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Apprendimento, Cognizione e Tecnologia

Autore


Rosa Spagnuolo Vigorita

Università degli Studi di Napoli Federico II

Ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


Convegno di Mid-term dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive

Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Napoli Federico II 16-18 Maggio 2016

 

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S&F_n. 15_2016

Abstract


Learning, Cognition, Technology


This report aims to analyze how the development of technological artefacts can give a remarkable support to various aspects of cognitive science. Specifically, the attention is focused on the tricky relationship between mind, body, environment and material culture in interpreting aspects of cognition. The first part gives space to the way assistive technology would ensure, to individuals with limited mobility and extended sensory disabilities, a significant improvement of living opportunities. The second part considers the essential questions about the impact that the progressive decline of real interaction, in favor of educational technologization, could involve for human evolution.


  1. Considerazioni introduttive

«Le componenti più importanti della nostra immagine e della nostra conoscenza dell’effettualità, come appunto l’unità personale di vita, il mondo esterno, gli individui fuori di noi, la loro vita nel tempo e la loro influenza reciproca, si possono spiegare tutti a partire da questa intera natura dell’uomo, il cui reale processo di vita ha nel volere, nel sentire, nel rappresentare solo i suoi diversi lati» (W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Milano 2007, p. LXI).

Quasi due secoli fa Dilthey chiedeva alle scienze dello spirito di lasciarsi alle spalle le false profondità della ragione astratta, per provare a penetrare, in una prospettiva del tutto asistematica, la proteiforme effettività del ganzer Mensch, nella variabilità delle sue circostanze particolari, nell’inarrestabile fluidità dei suoi vissuti inoggettivabili. Abbandonata ogni tendenza alla cementificazione logica, le scienze umane, in una sinfonia d’intenti, cominciavano a rivolgersi a quell’uomo «tutto intero» che, a partire dalla concretezza dalle sue connessioni intersoggettive, sarebbe stato pronto a lasciarsi comprendere nella propria complessità fisica, psichica, storica e sociale.

A fare da sfondo ai molteplici ed eterogenei lavori presentati nel corso del Convegno Apprendimento, cognizione e tecnologia, tenutosi presso l’Università degli studi di Napoli Federico II dal 16 al 18 maggio 2016, sembrerebbe proprio quella tensione tipicamente diltheyana a cum-prehendere, attraverso un approccio multidisciplinare, le pluralistiche manifestazioni dell’umano e del suo intricato rapporto con il mondo. Come l’esterno agisce sull’interno modificandone le risposte adattive, come le esigenze individuali stimolano nuove forze creative a livello sociale: da sempre, le scienze cognitive si muovono lungo il percorso segnato dalla movimentata dialettica tra l’io e l’ambiente. In un’evoluzione senza sosta, il gioco di forze tra pubblico e privato giunge, nel solco del villaggio globale, alla sua massima problematicità e impone, alla scienza della mente, ipotesi di risposta che stiano al passo con i quesiti che la scienza dell’artificiale stabilisce. È quanto si prefigge l’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (AISC) che, in collaborazione con il Natural and Artificial Cognition Lab (NAC) compie delle significative valutazioni circa la risonanza delle nuove tecnologie sulle strutture mentali e comportamentali degli individui e della collettività. Intervallate da simposi tematici di approfondimento, le 45 relazioni presentate al convegno dell’AISC-midterm 2016 fanno il punto sugli sviluppi teoretici e pratici che la ricerca, allo stato attuale, ha prodotto. Psicologia, filosofia, linguistica, biologia, ingegneria, informatica, sociologia. La multilateralità della vita e delle sue forme prescrive, agli studi condotti, una vitale necessità: sfruttare i benefici di una metodologia integrata che, alla sterile parcellizzazione del sapere, prediliga quello sguardo d’insieme sull’umano che, per dirla nuovamente con Dilthey, «è il punto d’intersezione (Kreuzungspunkt) di una pluralità di sistemi che si specializzano sempre più finemente nel decorso della cultura nel suo progredire» (ibid., p. 99). Lo stesso Dilthey ammoniva, tuttavia, che qualcosa, a quello sguardo onnicomprensivo, si ribella sempre. È l’inaccessibile zona d’ombra che vive sopita in ogni Erlebnis, come uno scarto inesprimibile e inespresso, un residuo di vissuto destinato a restare illeso come un segreto non violato. Ecco come le scienze cognitive, a torto o a ragione, tradiscono, per certi versi, la lezione diltheyana e provano a spingersi nello spazio sacro di quel resto inattingibile che, estrapolato dal suo magmatico movimento, si irrigidisce negli scomparti dell’indagine statistica.

 

  1. Oltre i confini del corpo. Disabilità e tecnologia incarnata

A fare da apripista è Giulio Lancioni, professore di Psicologia Generale dell’Università Aldo Moro di Bari, che presenta una relazione sulla cosiddetta assistive technology, un insieme di soluzioni tecnologiche che garantirebbero, ai soggetti affetti da difficoltà motorie estese e disabilità sensoriali, un significativo incremento del proprio livello di attività e, di conseguenza, un miglioramento generale delle opportunità di vita. Il programma, volto a promuovere risposte adattive in casi di dipendenza passiva, si fonda sui cosiddetti microswitch, diversi tipi di sensori che, associati a un sistema computerizzato, sono in grado di trasformare reazioni pressoché impercettibili quali piccoli vocalizzi o movimenti accennati del corpo, in risposte funzionali. Ne consegue, a seconda dei casi, la stimolazione del soggetto all’autocontrollo sulla propria postura, la promozione di attività ricreative e di comunicazione autonoma, l’incoraggiamento della deambulazione e della capacità di scelta tra due opzioni. Attraverso la mediazione di queste «protesi umanizzate», la sfasatura tra interno ed esterno sarebbe così riequilibrata: le tecnologie assistive sembrano poter restituire, all’individuo, la facoltà di avanzare delle pretese minime dall’ambiente e di ottenere – per ricorrere al leitmotiv di ogni indagine psicologica che si rispetti – performances soddisfacenti. Ma lo studio condotto non si accontenta di dimostrare la possibilità di apprezzabili prestazioni attraverso l’uso di supporti. «Durante una sessione con microswitch applicati ai piedi per sollecitare la deambulazione», spiega Lancioni, «abbiamo rilevato che l’aumento del numero di passi legato alla curiosità cognitiva artificialmente creata, conduce alla crescita degli indici di felicità del soggetto». Segue grafico, perché nulla sia lasciato al caso ed ecco che una tabella ben strutturata ci informa che, anche la felicità, finisce per dipendere dall’eteronomia di un destino.

Nel futuro segnato dal transumaneismo, nessuna traccia di malfunzionamenti e malattie, dunque. Le carenze fisiche e mentali potranno essere ripristinate, forse del tutto, dall’azione demiurgica dell’embodied technology, la tecnologia che si fa corpo e che, in quel corpo, ci resta come un’inamovibile estensione. Ma, proprio mentre il progresso simpatizza con le aspirazioni superomistiche che la nuova era disvela, la confusione tra endogeno ed esogeno lascia il campo a inestricabili questioni morali sul senso dell’essere human. Uno dei suoi nuovi volti, per esempio, si chiama VEST, acronimo di Versatile Extra-Sensory Transducer, un device di sostituzione sensoriale che, indossabile come una specie di canottiera, è in grado di captare le onde sonore e tradurle in vibrazioni. L’invenzione, firmata dal neuroscienziato David Eagleman, stravolge la natura della comunicazione. Ai non udenti, verrebbe infatti restituita la percezione sensoriale perduta, attraverso un sistema di stimolazione tattile, attivata su quella che diventa, a tutti gli effetti, una «seconda pelle» dell’individuo. Del resto, in Understanding Media. The Extension of Man, Marshall McLuhan lo aveva annunciato: i media divengono vere e proprie «estensioni dell’organismo», spalancando la strada alla «narcosi dei sensi». In altre parole, quando affidiamo le nostre funzioni alla tecnologia, cessiamo di svolgerle biologicamente e, col tempo, quelle stesse funzioni diventano parte integrante della nostra cognizione[1]. È la questione affrontata da Francesco Parisi dell’Università di Messina che, nel più ampio contesto del focus dedicato a La misura del carico cognitivo in prospettiva multidisciplinare, si sofferma, più da vicino, sul modo in cui le tecnologie abbiano ridisegnato l’interazione tra la mente e l’ambiente e siano divenute costitutive dei processi cognitivi. Se quella di McLuhan, negli anni ’60 del secolo scorso, suonava come poco più che una provocazione, alla luce dei recenti sviluppi, può senza dubbio considerarsi un pronostico lungimirante ed è proprio su questo terreno che si muove l’ipotesi di Parisi. Nel 1998 Andy Clark e David Chalmers introducevano il concetto di extended mind: se qualcosa, al di fuori della mente, svolge un ruolo che se avvenisse nella mente chiameremmo cognitivo, allora potrà considerarsi esso stesso cognitivo. È a partire da questo assunto marcatamente esternalista che è possibile provare a dimostrare, sulla base della «metaplasticità» del cervello, come gli individui siano biologicamente strutturati per ricevere le tecnologie e, in ultima analisi, per inglobarle al proprio corpo come se fossero, da sempre, parte integrante di esso. Attraverso l’inserimento di protesi, spiega infatti Parisi, lo spazio peripersonale di un individuo viene alterato in modo tale da provocare una reazione dei neuroni che, attraverso una riorganizzazione funzionale, si dispongono all’accoglienza di quella che si trasforma in un’espansione del proprio apparato cognitivo e percettivo. L’astrattezza tipica della tradizione mentalistica della cognizione è ormai un lontano ricordo: le esigenze della contemporaneità reclamano un approccio di tipo enattivo, in cui la reciprocità di mente, corpo e ambiente, riconfiguri, nel profondo, la dinamica dell’agire cognitivo. Le sempre più frequenti applicazioni dell’elettromagnetismo, forza che il nostro cervello condivide con il mondo, al sistema protesico, forniscono una concreta testimonianza della capacità adattiva dell’io alle incitazioni provenienti dall’esterno. L’interfaccia mente-macchina creato dal neuroscienziato brasiliano Miguel Nicolelis è, in questo senso, eloquente. L’esperimento in questione è iniziato con una scimmia addestrata a usare un joystick per giocare e ottenere, per ogni bersaglio colpito, un sorso di succo d'arancia. A fronte di un migliaio di tentativi al giorno, Nicolelis e il suo team di ricerca hanno registrato le «tempeste cerebrali» prodotte dal primate per inviarle, poi, a un braccio robotico che, intanto, imparava a riprodurre quegli stessi movimenti. Eliminato l’uso del joystick è stato dimostrato che la scimmia era capace, ugualmente, di controllare l’arto robotico per muovere il cursore e intercettare il bersaglio. Attraverso il controllo di un dispositivo artificiale, ormai divenuto un ulteriore braccio, l’intenzione cerebrale ha potuto espletare la sua azione sull’esterno, al di là dei vincoli del corpo.

Ebbene, mentre artifici e natura si sfidano in una partita senza vincitori né vinti, sfuggono, sempre più, le regole del gioco. Ma una domanda, in mezzo alle vertigini che il progresso lascia intorno e davanti a sé, si insinua col suo sapore un po’ retorico: dove l’autodeterminazione trabocca nell’automatismo, chi definisce i confini del biologico? Forse, come ha osservato il professor Mario Costa, «ci stiamo solo affannando a mantenere in vita il nostro ottuso corpo». Forse ancora, a generare tante incertezze sul potenziamento dei sistemi robotici interattivi, è semplicemente l’estrema difficoltà ad accettare l’imprevisto che è nel cambiamento. Rinunciare alla confortevole idea del sé e del modo in cui, da sempre, lo si era immaginato. Essere pronti a ospitare, nella propria stessa carne, l’infiltrarsi di innesti sintetici come complementi aggiuntivi e, se un significato di identità ancora esiste, essere pronti ad accoglierlo, nei suoi più traumatici risvolti. Quante pretese avanza il futuro proprio mentre altrettante speranze alimenta.

 

  1. Verso una metamorfosi dell’apprendimento

Fatte salve le sue derive disumanizzanti, c’è – bisogna ammetterlo – qualcosa di estremamente democratico nel progresso tecnologico e nelle sue garanzie di una qualità di vita migliore, specie quando si tratta della sua azione sulle dinamiche dell’apprendimento. L’uso dell’Eyetracker nell’analisi e nel trattamento di disturbi specifici come la dislessia, rappresenta soltanto uno dei casi in cui le nuove tecnologie potrebbero dimostrarsi un valido supporto, al fine di rimodulare, in maniera ottimale, l’ambito dei sistemi educativi. È l’ipotesi principe di Nicole Dalia Cilia e di Domenico Guastella (Università di Roma), che hanno focalizzato la loro indagine sulla potenziale efficacia di questo strumento di monitoraggio dei flussi saccadici, in soggetti che denotano un’alterazione delle normali capacità di acquisizione concettuale. Nonostante non ci si possa affidare a una spiegazione eziologica esaustiva della dislessia, secondo Cilia, la sempre più accreditata idea che si tratti di un deficit oculomotorio, legittimerebbe l’utilizzo dell’Eyetracker a scopo riabilitativo, tanto nella fase di training (attraverso la rilevazione «online» degli effettivi tempi di fissazione durante la lettura), quanto in quella di assessment (attraverso l’individuazione del tipo specifico di dislessia).

In tema di sovversione rispetto ai sistemi riabilitativi tradizionali, degna di menzione, sia pur con qualche riserva, è l’ipotesi circa l’efficacia dei Serious Game sul riconoscimento e la regolamentazione delle emozioni, nei soggetti affetti da autismo. Per dirla in termini da DSM-V, il Vangelo della psichiatria cui si ricorre sempre in fatto di disordini mentali, computi ed etichette, l’ASD (Autism Spectrum Disorder) comporta, in estrema sintesi, un deficit persistente nell’interazione sociale e nella reciprocità emotiva, che conduce all’insorgenza di comportamenti problematici e di strategie non adattive. Nello specifico, studi neuro-fisiologici concorderebbero nell’individuare il punto focale del disturbo, in una maggiore lentezza, commista a una minore accuratezza, nell’identificazione delle emozioni. Configurate per «sfruttare la motivazione intrinseca del giocatore all’utilizzo della tecnologia» e per favorirne l’apprendimento, le moderne piattaforme di gaming potrebbero rivelarsi d’aiuto. A parlarne è Elisa Leonardi, del CNR dell’Università di Messina: «L’implementazione di questi giochi ha evidenziato che attraverso la programmazione dei software, si possono strutturare situazioni a complessità crescente secondo l’accuratezza e i tempi di risposta del giocatore, utilizzando la stimolazione visiva e uditiva come rinforzatori». Jestimule, FaceSay, Sintavillie, CopyMe sono solo alcuni nomi dei nuovi «mediatori di conoscenza» che promettono di ridare il giusto peso alle emozioni. Non importa se questo avvenga a discapito dell’interscambio soggettivo e a favore dell’acutizzarsi di tendenze all’esclusione. Nel solipsismo di una bolla virtuale, degli «agenti sociali» artificiali indicano, ai pazienti con ASD, cosa e come è giusto sentire: tutto, purché l’agognata strada verso il Typical Development (TD), appaia più breve.

Ma, dietro l’astrattezza di enigmatiche sigle, è forse legittimo chiedersi dove scompaia la specificità individuale, chi stabilisca il discrimine tra la tipicità e l’alterazione e, soprattutto, cosa sia rimasto della componente naturale di un rapporto sociale. Intanto, a riempire i vuoti di senso che questi interrogativi si lasciano alle spalle, ci pensa il proliferare di altisonanti espressioni come «potenziamento delle soft-skills», «incoraggiamento della capacità di problem solving, team working e time managing», che dovrebbero rappresentare plausibili motivazioni a favore della tecnologizzazione dei sistemi educativi.

Il grande mismatch tra le nuove competenze richieste dal mondo del lavoro e la formazione garantita dal sistema scolastico classico rappresenta un altro potente sprone che spinge in direzione di un decisivo rimodernamento della didattica. A spiegarlo è il presidente dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE), Giovanni Biondi, che puntualizza come l’anacronismo del modello ottocentesco a cui la scuola italiana resta, a tutt’oggi, ancorata, necessita di essere definitivamente arginato. Uno degli obiettivi di INDIRE è quello di porre in atto una riorganizzazione degli spazi, dei tempi e dei contenuti che risponda all’esigenza di rendere meno astratti i processi di apprendimento e che si affianchi, senza alcuna pretesa di sostituzione, al modello tradizionale di insegnamento. A chi si mostra perplesso circa le ricadute della digitalizzazione sul livello culturale degli studenti, Biondi risponde senza esitazioni: «il computer dona la possibilità di penetrare, come nient’altro, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo e, soprattutto, consente di esplorare, in tempo reale, i più svariati contenuti artistici. Il digitale rende possibile vivere il tempo e lo spazio in maniera differente». Per i fondatori di INDIRE, dunque, nessun timore riguardo all’ ipotetico livellamento cognitivo implicato dall’avanzare tecnologico. Quella del futuro, sarà forse l’immagine di uno studente che si sbarazza del carattere intangibile della conoscenza per dimostrare, finalmente, «ciò che sa con ciò che fa».

È questo l’assunto condiviso dalla federazione di progetti per la scuola primaria che va sotto il nome di INFANZIA DIGI_ t@les 3.6 e che si propone di potenziare le pratiche tradizionali di apprendimento, con il supporto di nuove metodologie digitali. Considerata la fascia d’età di riferimento cui il programma si rivolge, sono forse legittime le perplessità che il sistema famiglia-insegnanti avanzerebbe circa i rischi implicati, per lo sviluppo cognitivo, affettivo e sociale del bambino, dall’educazione alle nuove tecnologie. Tuttavia, come invita a riconoscere il professore di Psicologia Generale della Federico II Orazio Miglino, «bisogna prendere atto che, dai 3 ai 6 anni, la tecnologia si è ormai già imposta. La vera sfida, in questo senso, diviene quella di sfruttarne al meglio le potenzialità, al fine di implementare le pratiche didattiche tradizionali». L’obiettivo, dunque, non si traduce in una presunta deformazione del sistema scolastico classico: la proficua connessione tra mondo fisico e digitale, che fa da sfondo all’utilizzo delle interfacce naturali, lo testimonia con chiarezza. A spiegare, più nel dettaglio, i caratteri propri di questo dinamico approccio è Raffaele Di Fuccio dell’Università Federico II: «il metodo Montessori, nel privilegio conferito all’interazione con l’ambiente fisico, rappresenta il modello di riferimento del progetto. INFANZIA DIGI_t@les si pone come obiettivo principale la promozione dell’autonomia creativa dei bambini, attraverso forme di laboratorio volte a stimolare, appieno, la multisensorialità». Canali percettivi troppo spesso trascurati dalle pratiche educative convenzionali divengono, così, parte integrante di un rivoluzionario metodo all’apprendimento in cui odori, sapori, suoni, valorizzati da applicazioni digitali, convivono, in un’inedita armonia, con la tecnologia.

Quando opera nel rispetto di quella natura che ancora agisce in noi, il futuro – è il caso di dirlo – fa senz’altro meno paura. Rimane il fatto che delegare, anche parzialmente, emotività e cognizione, a tablet e sistemi computerizzati, origina degli imprescindibili interrogativi sulle ricadute che la progressiva diminuzione di interazione reale comporti per l’evoluzione cerebrale di bambini e adolescenti. Per Yvonne Vezzoli, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, una cosa è certa: «l’interazione sociale con una persona reale sembra restare critica per almeno alcuni tipi di apprendimento, suggerendo che presentazioni virtuali statiche finalizzate a insegnare ai bambini potrebbero non essere associate a  un apprendimento ottimale». La reciprocità dello scambio umano resta, fino a prova contraria, uno degli strumenti più potenti per l’apprendimento.

Non sembrano dello stesso parere gli ideatori del progetto EduTechRPGR (Technologically Enhanced Educational Role Play-ing Game for soft skills training), il cui caposaldo risiede proprio nell’associazione di metodi psico-pedagogici ad ambienti squisitamente virtuali. Finanziato dalla Commissione europea, questo ambito di ricerca si propone di sviluppare piattaforme di giochi di ruolo online, finalizzate a stimolare, al meglio, le competenze trasversali (soft-skills) dei giocatori. Drama, Role, Communication, Simulation-based: questi i possibili modelli che dominano scenari di gioco, costruiti ad hoc per inserire l’utente in un meccanismo di simulazione della vita reale, in cui la presenza costante di un sistema di tutoraggio, spesso delegato ad agenti artificiali, conduce a una netta ridefinizione del classico rapporto formatore-discente. È il caso specifico di ENACT, la piattaforma di role playing game, volta all’assessment di skills di negoziazione e conflict resolution che, come spiega il professor Davide Marocco, condurrebbe a un significativo passaggio dall’autoreferenzialità della valutazione all’osservazione del modo in cui l’utente agisce in situazioni concrete. Le infinite variabili che entrano in campo nei processi decisionali e nelle dinamiche intersoggettive fanno dunque spazio a quella che, in riferimento alla relazione con l’artificio di una macchina, Marocco definisce, senza riserve, una «situazione protetta». A dimostrarlo è la significativa quanto dolorosa constatazione di quanto il livello di comfort manifestato dagli utenti sia, durante la fase di gioco online, di gran lunga maggiore rispetto al corso dell’interazione con un essere umano giudicante. La serie limitata di combinazioni esperienziali che l’intelligenza artificiale propone, per quanto vasta, risponde, forse, a un angosciato bisogno: quello di restare aggrappati al rassicurante regno del finito.

A ridurre la problematicità del faccia a faccia ci pensa anche EUTOPIA, la piattaforma 3D realizzata dal NAC della Federico II, che consente la creazione di giochi di ruolo online, indirizzati a facilitare il processo di formazione a distanza. Il programma implica la partecipazione di più giocatori, ognuno con lo schieramento delle proprie abilità, e prevede uno scenario ideato da formatori che, sulla base di scopi personalizzati, dettano ai clients le linee guida da seguire. Di norma, puntualizza la ricercatrice Barbara Benincasa, «piccoli gruppi interagiscono attraverso sistemi di comunicazione quali chat o email in cui vengono fornite indicazioni circa il progressivo stato emotivo e il tono della conversazione. Un programma di videoregistrazione consente poi al tutor di revisionare quanto accaduto durante la sessione di gioco e di lasciare dei feedback, affinché il soggetto sviluppi la consapevolezza delle carenze sulle quali deve lavorare».

Il senso di quel tradimento inferto a Dilthey e alla sua interpretazione di esperienza vissuta è tutto qui. Che si tratti di giochi con agenti reali, virtuali o di forme ibride nate dal loro incrocio, ancora una volta, pur nell’indiscussa validità di questi progetti di ricerca, uno scopo, forse inconsapevole, si ripresenta con evidenza. È il tentativo disperato di costringere la complessità dell’agire, del sentire e del conoscere, negli angusti spazi del calcolo probabilistico e dell’indagine quantitativa che, per quanto si pieghino alle esigenze della personalizzazione, restano il più grande inganno teso all’eterogeneità dell’umano. I sistemi di apprendimento adattivo hanno senz’altro il merito di stimolare le più sopite potenzialità degli individui e di condurli verso ambiti inesplorati. Ma è proprio mentre volta le spalle al passato che l’io potrebbe ritrovarsi, a sua insaputa, rigettato al di qua di se stesso e della sua emotività. Nonostante le nuove piattaforme di comunicazione e di formazione online dichiarino fedeltà alla singolarità e apertura alle sue molteplici possibilità, gli algoritmi su cui si fondano svelano un’inclinazione all’uniformità che, almeno in parte, sottrae fluidità all’esistere e restituisce – almeno così pare – l’immagine perfetta di una vita «in vitro»: alternativa conveniente, forse non altrettanto convincente, all’insostituibile imprevedibilità che lo stare al mondo comporta.

 


[1] Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), tr. it. il Saggiatore, Milano 1967.

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