività dell’afasico come vettore di avvicinamento all’animale; in effetti, si tratterebbe di un’operazione illecita, perché si misconoscerebbe con ciò un fatto assolutamente cruciale, ossia che il riadattamento, che passa per il «sapere verbale», attraverso cioè quella compensazione del deficit del pensiero astratto col sapere creato attraverso la performatività empirica del linguaggio, sia possibile soltanto se si tiene presente che c’è stato un tempo, per il paziente, in cui il linguaggio non aveva soltanto valore strumentale. Così Goldstein chiude con questa interessante annotazione:

È falso così dire che «anche allo stato animale l’uomo possedeva un linguaggio» […]. Non solo l’uomo animale non era un uomo, ma anche non possedeva questo linguaggio, che è precisamente una delle espressioni della sua condizione umana. Per acquisire questo sapere verbale, bisogna che ci si sia posti in questo atteggiamento rappresentativo, che si sia dominato il mondo con lo sguardo. Il malato non possiederebbe questo linguaggio se non fosse stato prima un uomo normale. Il malato, quando usa il linguaggio nella maniera esteriore più su descritta, sembra muoversi come un uomo senza anima in un mondo senza anima […]. Da quando l’uomo si serve del linguaggio per stabilire una relazione vivente con se stesso o con i suoi simili, il linguaggio non è più uno strumento, non è più un mezzo, è una manifestazione, una rivelazione dell’essere intimo e del legame psichico che ci unisce al mondo ed ai nostri simili. Il linguaggio del malato ha un bel rivelare un grande sapere […]; manca però totalmente di quella produttività che costituisce l’essenza più profonda dell’uomo e che non si rivela forse in nessuna creazione della civiltà con tanta evidenza come nella creazione del linguaggio stesso. Così l’essenza del linguaggio non ci appare in nessun luogo con tanta evidenza come nel malato[32].

 

Quindi non esiste soltanto una differenza fra l’uomo e l’animale, ma anche fra l’uomo sano e l’uomo malato, cioè nell’uomo stesso. In particolare, l’uomo malato non può accedere alle prestazioni più astratte del logos: per esempio, non può fare il suo ingresso nel regno delle idee: l’ontologia è un affare dell’uomo in buona salute… Certo, si potrà continuare a obiettare che anche questa ulteriore istanza diairetica presupponga la differenza capitale uomo-animale, e che non la scalfisca; argomento forse ancor più efficace se si pensa che Cassirer è un po’ meno prudente di Goldstein sul comportamento primitivo del malato. Ci sembra però a ogni modo incontestabile che la sistematizzazione cassireriana sia molto efficace segnatamente laddove quella di Derrida si arrestava al momento decostruttivo: nel tentativo infatti di sottolineare l’estrema arbitrarietà con cui la metafisica aveva tracciato la linea di demarcazione fra l’uomo e l’animale, Derrida non dice niente o molto poco su una specificità dell’umano, né tantomeno afferma che infine possa non esservi questo hapax, quasi qui a schivare inconsapevolmente la critica che Cassirer rivolge alla filosofia dell’élan vital di Bergson rispetto a quel mal posto concetto indifferenziato e intuitivo del Leben[33]. Derrida inoltre, come ricordato, non cita mai Cassirer, quantomeno ne L’animale che dunque sono, e non può così vedergli articolare la sua fenomenologia del vivente, che pur pensando ancora il comportamento animale nei termini della «reaction», in contrapposizione alla «response» umana[34], tuttavia ricava questa differenza soltanto come risultato della fenomenologia complessiva, ossia non la presuppone nella forma di un vincolo speculativo e incontrovertibile. Niente vieterebbe di pensare, in effetti, che se Cassirer avesse avuto a che fare con la certezza che il «mondo interiore» dell’animale sarebbe potuto accedere «alla forma della rappresentazione e attraverso questa alla forma originaria del sapere»[35], avrebbe potuto correggere le sue argomentazioni, e parlare di un animale come homo symbolicum. Come cercavamo di mostrare col riferimento al quarto volume postumo sulla filosofia delle forme simboliche, la differenza fra Leben e Geist è ricavata difatti soltanto nella fenomenologia che prende avvio da quell’«immediata attualità» del Leben che però nasconde un rovescio della medaglia[36], un processo che come tale non sembra partire, lo ribadiamo, da alcun pregiudizio metafisico sul vivente come quell’essere che non è dotato di ragione o sull’uomo che al contrario lo sarebbe[37] – propriamente, la vita non sarebbe nemmeno definibile fino in fondo, giacché presentandosi come pura attualità cadrebbe prima di ogni possibile essere, cioè prima dell’indicizzazione ontologica e aletica[38]. In questo senso, anche la coincidenza formale della definizione dell’essenza dell’uomo come «animal symbolicum» con quella classicamente umanistica e metafisica dell’«animal rationale», appare per l’appunto come soltanto formale, giacché nella sostanza la definizione dell’uomo come «animal symbolicum» implica ed è fondata su quella pars costruens cui nel testo di Derrida si allude soltanto: quella fenomenologia che deve illuminare le specificità del vivente[39], e che avrebbe dovuto, nell’ottica di Derrida, imporre nientemeno che una rielaborazione della Seinsfrage. An Essay on Man (1944) di Cassirer può essere considerato un fulgido tentativo di applicazione di questa fenomenologia; tutto il testo è permeato esattamente dall’ambizioso proposito di segnare una differenza fra uomo e animale, e con ciò di definire una volta per tutte l’essenza dell’uomo. Tale essenza si rivela essere radicata nella giurisdizione esclusivamente umana sul dominio simbolico; con buona pace di Fouts, seppure uno scimpanzé particolarmente intelligente possa giungere a un relativo dominio della sintassi, pur tuttavia esso non potrebbe mai accedere alla vera accezione del significato simbolico. Fouts dice che Washoe, la femmina di scimpanzé che ha seguito per anni e a cui ha insegnato un linguaggio dei segni, era giunta appunto a un dominio quantomeno rudimentale di facoltà sintattiche; il punto è che però l’accezione di significato cui si riferisce Fouts è molto ristretta, e in verità sottende più che altro una capacità astrattiva non ancora sufficiente a dichiararne l’entrata nel mondo della cultura, poiché si attesta su una semplice regola di generalizzazione empirica, che già Cassirer non negava affatto agli animali: «Washoe possedeva un organo del linguaggio fornito di tutte le regole della sintassi? O semplicemente stava imparando man mano le regole grammaticali? […] Quest’ultima spiegazione è quella più probabile. […] Un piccolo scimpanzé nella giungla ha una notevole capacità di imparare attraverso la generalizzazione. Ogni volta che apre il guscio di una noce con un martello apprende qualcosa in generale su come devono essere rotte le noci. Deve, cioè, trarre da ogni singola esperienza dei modelli standard adatti a rompere le noci, in altre parole le regole, e poi estenderle a ogni nuova situazione»[40]. Se una scimmia può trovare un principio generale per rompere le noci, non per questo si è incamminata verso l’invenzione della matematica astratta, dal momento che la peculiarità di quest’ultima è proprio partire dalla regola e dai principi come ciò che è assolutamente non empirico; in questo, l’animale rimane legato all’assoluta immanenza del suo ambiente vitale. In conclusione, seppure si voglia accettare la tesi che propende per la riduttività di una distanza uomo-animale basata sulla distinzione netta fra «logos» e «phoné»[41], di cui quella fra «symbol» e «signal» non sarebbe che una rielaborazione, e se quindi si debba esteriormente e all’inizio affermare che, sì, la filosofia di Cassirer non si distoglie dalla metafisica classica, va anche detto che il modo in cui ora si guadagna la differenza sembra essere alquanto rinnovato, rispetto quantomeno alla tradizione successiva ad Aristotele[42], perché la definizione è qui dedotta, non presupposta, arrischiata nel confronto con le scienze empiriche particolari che si occupano dell’uomo. Non c’è alcuna sanzione superiore della ragione, soltanto una diagnosi differenziale esplicita che non cade nel vuoto, e che quindi proprio per ciò stesso allunga le sue radici nel regno del vivente in quanto tale. Il passaggio è finalmente chiaro: se l’ontologia è una possibilità del linguaggio, se fonda la sua possibilità su quest’ultimo, allora essa è una metafisica del linguaggio, e allora è logica sin dall’inizio. Ma se il linguaggio definisce la specificità dell’umano, nell’ambito della fenomenologia del vivente, come quell’essere che è in possesso della facoltà simbolica, allora l’ontologia ha un fondamento antropologico. Ci affidiamo infine all’esempio vivo del testo cassireriano e allo spariglio della sua traccia, per dare una testimonianza flebile ma al contempo concreta della bontà di questa fenomenologia culturale del vivente cui in questa sede abbiamo cercato di corrispondere:

Tutti i fenomeni che sono comunemente descritti come riflessi condizionati non sono semplicemente molto lontani ma addirittura opposti al carattere essenziale del pensiero simbolico umano. I simboli [symbol], nel senso proprio del termine, non possono essere ridotti a semplici segnali [signal]. I segnali e i simboli appartengono a due universi discorsivi differenti: un segnale è una parte del mondo fisico dell’essere; un simbolo è una parte del mondo umano del significato. I segni sono «operativi»; i simboli «designativi». I segnali, anche quando compresi e usati come tali, hanno ciò nondimeno un tipo di essere fisico o sostanziale; i simboli soltanto valore funzionale. Tenendo ben presente questa distinzione, possiamo affrontare uno dei problemi più controversi. La questione dell’intelligenza degli animali è stata sempre uno dei maggiori rompicapi dell’antropologia filosofica. Sforzi tremendi, teorici e osservativi, sono stati compiuti per rispondere a questa domanda. Ma l’ambiguità e la vaghezza del termine «intelligenza» hanno sempre impedito di raggiungere una soluzione chiara. Come possiamo sperare di rispondere ad una domanda di cui non comprendiamo la portata? Metafisici e scienziati, naturalisti e teologi, hanno usato la parola intelligenza in varie e contraddittorie accezioni. Alcuni psicologi e psicobiologi hanno nettamente rifiutato di parlare di una intelligenza degli animali. In ogni comportamento animale essi vedevano soltanto la mossa di un certo automatismo. Questa tesi ha dietro di sé l’autorità di Descartes; tuttavia, essa è stata riconfermata dalla psicologia moderna. «L’animale», dice Edward Lee Thorndike nella sua opera sull’intelligenza animale, «non pensa che una cosa possa essere uguale all’altra, né, come si dice spesso, confonde una cosa con l’altra. Non pensa affatto intorno alle cose; le pensa e basta […]. L’idea che l’animale reagisca a una impressione sensoriale particolare e assolutamente definita e realizzata, e che una reazione simile di fronte ad una impressione che cambia rispetto alla prima dimostri un’associazione per somiglianza, è un mito». Successive e più esatte osservazioni condussero ad una conclusione differente. Nel caso degli animali superiori, divenne chiaro che essi fossero in grado di risolvere problemi piuttosto complessi e che queste soluzioni non giungevano in un modo meramente meccanico, attraverso prova ed errore. Come fa notare Köhler, esiste una differenza del più forte impatto fra una soluzione occasionale e una genuina, tanto che l’una può essere facilmente distinta dall’altra. Che almeno alcune reazioni degli animali superiori non siano semplicemente prodotto del caso, ma siano guidate dall’interno, pare essere incontestabile. Se per intelligenza intendiamo sia l’adattamento all’ambiente circostante o la modificazione adattiva dell’ambiente, dobbiamo certamente ascrivere agli animali una intelligenza relativamente molto sviluppata. Si deve anche ammettere che non tutte le azioni animali siano governate dalla presenza di uno stimolo immediato. L’animale è capace, nelle sue reazioni, di ogni tipo di deviazione. Non solo può imparare ad usare utensili, ma può anche imparare ad inventare strumenti per i suoi scopi. Di conseguenza, alcuni psicologi non esitano nel parlare di una immaginazione creativa o costruttiva negli animali. Ma né questa intelligenza né questa immaginazione sono di tipo specificamente umano. In breve, possiamo dire che l’animale possiede una immaginazione e una immaginazione pratica, mentre soltanto l’uomo ne ha sviluppato una nuova forma: un’immaginazione e un’intelligenza simboliche[43].


[1] Anche nell’Apologia platonica, dopo aver saputo del responso dell’oracolo da Cherefonte, Socrate comincia il suo pellegrinaggio presso i sophoi (Apol., 20c4 e sgg.).

[2] M. Scheler, Sull’idea dell’uomo (1913), tr. it. Armando, Roma s. d., p. 51.

[3] E. Cassirer, Kant und die moderne Mathematik (1907), in Gesammelte Werke. Hamburger Ausgabe (d’ora in poi GW), hrsg. von B. Recki et alii, Meiner Verlag, Hamburg 1998 e sgg., Bd. 9, p. 37.

[4] Aggiungiamo soltanto, prima di procedere, che ci auspichiamo di fornire quanto prima una giustificazione dettagliata a quanto seguirà in un vasto lavoro sulla filosofia cassireriana, che dovrebbe intitolarsi: L’autonomia del logos, e a cui ci sia concesso sin da ora di rimandare.

[5] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. Adelphi, Milano 20013, B 207, p. 320.

[6] E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff (1910), in GW, Bd. 6, p. VIII.

[7] Aristotele, Metaph., 1003a20 e sgg.

[8] E. Cassirer, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen (1902), in GW, Bd. 1, p. 97.

[9] Indicativo al riguardo anche il testo postumo Symbolbegriff: Metaphysik des Symbolischen, in Id., Nachgellassene Manuskripte und Texte (d’ora in poi NMT), hrsg. von J. M. Krois, Meiner Verlag, Hamburg 1995 e sgg., Bd. 1, pp. 261 e sgg. Va soltanto fatto notare che qui il pensiero compare come una «energia determinata», cioè manifestazione del Geist; vedremo poi a cosa corrisponde questo mutamento terminologico.

[10] Va comunque detto che è lo stesso Cassirer a esprimersi in questo modo: «La critica della ragione diviene pertanto critica della cultura» (E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen I, in GW, Bd. 9, p. 11). Sull’impossibilità del primato della storia, si veda, fra gli altri, questo passo: «Non possiamo sperare di misurare la profondità di una speciale branca della cultura umana, a meno che una tale misurazione non sia preceduta da un’analisi descrittiva. Questa visione strutturale della cultura deve precedere quella meramente storica» (Id., An Essay on Man [1944], Bd. 23, p. 77).

[11] Id., Symbolbegriff: Metaphysik…, cit., pp. 314-315.                             

[12] Id., Zum Schluß-Kapitel, in NMT, p. 232.

[13] Id., Philosophie der Symbolischen Formen I, cit., p. 7.

[14] Id., Metafisica delle forme simboliche, tr. it. Sansoni, Milano 2003, p. 52.

[15] Ibid., p. 37.

[16] Cfr. Ibid., in part. p. 11 sgg.

[17] Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), tr. it. Jaca Book, Milano 2006, p. 168.

[18] Ibid., p. 167.

[19] Il testo si trova in E. Lévinas, Difficile libertà (1963), tr. it. Jaca Book, Milano 2004, pp. 191-194.

[20] Ibid., p. 193.

[21] Ibid., p. 194.

[22] Odys., XVII, 291 e sgg.

[23] E. Lévinas, op. cit., p. 193.

[24] Id., Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1990), tr. it. Jaca Book, Milano 20024, pp. 30 e sgg. Si veda anche Id., L’umanesimo dell’altro uomo, tr. it. Il melangolo, Genova 1998, pp. 140 e sgg.

[25] J. Derrida, op. cit., p. 71.

[26] E. Lévinas, Difficile libertà, cit., p. 193.

[27] Su questo rimandiamo al saggio di N. Russo, L’uomo postumo e la sua ideologia, in M. T. Catena (a cura di), Artefatti. Dal postumano all’umanologia, Mimesis, Milano 2012, pp. 147-188, che è di particolare interesse soprattutto per quanto riguarda l’originale lettura di Aristotele proprio in opposizione a quella (non) resa da Derrida.

[28] Si veda al riguardo K. Goldstein, The Organism. A Holistic Approach to Biology Derived from Pathological Data in Man, Beacon Press, Boston 1963, in part. cap. 7, pp. 291-307.

[29] A. Gelb, Note generali sull’utilizzazione dei dati patologici per la psicologia e la filosofia del linguaggio (1933), in Il linguaggio, tr. it. Dedalo, Bari 1976, p. 90.

[30] K. Goldstein, L’analisi dell’afasia e lo studio dell’essenza del linguaggio (1933), ibid., p. 157.

[31] Ibid., p. 164.

[32] Ibid., p. 185.

[33] Si veda per esempio E. Cassirer, Metafisica…, cit., pp. 35 e sgg.

[34] Id., An Essay on Man, in GW, Bd. 23, p. 29.

[35] Id., Die Sprache und der Aufbau der Gegenstandswelt (1932), in GW, Bd. 18, p. 117.

[36] Cfr. Id., Metafisica…, cit., pp. 10-11.

[37] «Non possiamo definire l’uomo per mezzo di qualche principio innato che costituirebbe la sua essenza metafisica, né possiamo definirlo attraverso una facoltà innata o istinto che possa essere accertato tramite l’osservazione empirica. La caratteristica distintiva dell’uomo, il suo contrassegno, non è la sua natura metafisica o fisica, ma la sua opera. In quest’opera, è il sistema delle attività umane che definisce e determina il circolo dell’“umanità” […]. Sarebbe pertanto “filosofia dell’uomo” una filosofia che ci conducesse all’interno della struttura fondamentale di ciascuna di queste attività […]» (Id., An Essay on Man, cit., p. 76).

[38] Cfr. Id., Metafisica…, cit., pp. 10 e sgg.

[39] Fenomenologia cassireriana che per larghi tratti riprende le posizioni di Scheler, che aveva compiuto un gesto parallelo a quello di Cassirer (cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo [1928], Armando, Roma s. d., pp. 142 e sgg.); somiglianza di cui Cassirer rende conto in Metafisica…, cit., nota, p. 76.

[40] R. Fouts-S. Tukel Mills, La scuola delle scimmie. Come ho insegnato a parlare a Washoe, tr. it. Mondadori, Milano 1999, pp. 130-131. Lo stesso Cassirer raccomanda una certa prudenza nell’uso di categorie classiche come «istinto» e «intelligenza» per dipingere la differenza specifica uomo-animale (cfr. E. Cassirer, An Essay on Man, cit., p. 80 sgg.).

[41] Aristotele, Pol., 1253a e sgg.

[42] Diciamo questo, perché sembra che Derrida sia uno di quei filosofi incorso nell’errore già denunciato da Étienne Gilson, ossia che egli abbia completamente dimenticato il carattere biologico della vocazione filosofica aristotelica. Insomma, in questo senso Cassirer sarebbe schiettamente aristotelico, giacché pure in Aristotele quella diagnosi differenziale derivava dall’apertura alla scienza (cfr. E. Gilson, Biofilosofia da Aristotele a Darwin e ritorno. Saggio su alcune costanti della biofilosofia [1971], tr. it. Marietti, Genova-Milano 2003, p. 9 sgg.).

[43] E. Cassirer, op. cit., pp. 37-38.

 

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