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La presenza tra apokálipsys ed éschaton. Sul dramma antropologico di Ernesto de Martino

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. La presenza: il mai deciso e il sempre deciso
  2. All’ombra dell’apocalisse
  3. Apocalissi senza éschaton?

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This paper intends to show the constant interest of Ernesto de Martino in the problem of the apocalypses. In any historical time any presence in the world, any Dasein, seems to be exposed to the risk of a crisis. By crisis de Martino means the danger that constantly threatens man, that is the danger of not being part of any possible history, and therefore not being able to create any project of shared values. However, as an integral humanist, de Martino needs to constantly exorcise the danger of any apocalypse by building a mythical-ritual system of symbols (whether it be transcendent or immanent), which can mitigate the bitterness of history.


  1. La presenza: il mai deciso e il sempre deciso

È una scrittura, quella di de Martino, che non può essere scandagliata a prescindere dalla sua biografia.

Si tratta di una vita nella quale lo sforzo teoretico è inscindibile dall’impegno pratico, dalla volontà tutta umanistica di esorcizzare, attraverso l’esistenza condivisa e la costruzione del valore, l’apocalisse che minaccia ogni presenza nel mondo. L’uomo del resto è formatore di mondo, colui che costantemente trascende il nudo fatto della vita, nello slancio verso un ex-sistere che è perenne costruzione di senso. De Martino vive in prima persona le apocalissi del suo tempo: in prima istanza aderisce al fascismo come tensione verso uno Stato etico[1], partecipa poi alla resistenza sul fronte del Senio, dove ha modo di constatare dal vivo la barbarie in atto nei regimi totalitari, è spettatore sgomento della guerra fredda e del pericolo incombente di una distruzione globale a opera degli ordigni atomici.

Storicista sui generis, allevato alla scuola di Croce, ne rappresenta comunque un esponente eretico: la sua volontà tenace di dar vita a un’etnografia storicistica, cozza di fatto con le petizioni di principio crociane secondo cui dei Naturvölker non si dà storia, poiché con essi non c’è condivisione di «comuni ricordi e sentimenti», giacché essi «si ostinano a non entrare nella storia, la quale è lotta di libertà»[2]. E come intraprendere una storia di chi nella storia non è mai entrato?

Già a partire dall’opera maggiore, Il mondo magico, apparsa nel 1948 si delinea il percorso tutto inedito dell’autore, che scatenerà poco dopo l’ira del maestro. La ybris operata da de Martino consiste nella storicizzazione delle categorie, per Croce sorta di «aristotelico motore immoto, fonti supreme di tutti i concetti, condizioni di tutti i giudizi»[3], per de Martino costruzioni storiche e contingenti. La stessa ipseità, quel subjectum inteso come trascendentale a fondamento e garanzia del mondo, altro non sarebbe per de Martino che un approdo non sempre e non ovunque presente. Contro i sacri dettami del maestro de Martino ritiene che interpretare la presenza come dato astorico e uniforme, e mai come un istituto in fieri, comporti «l’ipostasi metafisica di una formazione storica», e sia emblema di un umanesimo circoscritto alla sola civiltà occidentale che riconosce unicamente le forme tradizionali[4].

Kant assumeva come dato astorico e uniforme l’unità analitica dell’appercezione, cioè il pensiero dell’io che non varia con i suoi contenuti, ma che li comprende come suoi, e di questo dato pose la condizione trascendentale nell’unità sintetica dell’appercezione. Ma come non esistono (se non per l’astrazione) elementi e dati di coscienza, così non esiste affatto una presenza, un empirico esserci che sia un dato, un’immediatezza originaria al riparo da qualsiasi rischio, e incapace nella sua propria sfera di qualsiasi dramma e di qualsiasi sviluppo: cioè, di una storia. Noi qui ci siamo imbattuti in un limite caratteristico della attuale consapevolezza storiografica propria della nostra civiltà […] Nella determinazione (e nella limitazione) attuale della nostra consapevolezza storiografica, l’esserci unitario della persona, la sua «presenza», si configura come il mai deciso o (che è poi lo stesso) il sempre deciso, e perciò stesso come ciò che non entra nel mondo delle decisioni storiche […] in qualsiasi mondo storico e culturale la presenza deve essere ricalcata su questo modello, e in nessuna forma di civiltà la realtà dell’assenza può essere concepita come un problema, come una realtà condenda, come un istituto in fieri. Si ha così la ipostasi metafisica di una formazione storica[5].

 

L’allargamento della coscienza occidentale, secondo de Martino, si ottiene ripercorrendo a ritroso i passi che l’umanità ha effettuato per giungere prima al concetto di anima, e infine all’ipseità intesa come ciò che non entra più nel mondo delle decisioni storiche.

Io e mondo cominciano a precarizzarsi, a divenire labili, in preda al pericolo costante di crisi e destrutturazione. A proposito del mondo primitivo, ove l’ipseità, così come la descrive la coscienza occidentale, non è ancora forgiata, de Martino scrive: «Crolla la distinzione fra presenza e mondo che si fa presente: il soggetto, in luogo di udire o di vedere lo stormir delle foglie, diventa un albero le cui foglie sono agitate dal vento […] In questa situazione psichica, nella quale la presenza si comporta come una eco del mondo, è sempre possibile che un’altra presenza prenda possesso di quella della vittima, e se ne faccia centro di azione»[6].

 

  1. All’ombra dell’apocalisse

Se è vero che più storicista del maestro, de Martino sostiene la non immutabilità delle categorie, d’altro canto, nello sviscerare una serie di mondi variegatissimi, ma tutti etnograficamente interessanti (da quello primitivo, a quello rurale del Mezzogiorno d’Italia, sino alle società scristianizzate della contemporaneità), l’antropologo si serve sempre del medesimo schema, che è la dialettica presenza-crisi-riscatto. Lo storicismo integrale di de Martino, nel suo stesso svolgersi sembra andare incontro a un’aporia e cedere a una sorta di strutturalismo o addirittura di ontologismo per il quale per l’appunto questa triade esistenziale sembra caratterizzare ontologicamente l’anthropos di tutti i tempi e di tutti gli spazi, a prescindere dalle molteplici declinazioni culturali e valoriali che esso di volta in volta, storicamente assume. L’apocalisse nella riflessione demartiniana va configurandosi come struttura eterna dell’umano, l’ombra inquietante e minacciosa che lo segue a ogni passo, e che necessita, per essere scacciata, di sempre nuovi sortilegi, rituali atti a mantenere vivo quel mondo simbolico che fa di ogni spaesata presenza nel mondo, un uomo. De Martino interpreta la presenza come energia oltrepassante, ovvero trascendimento della situazione nel valore. Essa è il già dato e il mai dato, esito di una decisione che va costantemente rinnovata. La presenza in ogni tempo si staglia a partire da un negativo, che è il rischio di non-esserci. Essa è apertura, possibilità che tuttavia coltiva al suo interno, come una malattia divorante, un’impossibilità radicale, che si configura come rischio, minaccia ma anche tentazione, lusinga, seduzione di non esserci in nessuna storia possibile, di smarrirsi come ex-sistenza, di smarrire l’aperto della Lichtung, abdicando a una vita come Benommenheit, stordimento ignaro di sé e incapace di costruire mondo[7]. Questa struttura vale sia per la labile identità del primitivo, sia per i contadini della Rabata di Tricarico, sia per l’intellettuale nichilista contemporaneo; tutti, secondo modalità diverse, esperiscono la deiezione, che non è, come voleva l’Heidegger di Sein und Zeit il quotidiano e poco preoccupante modo esistentivo di stare presso il mondo, bensì una condizione negletta da riscattare: «La deiezione, la Geworfenheit, l’essere-gettato-nel-mondo, è rischio che travaglia l’esserci-nel-mondo […] L’essere-gettato-nel-mondo significa già la presenza che si perde e che, perdendosi, perde il mondo. La Geworfenheit è il male estremo che minaccia, e da cui – al tempo stesso – si riscatta l’ethos della presenza»[8]. In questa gettatezza si sgretola la tracotanza della coscienza occidentale: quella della sostanza cartesiana che dubita per giungere al termine del dubitare col suo trofeo di dominio sull’ente; quella di un io penso che ordina il caos del mondo attraverso le categorie; quella di una ragione assoluta che fa coincidere senza strappi dolorosi l’essere e il dover essere. Non solo la presenza, ma finanche il mondo smette di essere dimora, luogo dell’appaesamento e della consuetudine con le cose, per farsi perturbante, mostruoso; il mondo, privato del senso, diviene segno che nulla indica. L’alienazione del e dal mondo emerge nei gesti caotici delle tarantolate del Salento, nell’ebetudine stuporosa delle lamentatrici lucane, nell’angoscia di Antoine Roquentin[9] davanti a una serie di oggetti che smettono di comunicare e che diventano irriconoscibili: la presenza non si riflette più attraverso di essi ed essi non riflettono più la presenza. Il legame io-mondo, consueto e irriflesso, si recide d’un colpo, l’esserci sembra indietreggiare, allontanarsi dalla chiarità luminosa della radura, in direzione di un passato oscuro, senza linguaggio come dimora, verso una nuda vita che non si fa parola, che non traduce i propri dintorni in simboli, poiché sembra aver perso la possibilità di accesso alla manifestatività dell’ente. L’angoscia allora prende il sopravvento: «nell’angoscia il nulla avanza: non il nulla di questo o di quello, ma della stessa energia culturale qualificante […] L’angoscia è sempre angoscia della storia»[10]. L’angoscia determina allora l’isolamento, la chiusura solipsistica di una presenza incapace di trascendimento che «perde rapporto con i compiti di universalizzazione e di valorizzazione che la fondano come presenza»; si tratta del «regredire della socialità e della comunicabilità verso il privato, il cifrato, l’incomunicabile»[11].

Promotore di una chiara istanza umanistica, de Martino si lascia tuttavia sedurre costantemente da un’irrazionale contro cui intraprende la propria battaglia personale. Tra gli strumenti euristici utilizzati per sviscerare il dramma della presenza c’è il documento clinico, l’analisi della psicopatologia, forma di apocalisse senza riscatto perché preclude alla presenza la possibilità di un mondo condiviso, laddove essa deve essere «orientata sempre verso l’intersoggettivo, cioè verso una decisione che vale per una società e una cultura storicamente condizionate»[12].

In ogni tempo la presenza è a rischio, ma in ogni tempo sorge la possibilità di redenzione: se l’angoscia si configura come angoscia della storia è necessario elaborare delle tecniche che mitighino la sua asprezza. Il talismano contro la ferocia della storia è il dispositivo mitico-rituale: «La vita religiosa nasce innanzitutto come ripresa che arresta la alienazione della presenza in una configurazione definita (mito) e in un orizzonte operativo che stabilisce un rapporto con l’alienazione così arrestata e configurata (rito)»[13]. Nell’ambito della configurazione mitico-rituale si innesca il meccanismo di destorificazione attraverso il quale i momenti di particolare gravità, dove la presenza è a rischio di perdersi, vengono sottratti «alla iniziativa umana» e risolti «nella iterazione dell’identico, onde si compie la cancellazione o il mascheramento della storia angosciante […] Per una vitale pia fraus si sta nella storia come se non ci si stesse […] Sebbene la destorificazione sia vissuta dal credente come rifiuto della condizione umana, ciò che da essa procede non è una reale destorificazione […] ma il dispiegarsi delle potenze operative dell’uomo, onde all’ombra del divino si matura l’umano, e per entro il sacro si dischiude il profano e il laico»[14].

 

  1. Apocalissi senza éschaton?

Ma cosa accade nell’epoca della morte di dio e di una tecnica totalmente dispiegata che sembra procedere in direzione di un’apocalisse senza éschaton? De martino cerca di spiegarlo all’interno delle note preparatorie a La fine del mondo, grande opera incompiuta, che apre il sipario su una miriade di riflessioni che riguardano il tempo in cui l’autore visse e operò.

De Martino tenta un’analisi dell’apocalisse culturale che investe la coscienza occidentale moderna. La riflessione sull’apocalisse moderna sembra essere l’epilogo di un frammentario excursus che si snoda attraverso lo studio delle apocalissi psicopatologiche, passando per il dramma dell’apocalisse cristiana, fino a giungere ai movimenti di decolonizzazione dei paesi in via di sviluppo e all’apocalisse marxiana. Secondo de Martino la crisi che investe la coscienza occidentale sembra presentarsi senza riscatto, apocalisse senza éschaton: si tratta della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte salvifico «nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile»[15]. Nel presente dell’autore pare farsi strada il dispositivo contrario a quello della dialettica esaminata: la presenza è soggiogata dal tremendum e dal fascinans dell’apocalisse, si trastulla in un’insana passione per l’assurdo, per il non senso, gioca costantemente a dadi con un irrazionale che evoca senza però fabbricare i simboli per scongiurarlo. L’esserci sembra stagliarsi allora in una danza cieca e folle sull’orlo dell’abisso; nell’epoca del nichilismo compiuto l’umano sembra avventurarsi verso la fine con lo stupore sorridente del primo uomo davanti all’eden che sta perdendo; in caduta libera verso una fine intesa come impossibilità di ridar vita a un mondo di valori condiviso. L’epilogo de La fine del mondo mostra tuttavia l’impossibilità di rassegnazione all’apocalisse. Come umanista integrale de Martino intende la costituzione dell’esserci come dover-essere, costante trascendimento della vita nel valore, costruzione mai paga di narrazioni, simboli, miti che conducano al senso: «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante […]»[16].

Si profila allora una descrizione dell’umanità come compito, un ethos che è abitare condiviso, entro il quale l’uomo sceglie costantemente di farsi umano, esorcizzando la perenne minaccia dell’apocalisse che è in lui.

 


[1] Per una ricostruzione dettagliata del percorso demartiniano rispetto al fascismo si cfr. R. Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Manifestolibri, Roma 1999.

[2] B. Croce, L’umanità e la natura, in Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949. Alle pp. 247-248 leggiamo a proposito dei Naturvölker che: «zoologicamente e non storicamente sono uomini», perciò su di essi «si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini, vietandosi la crudeltà che è colpa contro ogni forma di vita, ma lasciando altresì che di essi si estingua la stirpe».

[3] Id., Intorno al magismo come età storica, in Filosofia e storiografia, cit., pp. 193-194.

[4] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 159-160.

[5] Ibid., pp. 159-160.

[6] Ibid., p. 72.

[7] A tal proposito si confronti M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine, tr. it. Il Melangolo, Genova 1999.

[8] E. de Martino, I fondamenti di una teoria del sacro, in Storia e metastoria, Argo, Lecce 1995, p. 104.

[9] J. P. Sartre, La nausea, tr. it. Einaudi, Torino 2005.

[10] E. de Martino, I fondamenti di una teoria del sacro, cit., pp. 109-111.

[11]Ibid., p. 105.

[12]Ibid., p. 101.

[13]Ibid., p. 79.

[14] Id., Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, cit., pp. 62-63.

[15] Id., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 468.

[16] Ibid., pp. 669-670.

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