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L’immagine è la realtà: tra spettri e morti viventi

Autore


Alessandra Scotti

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. L’immagine: una deformazione senza precedenti
  2. Coscienza di qualcosa o qualcosa che è coscienza?
  3. Una coscienza senza sguardo
  4. La rassomiglianza cadaverica
  5. La spettralità dell’immagine tecnologica

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Image is Reality: between Spectres and living Dead


This paper investigates the concept of image and imagination. It starts with Bergson’s theories of image in “Matter and memory” that invoke a new epistemic idea according to which the image is not more a copy of reality, but reality itself. This “philosophy of image” allow rethinking the knowledge process as impersonal, released from the concept of subjectivity. Through the analysis of Blanchot we can observe how the image is similar to deads, or better, to living deads. The image, floating between what is alive and what is dead, makes trembling any separation between the effective and not-effective, being and not-being, the virtual and the actual. Lastly for these reasons we have to rethink it.


  1. L’immagine: una deformazione senza precedenti

«La tara da cui sono affetti i personaggi di Flaubert presuppone nell’essere umano normale l’esistenza di una facoltà essenziale. Questa facoltà è il potere concesso all’uomo di credersi diverso da ciò che è»[1]. Con queste parole, uno dei massimi teorici della letteratura borghese, il francese Jules de Gaultier, battezzava la cosiddetta sindrome del “bovarismo”, uno dei nodi fondanti del romanzo moderno, e cioè della letteratura moderna nel suo insieme. I personaggi che affollano l’universo letterario di Flaubert sono ipermetropi, in qualche modo. Sono affetti da quella che si può senza dubbio definire una ipertrofia dell’organo immaginativo. Immaginano troppo. Questa immaginazione eccessiva stabilisce per prima cosa un distacco e, in secondo luogo, una deformazione specifica: una distorsione dell’immagine che hanno di se stessi rispetto a ciò che sono in realtà. Quanto più questo divario si accresce, più la forbice si slarga, tanto più l’indice di bovarismo aumenta. Tale indice è la misura della differenza fra l’immaginario e il reale, tra ciò che si è e ciò che si presume di essere. L’immagine è «quest’idea che precede la vita...»[2]. La teoria di Gaultier fu straordinariamente innovativa per la descrizione della società di metà Ottocento: per certi aspetti rivoluzionò la terminologia degli studi di critica letteraria e ha avuto il merito di perimetrare un disturbo del sé che con buona probabilità oggi ricondurremmo a sfumature di narcisismo patologico. Tuttavia, la teoria del Bovarismo resta all’interno di una concezione dell’immagine “tradizionale”. Descrive, cioè, la teoria dell’immagine per come l’immagine appariva agli uomini di quasi un secolo e mezzo fa: qualcosa d’altro rispetto alla realtà, una sua copia, un suo depotenziamento, la sua effigie. E il meccanismo sapientemente descritto da Gaultier di sovvertimento della prima – l’immagine – sulla seconda – la realtà – è comprensibile solo in questa cornice concettuale. La prima edizione di Le Bovarysme, la psychologiedans l’œuvre de Flaubert è datata 1892, appena quattro anni dopo Henri Bergson pubblicava Materia e memoria, il cui primo capitolo conteneva una teoria dell’immagine eversiva, che si allontana dallo scenario filosofico tardo ottocentesco – e in parte anche novecentesco come si vedrà nel raffronto con le concezioni sartriane – per catapultarci nella piena contemporaneità. L’immagine non è più qualcosa di diverso dalla realtà, né qualcosa che la eccede deformandola, come nel caso della menzogna romanzesca cui pensa Gaultier, ma è la realtà stessa, la crea. La situazione è sostanzialmente capovolta rispetto al discorso gaultieriano: non esiste realtà senza immagine. L’immagine è ciò che autorizza la verità a farsi tale. La realtà diventa, cioè, il negativo dell’immagine. Ma prima di scoccare la freccia del paradosso, conviene scendere nel dettaglio della teoria dell’immagine bergsoniana, così com’è avversata da Sarte e così com’è interpretata, qualche decennio dopo, da Deleuze.

 

  1. Coscienza di qualcosa o qualcosa che è coscienza?

Abitualmente affermiamo, rendendo pop un ritornello del lessico fenomenologico, che “ogni coscienza è coscienza di qualcosa”. E in questa semplice formula è racchiuso tutto il mistero dell’intenzionalità, che è già una piega della coscienza così com’è pensata da Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria. Qui non c’è intenzionalità, ma pre-intenzionalità, non c’è un apparire di qualcosa a qualcuno, ma un puro apparire. Quasi con lo sforzo di mostrare il fondamento, la condizione di possibilità della coscienza intenzionale, Bergson cerca di ricostruirne la genesi sul piano dell’esperienza pura, non ancora scandita dalla dinamica soggetto/oggetto. Vale a dire che questa coscienza non è riverbero del fuori, bensì è già il fuori: è la “polvere secca del mondo” come direbbe Sartre. Questo dato di fatto, questo piano certo e primario della coscienza precede anche la dicotomia fra idealismo e realismo. La materia-coscienza, non a caso, è definita da Bergson come l’insieme delle immagini. L’immagine è il grado zero, è un magma indistinto di materia-coscienza. Un’immagine in sé, cosciente, è un paradosso al quale Bergson non poteva, e non voleva forse, sottrarsi. Sull’immagine, infatti, regna un’interdizione che ha sedimentato per secoli nella tradizione metafisica[3]. Siamo davanti a un evidente cortocircuito mentale di fronte al quale Sartre arretra e dissimula, tacciando di realismo la posizione bergsoniana. Ne L’immaginazione il filosofo concepisce l’immagine non come una cosa, viceversa come una certa modalità tramite la quale ogni cosa ci è data, il cammino dell’oggetto apparso alla coscienza. È evidente che tale nozione d’immagine sottintende e non oltrepassa il dogma dell’intenzionalità; l’immagine, così intesa, è nient’altro che un’appendice dell’intenzione di chi la crea. Quindi, se per Sartre l’immagine è una forma di coscienza, per Bergson la situazione è invertita: la coscienza stessa è un’immagine e, dato che essa è identificata con la materia grezza, la coscienza è qualche cosa. In questo senso, Bergson guarda certamente oltre la nozione di immagine di Gaultier, Sartre e del mondo moderno. Non a caso, questa serie infinita di tutte le immagini costituisce ciò che Deleuze chiamava il piano di immanenza. In effetti sarà proprio Deleuze, nei suoi saggi su Il bergsonismo, a sottolineare la profonda rottura con la tradizione filosofica: il processo gnoseologico si attua in maniera inversa rispetto ai paradigmi noti, non è una sorta di fascio di luce che va dalla coscienza, dall’esprit, fino a illuminare le profondità oscure della materia, traendola da una zona di indiscernibilità, bensì sono le cose in loro stesse a essere luminose, senza che nulla le rischiari. Per tale ragione alcuni interpreti hanno messo in risalto come la via bergsoniana sia straordinariamente affine alla via del cinema. Il giudizio appare risibile, dato che Bergson è passato alla storia come il filosofo dell’anti-cinema, a causa della nota critica contenuta nel quarto capitolo de L’evoluzione creatrice. In quella sede il cinema o, meglio, il cinematografo, veniva accusato di spazializzare il tempo originario, di riprodurre tramite un artifizio una erronea concezione del movimento. Ma il Bergson di Materia e memoria ha dato vita, forse inconsciamente, a un’autentica filosofia dell’immagine, un’ontologia del cinema. Cos’è il reale in se stesso, l’assoluto del cambiamento se non un insieme di immagini, un immenso spettacolo privo di spettatore? Il cinema – come la fotografia – sono dispositivi impersonali, che restituiscono la bellezza dell’on pense; in un’epoca filosofica, come quella attuale, dove il paradigma della soggettività ha mostrato tutte le sue criticità, occorre ripensare il processo gnoseologico in termini genetici e conferire all’immagine uno statuto altro rispetto all’essere copia di. La storia stessa, isterica, si manifesta o procede per immagini. L’immagine è il Dna della storia.

 

  1. Una coscienza senza sguardo

Un processo senza soggetto, così intendeva il materialismo storico Louis Althusser, una formula felice che può essere riutilizzata per descrivere l’atto gnoseologico di cui Bergson aveva avuto il presentimento. Descrivere un processo coscienziale privo di sguardo, assolutamente impersonale. Ma facciamo un passo indietro. Qual è lo statuto dell’immagine che è ragionevole dedurre dalla breve analisi condotta? L’immagine non si definisce a partire dalla negazione, non è una non-realtà. La sua condizione è quella della neutralità. Si situa nella soglia della doppia negazione “né...né” e quindi sfugge alla dimensione della negazione determinata. L’immagine sembra l’originale ma in realtà ha uno statuto di autonomia: essa può diventare la cosa. Si tratta di un’idea radicalmente anticartesiana. Blanchot, a tal proposito, parla di seconda versione dell’immagine o dell’immaginario. Nella prima versione dell’immaginario ci troviamo in un rapporto di padronanza, così lo definisce Blanchot, in cui all’immaginario si impongono schemi e limiti umani. Il famoso fascio di luce che va dalla coscienza alla cosa. La seconda versione dell’immaginario accantona questa relazione di padronanza e descrive, viceversa, un rapporto di fascinazione: essa sospende la produzione di significati e in quest’intervallo si mostra l’assenza d’opera, désouvrement, come arché dell’attività stessa dell’operare. La relazione fra la coscienza e l’immagine, quella che origina il linguaggio, non è un potere, ma un potere di non, una sospensione, una relazione con l’impossibilità. Il potere è inversamente proporzionale al lavoro, al movimento necessario per ottenere qualcosa. Minore è lo sforzo, più blanda è l’azione compiuta, maggiore è la potenza. Se la visione e la conoscenza consistono nell’esercizio di un potere sui loro oggetti, la scrittura – secondo Blanchot – produce un rovesciamento per cui si è colpiti da ciò che si vede, nel caso dello scrivano le parole guardano chi scrive. La fascinazione nella scrittura è ciò che Blanchot chiama ne Lo spazio letterario, «vivere un avvenimento in immagine»[4]. Scrivere, per Blanchot, è essere avvinti, soggiogati dall’immagine. Nella fascinazione la spontaneità della coscienza perde la sua autorità di fronte all’avvento dell’immagine.

 

  1. La rassomiglianza cadaverica

Blanchot sceglie la spoglia mortale come forma esemplare di immagine e della fascinazione di tal genere. Come l’immagine, il cadavere sfugge alle categorie comuni: non è né il vivente, né altro dal vivente; la maniera di “essere” del cadavere non inerisce semplicemente al dominio del non-essere, ma resta come sospeso. E si riflette in quel senso di spaesamento (Das Unheimliche direbbero i tedeschi) che tutti noi almeno una volta abbiamo provato guardando le spoglie di una persona amata: sembra ancora lei e già qualcosa di diverso. Il cadavere si situa nell’entre-deux che separa e riunisce la vita e la morte, così come l’immagine riempie uno spazio insolito e inquietante fra la realtà che cerca di rappresentare e la trasposizione nell’immaginario. Il cadavere doppia il vivente, gli assomiglia perfettamente senza tuttavia assomigliargli. In che relazione sta il vivente col cadavere? È un rapporto di omonimia o sinonimia? C’è un genere comune che tiene insieme il cadavere e il vivente? La relazione che esiste è di omonimia, è la differenza pura e perturbante. Fra me e il mio cadavere non ci sono termini medi. Il cadavere è l’immagine, ma non l’immagine del vivente che fu. Rassomiglia, ma tale rassomiglianza contiene in sé la più profonda differenza. In tal senso sono esseri di pura affermazione e ciò che affermano è la differenza pura. Essi portano a espressione quanto vi è di liminare nell’esperienza. La paradossale esperienza di morte è ciò di cui facciamo esperienza anche nell’atto della scrittura. Non a caso Platone, nel Fedone, definiva i filosofi come i non vivi. Lo scrittore, l’opera, sono dei “morti-viventi”, degli zombie. In tal senso il punto d’origine, di uno scrittore, o di un’opera letteraria, è la trasformazione stessa, la deformazione. L’opera è sempre esperienza oscillante fra la morte e la vita. Essa misura la distanza infinita fra la vita e la morte, è l’“on”, il sé impersonale, inaccessibile e lontano. Come nel mito di Orfeo, l’atto della scrittura è ogni volta una discesa negli inferi. Ecco che a fare da comun denominatore di questa esperienza metaforizzante del morto vivente è l’esperienza pura, senza soggetto e senza oggetto, per cui noi sentiamo che la nostra vita è erosa dalla sua immagine omonima. I morti viventi ci perturbano perché ci rendiamo conto che il cinema, il video, l’immagine spettrale, la pura immagine, liberata da referenza, ci aspetta al varco.

 

  1. La spettralità dell’immagine tecnologica

Abbiamo cominciato questa breve disamina con l’osservazione di come la teoria dell’immagine si sia evoluta nell’ultimo secolo e mezzo: l’immagine non solo non è copia della realtà, ma è la realtà stessa, è produttrice di realtà. L’immagine come un in sé che è per sé: questa è, esattamente, la definizione che Deleuze dà del virtuale e «una vita contiene solo virtuali. È fatta di virtualità, eventi, singolarità»[5]. In Spettri di Marx Derrida declina la spettralità come la caratteristica dell’orizzonte contemporaneo della tecnica, dove bisogna pensare la virtualizzazione dello spazio e del tempo; d’altronde la tecnologia ci consente di fare quotidianamente esperienza di questa logica spettrale, di un pensiero abitato dalla morte, di una presenza vivificata dall’assenza, di una vita come differenza infinita. Uno degli aspetti più interessanti dell’attualità come tecnologicamente prodotta è, infatti, la sua dimensione di actuvirtualité: essa presenta un aspetto sintetico o artificiale e una dimensione virtuale che non è possibile opporre alla realtà attuale, poiché indice profondamente sul tempo e sullo spazio dell’immagine. La dimensione sempre più invasiva del live è colta per essere diffusa ovunque, questa polarità del prossimo e del lontano esisteva già con il teatro e con la scrittura, ma essa attiene oggi a una dimensione inedita che ne amplifica la spettralità. Così, il campo della percezione, e dell’esperienza in generale, ne è profondamente trasformato. È per tale ragione che Deleuze, prima di iniziare il suo Abécédaire, afferma di sentirsi già ridotto allo stato di puro archivio, prima ancora di avere iniziato l’intervista. La ripresa e la registrazione “virtualizzano” l’intervistato, che è innanzitutto messo a confronto con la sua morte e la scomparsa del suo corpo nel dispositivo mediatico. Pertanto, Deleuze assume un atteggiamento per così dire postumo, per far fronte a questo difficile esercizio di virtualizzazione del sé, decidendo che le risposte, la sua personalissima declinazione dell’alfabeto, dovrà essere vista e ascoltata solo dopo la sua morte. E nel riascoltare la sua voce, la sua risata, le “blagues” con Claire Parnet, nel vedere la sua presenza fisica divenuta così iconica riflessa su uno schermo, sembra di trovarci di fronte a un morto vivente che fa riecheggiare la sua voce dall’al di là. La sua immagine, sospesa fra ciò che è vivo e ciò che è morto, la sua immagine spettrale, fa tremare ogni distinzione fra l’effettivo e il non-effettivo, il reale e l’irreale, il vivente e il non-vivente, l’essere e il non-essere, il virtuale e l’attuale. L’immagine fa tremare ogni differenza: per questo motivo è indispensabile ripensarla. Non si scappa: per spiegare il senso della virtualizzazione generalizzata contemporanea bisogna ripensare il concetto di immagine e di immagine tecnicamente prodotta. Ridiscendere negli inferi come Orfeo e, stavolta senza imitarlo, non volgersi all’indietro.

 


[1] J. de Gaultier, Il bovarismo, tr. it. SE, Milano 1992, p. 18.

[2] Ibid., p. 25.

[3] Come nota M. Merleau-Ponty: «la parola immagine ha una cattiva fama», L’occhio e lo spirito, tr. it. SE, Milano 1989, p. 21.

[4] M. Blanchot, L’Espace littéraire, Gallimard, Paris 1995, p. 352 (traduzione mia).

[5] G. Deleuze, Immanenza Una vita…, tr. it. Mimesis, Milano 2010, p. 12.

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